La perfetta letizia della povertà. San Francesco secondo Massimo Cacciari
11 Marzo 2012
di Luca Negri
Vasta è la bibliografia su San Francesco d’Assisi, tante sono le letture, le interpretazioni della sua vita e delle opere. Non di rado si tratta di mistificazioni, dato che nel Serafico c’è chi ha visto il socialista, l’hippy, un profeta new age. Stesso destino di Cristo, dalle stigmate alla chiacchiera postmoderna. La trasmissione della loro esistenza pare condannata alla tensione verso il tradimento. E poggia tutta sulla Chiesa la pesante responsabilità di reggere l’ancora, per evitare il naufragio nel caos delle interpretazioni, nel logoramento della civiltà della critica.
Nella Chiesa Francesco ci credeva eccome, e le ubbidiva; è paradossale, ma tocca ripetere questa evidenza storica, perché qualcuno se lo figura come un ribelle a Roma, che voleva tutti indigenti, non solo sé stesso e i suoi confratelli. Francesco era cattolico. E sempre cattolici, aristocrazia di una cultura assolutamente cattolica, furono i primi artisti che trasmisero la sua opera: Dante e Giotto, non a caso fratelli del Terzo Ordine francescano, quello più esterno e meno vincolato alla regola.
Massimo Cacciari ha dedicato il breve e denso saggio “Doppio ritratto” (Adelphi) all’incontro dei due “migliori fabbri del volgare europeo” nella figura di Francesco. Ovvero nella cantica del Paradiso e negli affreschi della basilica di Assisi. “Questa storia deve essere a tutti narrata”, si dicono i fratelli e così dice anche Roma. Ed eccolo il vero Francesco, fedele per quanto è possibile nella memoria di chi è venuto subito dopo di lui, ecco una radicalità che mette in fuga le maschere deformanti messe sulla faccia e sul messaggio del Santo. Compreso il paradosso di accettare la trasformazione della comunità in ordine monastico, per sentirsi ancor più un organo, una cellula del corpo di Cristo.
Tutto il paradosso, che ben considerando è quello della Chiesa stessa, è nel rovesciamento dei valori francescano, in quella “forma straordinaria di santità che ispira la nuova arte” dell’apogeo del Medioevo. Per la generazione di Dante e Giotto l’itinerario della mente in Dio è bilanciato dalla concretezza della memoria storica di Francesco, dal suo esserci stato in corpo, anima e stigmate. Ecco la via per trasumanarsi, ecco il perfetto equilibrio fra Chiesa spirituale ed istituzionale, per reggere la “prossimità col profano”.
L’eresia catara, il dualismo fra corpo e anima, col corollario della malvagità del corpo e della natura tutta, venne vinta dal Cantico delle Creature. La materia è buona (anche se anela, come noi, la redenzione), abbiamo con lei un rapporto di fratellanza, siamo figli dello stesso padre. Noi umani siamo i figli minori, i più piccoli, nati ultimi: però gli eredi. Ci tocca lodare. Infatti nel Cantico le creature sono lodate per lodare il Padre Altissimo, anzi sono lodate attraverso il Padre Creatore stesso. Francesco non era un panteista che adorava la natura, adorava la causa prima lodando il fenomeno (non esclusa sorella morte).
Ma dopo il testamento poetico di Francesco, versi che danno il La alla letteratura del nostro paese, arrivano il Poeta e il Pittore, sorge il “cantiere di Assisi”, il “nuovo oriente” che sente il bisogno di “imporre il volto di una santità prossima, affine a quella di Gesù”. Santità da rappresentare attraverso storie, per dimostrare ancora una volta che quando siamo al cospetto dei santi “nella finitezza della creatura, nelle ombre del suo spazio-tempo, la luce si fa visibile”.
Col la penna Dante “dipinge la summa della sua idea di cattolicità, come concordia di opposti, come comunità di destino”. In Paradiso San Tommaso, il massimo sforzo della ragione verso Dio, si inchina alla “follia della croce francescana”. Ma il francescanesimo dell’Alighieri non deraglia mai nelle eresie dissolutici dei fanatici di Gioacchino da Fiore. San Tommaso s’inchina, ma c’è posto anche per lui: Atene (la ragione) e Gerusalemme (la follia profetica) sono altri due piatti della bilancia.
Sempre una questione di equilibrio, di complementarità, quella delle immagini diverse del Santo tramandateci dai due artisti: il Francesco di Giotto è inginocchiato di fronte al Papa, mentre nel poema dantesco il Vicario di Cristo si vede costretto a sancire la spiritualità del Serafico per decreto della Provvidenza. Inoltre, Dante non si dedica alle leggende ma al messaggio storico e politico; nella Commedia il Serafico “non predica e fiori e uccelli”, come negli affreschi di Giotto, ma “a questo bestiario di uomini del suo secolo”.
E’ forse l’ulteriore paradosso delle nozze con “madonna povertà” che non si lascia catturare pienamente dai due artisti devoti, nonostante l’attenzione che gli dedicarono nelle loro opere. “Povertà è la violenza di chi vuole il Regno. Soltanto il povero è veramente potente”, scrive Cacciari; lo “svuotamento del sé” simile a quello voluto da Dio per creare la realtà. La totale apertura all’altro che diventa negazione di ogni disprezzo per il mondo” la si trova in un racconto della “Compilatio Fiorentina”, non nei capolavori di Dante e Giotto A Francesco viene negata dai fratelli un riparo nella notte gelida, rimane solo nel buio e al freddo. È perfetta letizia: finalmente è poverissimo, abbandonato dai suoi stessi discepoli come Gesù nell’orto dei Getsemani, dove, si dice, patì l’intero dolore dell’umanità passata, presente e futura.