La repressione sessuale nel mondo arabo può armare i martiri e le piazze
03 Marzo 2011
di Luca Negri
Le ragioni della rivolta collettiva che sta ridisegnando il profilo delle nazioni islamiche sono molteplici, come sempre avviene quando si verificano grandi fenomeni storici. Al di là delle ipotesi di complotti più o meno plausibili e dei vari interessi in gioco, non si possono negare tensioni politiche, culturali, religiose e di costume che spingono le popolazioni musulmane del Mediterraneo alla messa in discussione dello status quo. Se vi è una costante occorre cercarla nella “necessità di giustizia”. Almeno questo è il parere di Bernard Lewis, lo storico e orientalista britannico esperto di Islam e dei sui rapporti con l’Occidente, autore di classici come Il linguaggio politico dell’Islam e Le origini della rabbia musulmana. Intervistato recentemente dal Jerusalem Post, Lewis ha detto parecchie cose interessanti. Tanto per cominciare, i governi che reggevano i vari paesi in rivolta avevano in comune un gestione palesemente contraria al minimo senso di giustizia. Si trattava di regimi autoritari, in certi casi dittatoriali. Ma non è il caso di tirare in ballo il Medioevo europeo, come spesso si fa con pigrizia quando si discute di regimi illiberali.
L’autoritarismo islamista, in versione sunnita o sciita è una creazione moderna, evidentemente imparentato con il peggior totalitarismo novecentesco. Al posto delle religioni secolarizzate sbocciate in Europa (comunismo, fascismo, nazismo) il fondamento è il culto di Allah, ma il risultato tende ad essere il medesimo: una forma intollerante di Stato etico. Invece “i regimi pre-moderni erano molto più aperti e tolleranti” giacché l’assolutismo è un’invenzione relativamente recente. È però troppo semplicistico affermare che le masse arabe vogliono la democrazia. “Certamente vogliono cambiare, e in meglio. Ma quando si dice che vogliono la democrazia, sorge la domanda più difficile: cosa significa democrazia? È una parola usata con significati molto differenti, anche nel mondo occidentale”. Si tratta di una conquista della civiltà europea e americana, conquista permessa dall’incontro fra Atene e Gerusalemme e da duemila anni di cristianesimo. Dunque “un concetto politico che non ha storia nel mondo islamico”, sostiene Lewis. Anche perché, così noi ce lo spieghiamo, il dogma dell’incarnazione divina in un uomo, che ha attribuito dignità ad ogni essere umano, è estraneo, anzi decisamente blasfemo per la teologia coranica.
Risulta utopico il pensare di poter semplicemente “esportare la democrazia” scavalcando con agilità secoli e secoli di pensiero e storia occidentale. Da parte nostra, insomma, sarebbe più corretto ed utile “incoraggiare lo sviluppo graduale delle istituzioni locali e l’antica tradizione di autogoverno”, piuttosto che invocare le urne. Il suffragio universale non è sempre una panacea per i destini dei popoli, in Europa ne sappiamo qualcosa: basta ricordare l’elezione assolutamente regolare che portò Hitler al potere nel 1933. Quella consultazione popolare sia sempre da monito, soprattutto se consideriamo che “i partiti religiosi presentano un vantaggio immediato. In primo luogo, hanno una notevole rete di comunicazione attraverso il predicatore e la moschea, ineguagliabile da parte di altre forze politiche”. Hamas, democraticamente al potere nella Striscia di Gaza, ha già dimostrato a sufficienza la sua pericolosità; se altri partiti fondamentalisti dovessero vincere regolari elezioni “sarebbe un disastro”. Per Lewis i paesi islamici “non sono semplicemente pronti per le elezioni libere e giuste.” Meglio evitare il rischio che i Fratelli Musulmani vadano al governo in Egitto”.
Per quanto riguarda gli scenari futuri, Lewis prima non si sbilancia (“Sono uno storico. Mi occupo di passato, non di futuro”), poi ridimensiona le magnifiche sorti geopolitiche di possibili califfati mediterranei: “Prima o poi l’età del petrolio terminerà. Quando sarà esaurito e sostituito come altri fonti di energia, il Medio Oriente non avrà più niente in mano”. Se vi è un tema comune nelle rivolte, dicevamo, è la sete di giustizia; ci sono “rabbia e rancore” che “vengono da un certo numero di cose. In primo luogo, la maggior consapevolezza che hanno acquisito grazie ai moderni mezzi di comunicazione”. Ma non è solo la tecnologia occidentale uno dei motori della rivolta. Lewis invita a cherchez la femme. Non è una coincidenza che l’agitazione sia scoppiata in primo luogo in Tunisia, l’unico paese arabo, nota lo storico, dove le donne hanno una parte importante nella vita pubblica. “Il ruolo delle donne nella determinazione del futuro del mondo arabo sarà cruciale”. È significativa la situazione della Tunisia perché è un paese arabo che ha realmente fatto qualcosa per le donne: obbligo scolastico ed accesso alle professioni (medici, avvocati, giornalisti, politici).
Esiste insomma una questione di genere, anzi la stessa frustrazione sessuale tipica di una cultura repressiva sul piano dei rapporti fra uomo e donna può trovare sfogo nella violenza. “Nel mondo musulmano, il sesso occasionale non esiste. Se un giovane vuole il sesso, ha soltanto due possibilità: matrimonio o bordello”. Quando questa esigenza è ostacolata dalla povertà economica, la miscela può diventare esplosiva. “Un gran numero di giovani cresce senza i soldi necessari per il bordello o per le spese di matrimonio”. La pulsione sessuale insoddisfatta può condurre alla scelta estrema di fare il terrorista suicida che sacrificandosi per la guerra santa sarà ricompensato con le vergini del paradiso promesse nel Corano. Oppure può sfogarsi nella protesta di piazza, spesso priva di progetti chiari, impulsiva più che meditata. Inconsciamente, le popolazioni maschili stanno forse dando una risposta alla loro condizione di arretratezza rispetto alla civiltà occidentale conosciuta attraverso gli schermi di televisioni e pc, turismo e immigrazione. È come se ammettessero di essere indietro a causa del modo in cui trattano le donne, e di conseguenza vivono la sessualità. Lasciando la popolazione femminile in un condizione di inferiorità si privano “dei talenti e dei servizi della metà della popolazione” e l’oppressione della donna ha come conseguenza quella dell’intera società.
Ne deduciamo l’urgenza di preservare, tutelare, incoraggiare la presenza cristiana in Medio Oriente. La sessuofobia, la paura del contatto hanno probabilmente origine dal rifiuto della carnalità divina. Ad un paradiso come quello islamico connotato da un’evidente simbologia maschilista e patriarcale, è da contrapporre quello cristiano aperto a donne e uomini, entrambi riscattati, nella carne, attraverso la carne, da un Dio che si è fatto uomo.