La rielezione di Obama segna la vittoria dello statalismo globale anti-mercato

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La rielezione di Obama segna la vittoria dello statalismo globale anti-mercato

La rielezione di Obama segna la vittoria dello statalismo globale anti-mercato

12 Novembre 2012

La rielezione netta – sebbene non trionfale – di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti rappresenta un indicatore di particolare interesse per misurare alcune tendenze in atto non soltanto nella politica americana, ma in quella di tutte le democrazie occidentali. 

In primo luogo, essa segnala chiaramente come a distanza di cinque anni dallo scatenarsi della grande crisi economico-finanziaria globale, nell’opinione pubblica del paese da cui essa ebbe origine prevalga ancora un atteggiamento complessivamente negativo rispetto all’economia di mercato: vulgata in base alla quale la responsabilità maggiore della crisi va addebitata non all’eccessiva spesa pubblica ma ai "ricchi", e la finanza rappresenta soprattutto una minaccia per l’"economia reale", contro cui lo Stato deve intervenire. Una visione che Obama ha reso sostanzialmente propria, e che si traduce nella richiesta di imposte più alte per i grandi redditi alti al fine di sostenere il welfare, e di "stimoli" pubblici per sostenere i settori industriali in difficoltà per la recessione. Nonostante la generalizzata delusione per la performance governativa del presidente, e la maggiore credibilità riconosciuta allo sfidante Romney sui temi economici, nell’urna ha chiaramente prevalso la paura del mercato, e la tendenza a rifugiarsi nell’idea di un governo della "provvidenza". 

Se questo è il sentimento politico più diffuso in un paese, come gli Stati Uniti, in cui storicamente la libertà economica gode di alta considerazione e altrettanto alta è la diffidenza verso l’invadenza statale e gli eccessi della pressione fiscale, si può ragionevolmente immaginare che nel resto del mondo industrializzato e soprattutto in Europa – dove maggiori sono le abitudini a politiche interventiste e la diffidenza verso il libero mercato – esso abbia in questo momento un’incidenza anche più alta, dando fiato a destre e sinistre contrassegnate da un tasso crescente di populismo "giustizialista". 

Si può dire, anzi, che l’opinione pubblica maggioritaria negli Stati Uniti vada sempre più confluendo, su questo punto, con quella europea nel senso di una forte pressione verso una rinnovata "democrazia della spesa", a dispetto della gigantesca crescita dei debiti pubblici. Una pressione fortemente condizionata, oltreatlantico, dai timori per la disoccupazione soprattutto nei grandi comparti industriali (non a caso i voti operai delle grandi fabbriche "salvate" dall’amministrazione Obama hanno avuto un peso rilevante nella vittoria del presidente uscente), e accentuata dal peso crescente della popolazione ispanica, generalmente meno garantita e più preoccupata dalle ricadute della crisi sulla propria qualità della vita. 

I risultati elettorali americani, però, evidenziano anche una realtà diversa e opposta. Il 48% dei consensi raccolto da Romney – in sensibile crescita rispetto a quelli di McCain quattro anni fa -, il corrispondente calo del gradimento di Obama, la riconferma della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, dicono che la società statunitense tende sempre più ad essere spaccata pressoché in due, e che alla lieve maggioranza arroccata intorno alla "democrazia della spesa" si contrappone una quasi metà del paese accomunata dall’angoscia per il progressivo aggravarsi del disavanzo e dall’avversione all’invadenza del governo nelle scelte di vita individuali (come nell’impopolare riforma sanitaria denominata "Obamacare"). 

Perché questa sensibilità, condivisa dagli elettori molto al di là dei votanti pro-Romney, non è riuscita a prevalere sulla paura del cambiamento? E cosa può insegnare questo fallimento agli schieramenti moderati e conservatori, tanto negli Usa quanto in Europa? 

Appare evidente, innanzitutto, come la scelta di Romney come candidato da parte dei repubblicani sia stata un’arma a doppio taglio. Da un lato, il suo approccio pragmatico e non ideologico ha certamente ispirato fiducia in una parte degli elettori indipendenti, non perdendo i consensi di quelli più schierati sul versante conservatore e liberista, anche grazie alla candidatura a vice-presidente del più intransigente Paul Ryan. Dall’altro, però, la sua figura di imprenditore di successo, il suo essere identificato con le grandi forze del capitalismo e della finanza (oltre che con la classica America w.a.s.p.), nel contesto del mood anti-mercatista ancora dominante ha rafforzato diffidenze e ostilità verso di lui nel campo avverso, cementandolo (non a caso gran parte della campagna di Obama si è risolta in spot denigrativi dell’avversario, che lo dipingevano come un "pescecane" sfruttatore ed elusore fiscale) e impedendo a Romney di sfondare tra l’elettorato democratico. 

Insomma, complessivamente la scelta di una linea molto poco caratterizzata sul piano dei tradizionali issues consevatori (libertà di mercato, Stato minimo) non ha pagato. Per sconfiggere Obama, era necessario infondere all’elettorato indipendente e ai democratici moderati, come all’epoca di Ronald Reagan, una grande carica di fiducia in una possibile rinascita del paese: una speranza uguale e contraria a quella che nel 2008 lo stesso Obama era riuscito a comunicare anche a molti elettori tradizionalmente repubblicani. Era necessaria, insomma, una "narrativa" pari a quella costruita allora dall’attuale presidente, e che avrebbe potuto essere credibile solo se affidata non a un uomo dell’establihment economico, ma a una figura in grado di presentarsi come figlio dell’America grassroots, venuto "dal basso". Il maggiore concorrente repubblicano di Romney, Rick Santorum, incarnava molto più efficacemente queste caratteristiche. Ma nelle primarie la nettissima preponderanza economica del governatore del Massachusetts ha prevalso. 

Insomma, l’insuccesso di Romney insegna che conservatori e moderati possono sfidare con possibilità di successo il mood antimercatista non attraverso un pragmatismo incolore, ma solo se propongono una visione, un sogno, un’epica condivisibile della libertà di scelta di individui ed entità collettive. E se questo vale per gli Stati Uniti, vale tanto più per l’Europa, in cui attualmente l’unico fragile argine alla marea del populismo anticapitalista e anti-finanza è costituito da un rigore finanziario praticamente imposto dagli investitori internazionali e dal governo tedesco, caratterizzato da alta pressione fiscale e cronica tendenza alla recessione. Anche qui gli schieramenti di centrodestra possono sperare di contrapporsi con qualche possibilità di riuscita alle nuove retoriche del "tassa e spendi" soltanto se sapranno credibilmente proporre un’alternativa complessiva alla "democrazia della spesa", scatenando una rinnovata fiducia nella possibilità di liberare le energie latenti nelle società e convincendo gli elettori che l’unico possibile futuro per le democrazie altamente industrializzate risiede nelle risorse di autogoverno della società stessa. 

Da questo punto di vista, è fondamentale il rapporto tra la linea di politica economica e una visione generale della società imperniata anche, se non soprattutto, sui temi "biopolitici". Anche qui, le elezioni statunitensi offrono un importante elemento di riflessione. Nel consenso alla coalizione obamiana nuovamente vincente coesistono la richiesta di maggiore protezione da parte dello Stato e quella di un generalizzato relativismo sui grandi dilemmi etici sulla vita e la morte (aborto, eutanasia, droga, nozze e adozioni omosessuali). Una confluenza che ormai accomuna quella americana a gran parte delle sinistre europee. 

Anche rispetto a questi argomenti, la scelta di tenere un bassissimo profilo da parte di Romney (Ryan, cattolico e decisamente social conservative, è stato praticamente "silenziato" durante la campagna per paura di allontanare il consenso degli indipendenti) non ha avuto successo. Ciò appunto perché una destra indifferente e tiepida sulle questioni etiche, pigramente appiattita sulla cultura dominante della "modernità" egemonizzata dalle élites della sinistra intellettuale e dai grandi media, viene percepita – sia tra gli avversari che nel proprio bacino potenziale di consenso – come poco credibile, fredda e impersonale. 

Un aspetto fondamentale nella costruzione di una efficace "visione" della possibile rinascita della società da parte conservatrice risiede invece proprio nel recupero di una forte identità sui temi biopolitici, cioè in una più intransigente difesa della vita e degli istituti tradizionali come la famiglia e il matrimonio tra uomo e donna, come base di una società più coesa, attiva ed autonoma. E anche questo aspetto vale particolarmente per le destre in Europa, dove l’ondata relativista è ancora più incalzante, e fenomeni come il crollo demografico, la disgregazione familiare, il sempre maggiore isolamento degli individui, contribuiscono ad accentuare la crisi profonda di un modello di sviluppo. Solo moderati e conservatori non impauriti dal conformismo di massa su questi temi, e decisi nel rivendicare alla propria parte il compito di una "rivitalizzazione" complessiva della società, potranno avere nei prossimi anni qualche chance di vittoria.