
La porta stretta dei patrioti che non hanno smarrito il senno

24 Gennaio 2021
Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica avrebbe dovuto rappresentare anche il passaggio da un sistema politico fondato su una (o anche più) conventio ad excludendum a un sistema politico fondato sulla legittimazione reciproca tra i principali attori e tra due coalizioni. Questa mutazione genetica, d’altro canto, avrebbe dovuto attestarla il cambiamento del sistema elettorale: dal proporzionale al maggioritario. Il primo è quasi un obbligo quando le maggioranze si devono formare con coalizioni centriste in quanto le “estreme” (nella storia italiana è accaduto con il PCI e il MSI) non sono “abilitate” a governare; il secondo, per ben funzionare, ha bisogno che al centro, piuttosto che i partiti, vi siano gli elettori moderati che a seconda dei casi e della capacità di attrazione esercitata dagli schieramenti, votano a destra o a sinistra.
Il fatto è che, in realtà, il problema della “legittimazione reciproca” nell’Italia repubblicana non è mai stato risolto. Anzi, si è andati indietro come solo i gamberi sanno fare. Nella cosiddetta Prima Repubblica tra i partiti del sistema e il Partito Comunista esisteva una forma strisciante di reciproco riconoscimento. Questo si alimentava del fatto di avere firmato insieme la Carta Costituzionale nel 1948; di alcune prove di moderazione che il PCI aveva fornito, ad esempio al momento dell’attentato a Togliatti; di uno scambio di potere (il cosiddetto consociativismo) che si praticava soprattutto nelle commissioni parlamentari al riparo dei riflettori e che, da un certo momento in poi, è stato “blindato” dalla istituzione delle regioni e dalla spartizione dell’informazione pubblica.
Durante la Seconda Repubblica si è fatto assai peggio: l’antiberlusconismo congenito, la invadenza del potere giudiziario in alcuni frangenti decisiva, l’aver considerato il tema della riforma della Costituzione in modo strumentale (a seconda delle fasi storiche, tanto dal centrodestra quanto dal centrosinistra), hanno alimentato una sorta di guerra civile a bassissima intensità, hanno fatto più volte fallire l’appuntamento con la riforma condivisa e hanno privato il cambio del sistema elettorale di quella forza rivoluzionaria che avrebbe potuto avere incidendo sulle istituzioni e sulle mentalità. Passare dal proporzionalismo a un impianto maggioritario avrebbe infatti potuto promuovere la logica della conflittualità controllata assolutamente estranea alla politica italiana. E invece, Marx avrebbe detto che quella riforma al più ha modificato la “sovrastruttura”, ma non è stata in grado d’intaccare la “struttura”. Più prosaicamente, il Principe Fabrizio avrebbe chiosato che è stato un modo per cambiare tutto al fine di cambiare il meno possibile.
La nascita della “variante populista” che ha inaugurato il terzo tempo della Repubblica ha certo ragioni complesse che si rifanno agli scenari internazionali e a un cambiamento epocale nel rapporto tra il popolo e le élite legato soprattutto alle nuove frontiere della comunicazione. Certamente, però, l’aver fallito l’appuntamento con la legittimazione reciproca da parte dei protagonisti della Seconda Repubblica ha creato un terreno di coltura eccezionalmente favorevole al manifestarsi di questa ondata e ha posto le premesse per l’eccezione italiana.
E così siamo arrivati alle porte dell’emergenza pandemica: la più grave della storia della Repubblica, peggiore anche di quelle che abbiamo vissuto negli anni bui delle stragi e del terrorismo perché è una crisi che investe al contempo la dimensione sanitaria, quella economica, quella antropologica. Tra cento anni, sui libri di storia, leggeremo che in questo torno di tempo più di centomila nostri connazionali hanno perso la vita, il debito pubblico ha sfondato il muro del 150% in rapporto al Pil, alcune categorie sono state economicamente annientate e nelle relazioni sociali si sono registrati disturbi e devianze che potrebbero piegare una generazione.
Nemmeno questo, però, evidentemente basta a considerarci tutti italiani e a darci un governo di emergenza che superi le divisioni di parte e attinga dalle migliori energie che ognuno è in grado di mettere in campo. Sull’orlo del baratro, il gioco preferito dai politici resta quello di delegittimarsi. Conte propone un governo fondato su una nuova conventio ad excludendum (dall’anti-fascismo all’anti-sovranismo); dall’altra parte si risponde chiedendo elezioni, come se le difficoltà del momento fossero solo un problema degli altri.
E così si pongono le premesse perché neppure una tragedia nazionale possa rappresentare il terreno sul quale edificare una stagione politica che sciolga finalmente il nodo gordiano della legittimazione reciproca. A meno che ci sia chi abbia la forza e il coraggio, in questo contesto, di mettersi in mezzo: non cedere al ricatto e non trasformarsi in “responsabili” senza responsabilità e, allo stesso tempo, accettare di avere se non nemici, quantomeno competitori a destra. Solo così si può creare lo spazio per costruire qualcosa di nuovo e solo così si possono mettere le fondamenta per una casa di quelli che, con termine improprio, vengono definiti “moderati” e che, invece, in questo contesto preferiamo chiamare patrioti che non hanno ancora del tutto smarrito il senno. La porta è stretta ma si deve provare a passare.