La prescrizione quale fondamento della civiltà giuridica occidentale

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La prescrizione quale fondamento della civiltà giuridica occidentale

La prescrizione quale fondamento della civiltà giuridica occidentale

03 Agosto 2021

Trattare di diritto (sia civile che penale) in ambito occidentale significa doversi confrontare con l’esperienza millenaria del diritto romano: il cosiddetto “jus”.

Confronto che richiede una fondamentale cautela: che è quella di evitare, sul piano storico, di proiettare a ritroso le concettualizzazioni moderne e contemporanee.

In particolare per quanto concerne un istituto delicato e complicato come la prescrizione in cui il riferimento al diritto romano deve naturalmente prescindere dalla suggestione che potrebbero esercitare le logiche proprie dell’età moderna e contemporanea che tendono ad individuarne la ratio nella “temporalità della azione e del processo” e nell’esigenza di una migliore amministrazione della giustizia.

Stante l’approccio casistico dei giureconsulti romani e la loro ritrosia ad una “concettualizzazione sistematica” dello “jus controversum” e dell’azione penale il fondamento della prescrizione è senza dubbio di difficile individuazione e risponde, probabilmente, ad un ventaglio di criteri e di valutazioni non sempre riconducibili ad unità.

Le fonti (ed in particolare la testimonianza di Cassio come chiaramente sostenuto da Maruotti) ci indicano però una direzione abbastanza precisa: nelle azioni penali è opportuno che “la soddisfazione segua rapidamente all’offesa” e, dall’altra parte, alla severità della sanzione deve fare riscontro (oltre all’intrasmissibilità dal lato passivo) la previsione di un tempo breve in cui la vittima possa attivare il meccanismo punitivo predisposto dall’ordinamento giuridico.

La successiva giurisprudenza classica sembra schierata in favore dell’osservanza della “rigida regola di Cassio” in ordine all’ipotesi di prescrizione estintiva.

Perchè è importante il confronto, anche e soprattutto nell’attualità, con il diritto romano?

Perchè come chiarito dagli attuali studiosi della materia lo “jus” è stato veramente un'”invenzione” dell’occidente. Tant’è che la parola jus non deriva e non ha parentele con alcun altro termine o concetto nell’area mediterranea precedente o coeva allo strutturarsi del diritto romano.

In realtà anche il diritto romano, nella prima fase (quella cosiddetta del fas) risulta strutturato e compenetrato nella cosiddetta “sindrome prescrittiva” di tipo religioso ritualistico: sindrome prescrittiva che ritroviamo anche e soprattutto nel giudaismo.

Ma a differenza del giudaismo dove la sindrome prescrittiva di tipo religioso finisce per informare di sè non solo il diritto ma anche le altre componenti intellettuali, nel diritto romano con una complicata – e fortunata – evoluzione dei rapporti gentilizi il diritto positivo si affranca dal diritto religioso per poi trasformarsi in quel concetto “lo jus” che nel suo pragmatismo, senza più il vincolo della sindrome prescrittiva religiosa, diventa, soprattutto grazie alle magistrature ordinarie, lo strumento principe della vocazione “imperiale” di Roma al pari delle legioni.

Tale affrancazione appare in tutta la sua evidenza nella definizione di Roma e del suo jus di Rutilio Namaziano (…fecisti patriam diversis gentibus unam…urbem fecisti quod prius orbis erat).

In tale definizione è per così dire “scolpita” la vocazione “laicista” dell’ordinamento romano repubblicano prima imperiale poi rispetto ad un diritto di matrice religioso misterico arcaica mantenuto in alcune oscure formule giuridico di tipo residuale.

Con Giustiniano la sindrome prescrittiva religiosa riprende il suo vigore e ritorna ad informare di sè anche lo jus ponendo le basi di quello che diventerà il prototipo dello stato “etico” e cioè il Sacro Romano Impero. Basti un esempio: al fine di favorire i monasteri e le chiese tra il 530 e il 535 d.C. Giustiniano, per tali enti, portò a 100 anni il termine di prescrizione (addirittura affermando con la disposizione in c1.2.23 che avrebbe preferito l’imprescrittibilità di tali azioni).

Di tal che la prescrizione da strumento operativo di un diritto indipendente dal sacro (il famoso “quod est veritas?” di Ponzio Pilato) viene recuperata all’interno di un diritto che si fa “divino”: il cosiddetto diritto canonico.

Ed i due diritti: il diritto civile ed il diritto canonico i cosiddetti “utrique iuris” iniziano il loro cammino con la preponderanza di individualità derivante dal maggiore potere della Chiesa del secondo sul primo.

Ed invero il fondamento logico c’è.

In ragioni di fede e nel processo teologico o canonico il tempo è una variabile indipendente.

Mi piace ricordare il tema centrale de “Il nome della rosa” di Umberto Eco ove nel Monastero era stato indetto un Concilio per ribattere sulla millenaria questione e cioè se “Cristo avesse o meno la proprietà degli abiti che i soldati romani si erano giocati a dadi”.

In tali questioni (tese al raggiungimento di una verità teologica, attraverso un procedimento scandito da norme precise o “processo”) la prescrizione in sè non ha nemmeno senso in quanto sovrastata dalla tensione escatologica della ricerca della “verità” quale imperativo etico.

Tale traslazione impropria del raggiungimento dell’imperativo etico di verità all’interno del procedimento soprattutto penale è alla base degli elementi ordinamentali degli stati religiosi od etici.

Con l’illuminismo prima e la rivoluzione francese poi (a parte il breve periodo del terrore quasi stato etico) il diritto positivo riafferma la sua autonomia dalla sfera religiosa e, in alcuni paesi come il nostro sia pure con difficoltà, tende a ricondurre il concetto di prescrizione in azione penale al pragmatismo di un ordinamento laico e non confessionale.

Ma la commistione dell’elemento dello stato etico rispetto al pragmatismo dell’ordinamento laico rimane una “tentazione” ricorrente.

Sostanzialmente con l’errore concettuale (in mala o buonafede) di quello che in retorica si chiama salto di genere.

E cioè l’attribuzione al processo penale della ricerca della Verità in senso etico astratto universale: ricerca che non può essere certo ostacolata da termini che ne possano intralciare la tendenziale perpetuità.

In buona sostanza la visione etica del processo penale risulta inconciliabile con la prescrizione che viceversa trova il suo fondamento naturale e di giustizia all’interno dell’ordinamento laico non confessionale.

Il quale ultimo non ha lo scopo di perseguire la “verità etica” bensì la giustizia: giustizia per l’offeso ma anche giustizia per il reo.

Ora le imperfezioni di un modello democratico di tipo laico non confessionale sono innumerevoli: ma gli orrori degli stati etici hanno segnato il secolo scorso.

Il senso dello Stato è perseguire la Giustizia: il senso della verità etica lasciamolo alle religioni nelle quali ogni cittadino si può o si vuole (o meno) riconoscere.