La pensione complementare dovrà accompagnare (al mese) quella di base
09 Novembre 2010
La Commissione di vigilanza sui fondi pensione – COVIP – nei giorni scorsi ha puntualmente resi noti i principali dati statistici del settore della previdenza complementare alI’ottobre del corrente anno. In essi trova conferma la lenta crescita delle adesioni alla previdenza di secondo pilastro.
Detta crescita è esclusivamente dovuta al buon andamento dei “PIP” di nuova generazione, cioè dei piani pensionistici assicurativi, i quali, sempre più, si confermano protagonisti del comparto, anche avuto riguardo al segmento dei lavoratori dipendenti. Gli aderenti alle diverse realtà di previdenza complementare risultano, complessivamente, poco più di 5,2 milioni, di cui poco meno di 3,8 milioni rivestono la qualifica di lavoratori subordinati. Il totale delle riserve accumulate, per far fronte alle future prestazioni, ammonta a circa 77,6 miliardi di euro.
Se i dati in precedenza sommariamente richiamati non appaiono del tutto sconfortanti, certamente ancora una volta denunciano quanto ancor poco sussista una diffusa percezione dell’imprescindibile necessità di una diffusa copertura di previdenza complementare. Non solo, ma da tecnico del settore, non posso non attestare come, nel comune sentire, troppo spesso la prestazione che si vorrebbe conseguire da un piano di previdenza complementare si sostanzia in un capitale e non già in una rendita periodica. Questa aspettativa appare una vera e propria distorsione, rispetto alle necessità pensionistiche future. Al riguardo occorre rammentare come l’ordinamento del comparto della previdenza complementare, sin dal suo primo formarsi organico – mi riferisco al decreto legislativo n. 124 dell’ormai lontano aprile del 1993 – abbia correttamente individuato nell’erogazione di rendite, da affiancare agli assegni pensionistici di base, la prestazione principe, che le forme di previdenza complementare medesime sono funzionalmente chiamate ad attribuire.
La finalità ultima di corrispondere rendite vitalizie, in effetti, è coessenziale alla natura pensionistica dei fondi di previdenza complementare e la natura/funzione pensionistica differenzia in via specifica questi ultimi da altre entità od organismi di raccolta e di gestione collettiva o individuale del risparmio.
Sul tema della natura/funzione pregnantemente pensionistica della previdenza complementare – sia detto per inciso – non sono mancate ripetute pronunce della Corte Costituzionale, la quale, senza esitazione, ha considerato in via unitaria l’assegno pensionistico di base e quello complementare, anche per i profili di adeguatezza dei trattamenti previdenziali , di cui all’art. 38, comma 2, della Costituzione.
La necessità strutturale che la previdenza di secondo pilastro eroghi rendite e, nel concreto, rendite il cui ammontare sia di effettiva rilevanza economica, è alla base della forte spinta legislativa verso la costituzione di un accumulo di risorse, ad opera del singolo lavoratore – in primo luogo subordinato, posto che, di fatto, la disciplina di settore è stata modellata innanzitutto avendo presenti le caratteristiche e le necessità dei dipendenti – di ammontare finale (cioè all’atto dell’utilizzo pensionistico) tutt’altro che simbolico. E’ fattore di palese evidenza, sebbene non formalmente esplicitato, che il legislatore induca ad accantonamenti annui di “risparmio previdenziale” ragguagliabili ad almeno una decina di punti percentuali di retribuzione. Si tratta di un traguardo quantitativo certamente oneroso, ma non di arduo raggiungimento per i lavoratori subordinati, a condizione che essi indirizzino il trattamento di fine rapporto integralmente a previdenza complementare. Posto che, com’è noto, il TFR corrisponde a circa 7 punti della retribuzione annua, l’aggiunta ad esso di un contributo datoriale, di non ingente misura, e di un apporto del lavoratore (complessivamente, tra le due fonti, di un 3 o 4 punti percentuali), consente di raggiungere ed anche di superare la “soglia/obiettivo” del 10%.
Ciò posto, va ricordato che, secondo simulazioni generalmente condivise, è da ritenere che un accantonamento, condotto per 40 anni, di apporti contributivi, ragguagliati al 10% della retribuzione tempo per tempo percepita dal lavoratore – il che vuol dire, a conti fatti, quasi cinque anni di stipendio – uniti al reddito conseguito nel corso degli anni dalla gestione finanziaria dell’accantonato, consenta di pervenire alla formazione di un montante di risparmio previdenziale finale, suscettibile di generare una rendita – cioè a dire: una pensione complementare – con un tasso di sostituzione ragguagliabile al 20% ( per taluni anche 25%) del reddito lavorativo ultimo percepito dall’interessato al momento del pensionamento. Un peso del 20% della pensione complementare, da un lato appare, una misura congrua da giustapporre a quello della pensione di base, destinata, prospetticamente, ad attestarsi mediamente su di un tasso di sostituzione del 45 – 50%. Dall’altro, rende evidente la funzione essenziale della previdenza complementare stessa per pervenire alla corresponsione di un trattamento pensionistico unitario, adeguato, in linea con le esigenze del lavoratore anziano e, quindi, conforme al già richiamato dettato dell’art. 38, comma 2, della Costituzione. Dati giuridico formali a parte, quello che conta sarà tuttavia, ripeto, il poter fornire una copertura pensionistica idonea a sovvenire alle necessità di vita della vecchiaia, in linea con la missione sociale affidata, negli anni ‘80 del XIX secolo, all’allora neocostituito sistema pensionistico nazionale, dal Cancelliere Bismarck, benemerito fondatore – sebbene, forse, largamente inconsapevole – di quell’assetto complessivo di Welfare, che, opportunamente riformato, tuttora positivamente connota la cultura dell’Unione Europea.