La retorica di un voto

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La retorica di un voto

15 Giugno 2011

Lunedì, dopo la vittoria del sì ai quesiti sull’acqua, sulle pagine del Corriere della Sera di Bologna, si poteva leggere questo titolo: “Dopo il referendum, il conto di Hera: giù in borsa e stop agli investimenti. Congelati i 70 milioni per rete idrica e tre depuratori. Il titolo giù del 10%: bruciati 190 milioni”. Hera è una cosiddetta multiutility, una società nata dall’unione di varie aziende pubbliche di servizi emiliane.

Nell’articolo si spiega che “i bolognesi pagheranno un prezzo salatissimo per l’esito della consultazione” e che, in ogni caso, la bolletta crescerà del 10%. L’assessore all’ambiente ammette che è stata abrogata “una norma introdotta di fatto dal governo Prodi”, e che per la gestione dell’acqua si profila un disastro.

Molti enti locali vivranno pesanti difficoltà dopo i referendum, e le ricadute graveranno sulle spalle e sulle tasche dei cittadini. Questo però non è stato raccontato agli elettori in modo adeguato, e si è lasciato spazio alla facile retorica dell’acqua come bene primario, che non poteva finire nelle mani dei cattivi e avidi privati. In questa banalizzazione truffaldina sono caduti anche molti cattolici, che hanno inneggiato a “sorella acqua”.

L’assurdità di questa posizione è evidente se si ricorda che quando il governo Prodi autorizzò le biobanche private, nessun gruppo di preti e di suore andò in piazza per protestare contro il gravissimo rischio di applicare margini di profitto a elementi del corpo umano. A chi ha rivendicato il ruolo dei cattolici nella vittoria referendaria, faccio notare che se presumiamo che un bene pubblico sia garantito solo dalla diretta gestione dello Stato, allora lo stesso criterio potrà valere per la sanità e l’educazione, quindi per le scuole e gli ospedali cattolici.

Ma se la demagogia, nutrita di semplificazioni e di slogan inconsistenti, ha avuto la meglio, la colpa è anche nostra, del centrodestra. Il vero problema del Pdl non è (solo) la riorganizzazione del partito o la rivitalizzazione dell’azione di governo. E’ un problema di leadership culturale, cioè di contenuti e di consapevolezza.

Per molti anni, da quando Berlusconi è apparso sulla scena politica, la sintonia culturale tra il Pdl e gli elettori è stata incarnata direttamente dalla sua figura. Berlusconi era il presidente del “fare”, l’imprenditore che aveva lottato contro un monopolio radiotelevisivo soffocante e paludato, colui che aderiva spontaneamente alle esigenze dei nuovi ceti emergenti, ed era capace di rappresentare la vitalità di un paese che aveva da poco superato gli anni di piombo. Oggi la leadership berlusconiana resiste, ma è un po’ appannata dai continui e violenti attacchi subiti, mentre nel frattempo le parole d’ordine si sono logorate, i tempi e il paese sono cambiati.

A Berlusconi, e alla classe dirigente del Pdl, spetta il compito dì interpretare l’oggi, di adeguare e consolidare la propria cultura politica, lanciando parole d’ordine nuove e attraenti. Non serve “tornare allo spirito del ‘94”, ma capire (e saper spiegare agli elettori) cosa c’è all’orizzonte.

(Tratto da Il Tempo)