La presunzione fatale della “tax prodian vision”

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La presunzione fatale della “tax prodian vision”

21 Agosto 2007

Tentiamo di mettere un po’ d’ordine nella selva di dichiarazioni che hanno seguito le parole del card. Bertone. Dichiarazioni discutibili, in quanto il più delle volte figlie della perenne tentazione di accreditarsi come esegeti ufficiali delle sue parole. Parole pronunciate durante la visita del Segretario di Stato all’inaugurazione della ventottesima edizione del Meeting di Comunione e Liberazione.

Già in passato mi sono occupato del tema sollevato dal premier Romano Prodi, relativo all’esigenza che “chierici celebranti” dessero una mano ai “laici burocrati” nell’espletamento delle funzioni di esattoria (un’improbabile alleanza tra “fra’ Tac” e lo “sceriffo di Nottingham”). Abbiamo già evidenziato il carattere teorico e l’inconsistenza delle pretese del nostro Premier.

L’occasione per tornare sull’argomento ci è offerta da alcune frasi pronunciate dal Segretario di Stato, il card. Tarcisio Bertone. Le parole di Bertone sulla questione fiscale sono state commentate da Prodi con un gran sorriso; della serie “che cosa vi avevo detto?”, ovvero: “Il Segretario di Stato Vaticano è perfettamente d’accordo con me”. Per dovere di cronaca Prodi ha detto che lui è perfettamente d’accordo con il card. Bertone, ma si tratta di una questione formale: politically correct.

A questo punto, però, leggiamo che cosa avrebbe detto di così prodiano il card. Bertone. Le frasi del presule sono le seguenti: “Tutti devono pagare le tasse” perché “è un nostro dovere” e questo deve essere fatto “secondo leggi giuste”. Tutti dobbiamo pagare le tasse perché mediante le istituzioni democratiche abbiamo optato per una soluzione del dilemma tra quali beni debbano essere erogati dal pubblico e quali dal privato, tale da comportare un determinato livello di spesa. Tale spesa dovrà essere pagata del cittadino sovrano, il quale – sempre democraticamente – potrebbe in qualsiasi momento modificare la scelta e optare per un nuovo equilibrio, chiedendo al pubblico di astenersi dall’erogazione di un bene qualora la sua produzione appaia più conveniente se gestita dal settore privato; e viceversa. In definitiva, per non tornare su temi già trattati, le tasse servono a finanziare la spesa pubblica e il livello di quest’ultima non rappresenta in nessun modo un dogma politico, né tanto meno religioso. Ne consegue che anche i metodi di finanziamento di tale spesa devono essere lasciati all’autonomia della politica, ovvero del cittadino sovrano, il quale dovrebbe poter essere messo nelle condizioni di scegliere tra opzioni alternative.

Ad ogni modo, il card. Bertone non si è limitato ad affermare il dovere di pagare le tasse, ma ha anche affermato che le imposte devono rispondere a un principio di giustizia. Tralasciamo le questioni metafisiche su che cosa sia giusto, mi chiedo: se la maggioranza dei cittadini sovrani dovessero ritenere eccessivo il carico fiscale, riconoscendo pienamente l’autonomia dell’ordine religioso da quello politico, non sarebbe dovere del legislatore registrare tale considerazione e modificare il livello di spesa pubblica per consentire un minore carico fiscale? In termini politici, allora, quando una legge è ritenuta ingiusta? Perché mai la vision prodiana sul livello di spesa pubblica e sul relativo carico fiscale (e veceversa) dovrebbero rappresentare una sorta di paradigma del “buon politico”, ovvero del cristiano impegnato in politica? Le alternative sono tali e tante alla Tax Prodian Vision che non si capisce il motivo per cui, affermare che bisogna pagare le tasse quando sono poste da leggi giuste, svincolerebbe il nostro Premier dal dover rendere conto dell’equità della sua politica fiscale; un rendere conto al cittadino sovrano. Il card. Bertone ha semplicemente parlato di leggi giuste, in base a quale “presunzione fatale” Prodi può affermare che Bertone stesse parlando proprio delle sue leggi?

Per di più, il card. Bertone ha aggiunto che il politico cristiano deve essere attento “nel destinare i proventi delle tasse a opere giuste e all’aiuto dei più poveri”. Ebbene, tralasciamo le questioni di ordine morale, per le quali in passato il Premier ha già manifestato disinteresse ovvero disappunto (Referendum e legislazione su coppie di fatto), rivendicando incomprensibilmente la sua identità di cattolico “adulto”, ebbene, soltanto uno statalista fuori stagione può credere che allo “Stato” spetti il compito esclusivo e di prima istanza di aiutare i poveri. A questo punto tutta la dottrina sociale della Chiesa, dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, passando per la Quadragesimo anno, ci dice che nel campo dell’ordine sociale vale il principio di sussidiarietà: prima dello stato vengono le associazioni, i corpi intermedi, i “piccoli plotoni”, i mondi vitali, tutte quelle realtà spontanee che per ragioni logiche, morali ed economiche vengono prima dello stato. Allo stato spetta un compito di supplente, e come tutti sanno i supplenti sono tempo determinato. Proprio nella Centesimus annus leggiamo un brano che lascia pochi margini alle strumentalizzazioni statalistiche: “Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese” (n. 48).

L’attuale Pontefice, al centro della sua prima enciclica, la Deus caritas est, ha posto alcune questioni di ordine sociale, ed in particolare i temi della giustizia e della carità. L’articolazione della carità sociale indicata da Ratzinger prevede la figura del “prossimo” e non dello Stato paternalista che tutto sa, tutto fa e tutto può: “Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno” (n. 28b).

Allo Stato, Benedetto XVI, al pari di Pio XI, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, nega il ruolo di ente che “regoli” e “domini” la complessità della vita sociale, ad esso spetta il compito, semmai, di “riconoscere” e di “sostenere” le iniziative che sorgono dalle diverse organizzazioni sociali che spontaneamente emergono dalla società civile, secondo la più classica esposizione del principio di sussidiarietà. Assistiamo, quindi, ad un’autentica rivoluzione paradigmatica in ambito socio-politico-economico, preparato in più di un secolo di storia della moderna dottrina sociale (1891-2006), che interessa anche l’articolazione dello Stato e la teoria del welfare: è il definitivo passaggio dal paternalismo di stato al paradigma dell’autogeverno (o della sussdiarietà).

La continuità della linea esposta dal card. Bertone è ancor più evidente se si considera l’invito rivolto dal Segretario di Stato ai cristiani impegnati in politica. È un invito che rinvia al salmo 71 il quale, parole del Cardinale, “dovrebbe essere il programma del politico cristiano: rendere giustizia ai poveri e salvare la vita ai miseri. Il politico – continua Bertone – deve avere attenzione ai più deboli e ai poveri e far sì che non ci siano ingiustizie nella distribuzione delle risorse dello Stato”.

È compito, pertanto, di tutte le donne e di tutti gli uomini che compongono la complessa rete della società civile impegnarsi secondo le proprie capacità, aspirazioni e possibilità per dar vita ad un insieme di organismi posti al servizio di quella fondamentale norma che regola l’esistenza dello Stato. La sussidiarietà, allora, è il nome che assumono oggigiorno le tradizionali nozioni di solidarietà e di giustizia sociale, vissute nella dimensione integrale della Caritas. La sussidiarietà, se sperimentata nella dimensione della Carità cristiana: “vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” – la misura dell’amore di Dio per l’uomo è la Croce –, rappresenta la modalità adeguata ai nostri giorni di sperimentare la tradizionale virtù della giustizia sociale, ovvero, la virtù di dar vita ad associazioni per amor proprio, del prossimo, della propria famiglia e della comunità prossima o remota che sia.

La negazione di tale principio di carità personale in nome di un welfare che si pretende definitivamente giusto ed onnipotente, scrive Ratzinger nella Deus caritas est, non è altro che il tentativo di nascondere dietro ipotetiche buone intenzioni la più esacerbata visione materialistica dell’uomo: “il pregiudizio secondo cui l’uomo vivrebbe di ‘solo pane’”. Per Ratzinger e per l’intera tradizione della dottrina sociale della Chiesa, una simile prospettiva antropologica umilierebbe l’uomo e finirebbe per disconoscere ciò che di più umano c’è nell’uomo: la sua tensione ad amare.