La riforma ci avvicina alle università più prestigiose del mondo

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La riforma ci avvicina alle università più prestigiose del mondo

La riforma ci avvicina alle università più prestigiose del mondo

29 Marzo 2007

Il disegno di legge sul riordinamento del sistema universitario presentato da Gaetano Quagliariello (consultabile sul sito www.magna-carta.it) presenta un elemento fondamentale che lo rende immediatamente condivisibile e che ci convince a sostenerlo. Esso prevede infatti l’abolizione del valore legale di tutti i titoli di studio acquisibili attraverso gli istituti di istruzione superiore, ivi compreso, naturalmente, il diploma di laurea. È questa la chiave di volta di qualsiasi sostanziale cambiamento del nostro sistema universitario. Ed è questa validità legale che perpetua la finzione giuridica secondo la quale un fisico di Pavia è uguale a un fisico di Perugia, o un ingegnere di Torino uguale a un ingegnere di Catania. O che un 110 e lode di un latinista di Genova sia identico a un 110 e lode di un latinista di Macerata. Se i paragoni di cui sopra sono naturalmente inventati di sana pianta, tutti coloro che operano nel mondo universitario, così come gli studenti più avveduti e intelligenti, sanno bene che i valori sostanziali dei docenti, delle facoltà, dei corsi di studio e in ultima analisi delle università rappresentano da sempre una realtà a dir poco diversificata.

Lo sanno benissimo anche gli operatori del settore privato, a cui non basta il pezzo di carta del candidato al posto di lavoro, ma che vogliono sapere esattamente con chi il candidato ha studiato, che cosa ha scritto, a che progetti ha lavorato, in che laboratori ha imparato il mestiere, e, in ultima analisi, chi sono stati i suoi docenti. L’unico soggetto istituzionale che prende ancora per buono il pezzo di carta timbrato e bollato è il settore pubblico, per il quale il diploma costituisce un titolo legale che si traduce in punteggio, che a sua volta produce scatti di carriera e promozioni. Da cui, per esempio, lo scandalo dei crediti universitari venduti dalle università ai dipendenti della pubblica amministrazione, denunciati dalla giornalista Milena Gabanelli già nella puntata del 28 maggio 2006 di Report, la trasmissione di cui è l’autrice e la conduttrice.

L’abolizione del valore legale dei titoli di studio sostituisce dunque all’uguaglianza fittizia e burocratica la vera uguaglianza di tutte le sedi universitarie, le quali, private della protezione della loro apparente identica personalità giuridica, sono costrette a rimettersi in discussione e in competizione una con l’altra, per aggiudicarsi i migliori docenti e i migliori studenti. Le università di serie A, di serie B e di serie C già esistono. L’abolizione dell’uguaglianza dei loro diplomi non farà che metterne a nudo le differenze e spingerle a migliorare.

Un altro elemento di grande importanza del disegno di legge presentato da Quagliariello è quello relativo all’insieme di quattro elementi, strettamente legati tra loro: l’equiparazione delle strutture pubbliche e private (rispetto all’accreditamento e all’accesso ai finanziamenti pubblici), l’effettiva autonomia finanziaria delle sedi universitarie, le quali avrebbero la possibilità di utilizzare in maniera strutturale finanziamenti a carattere privato; la rimodulazione delle rette scolastiche; e l’accesso a prestiti per i più meritevoli.

Circa i finanziamenti privati, vale la pena di ricordare che in Inghilterra il primo ministro Tony Blair ha annunciato, ai primi di febbraio 2007, una svolta proprio nella medesima direzione, promettendo alle università una sterlina di finanziamento per ogni due sterline che queste riusciranno a procurarsi per conto loro (secondo il principio dei matching funds), soprattutto per la via delle donazioni private degli ex-allievi. Questa delle donazioni degli ex-allievi (che naturalmente traggono dalle loro donazioni cospicue agevolazioni fiscali) non è, si badi bene, una tradizione britannica, ma l’esempio degli Stati Uniti e del Canada, dove le singole sedi si finanziano con un misto di finanziamenti pubblici, donazioni private e rette scolastiche, è davanti agli occhi di tutti, anche a quelli di Blair, che ha fatto della riforma del settore dell’istruzione in genere una delle legacies che intende lasciare al paese.

Vogliamo fare l’esempio della migliore università al mondo? L’anno scorso un terzo dei costi operativi della Harvard University (595 milioni di dollari) è stato coperto dalle donazioni di 89.000 ex-studenti, delle quali il 62% ammontavano a meno di 100 dollari. Negli Stati Uniti, soltanto l’aiuto a cause di tipo “religioso” è superiore all’ammontare delle donazioni a favore dell’istruzione. Harvard University non è infatti la sola. Ogni anno negli Stati Uniti sono oltre duecento le università che ricevono oltre 100 milioni di dollari dai loro ex-studenti.  Se posso permettermi di citare il mio caso personale, dal momento della mia laurea non ho mai mancato di inviare il mio modesto assegno all’università nordamericana presso la quale ho studiato — e ciò per semplice gratitudine, visto che qui in Italia non posso nemmeno detrarre tale donazione dalle mie tasse. Il nuovo disegno di legge sembra aprire le porte proprio in questa direzione.

Per quanto riguarda la rimodulazione delle rette, secondo il disegno di legge Quagliariello la loro modulazione sarebbe libera per le università private, ma non per le università che godessero di finanziamenti pubblici. Per queste ultime sarebbe il Ministero a stabilire l’entità dei massimi richiedibili agli studenti, in una logica da affirmative action legata soprattutto alle fasce di reddito degli studenti. Ed è ancora il principio delle fasce di reddito a condizionare l’assegnazione delle borse di studio ai più meritevoli. Insomma, se la tua famiglia è “ricca”, paghi la retta completa, meritevole, fannullone, incapace o geniale che tu sia; se sei “povero”, ma meritevole, allora hai diritto a un prestito che può arrivare a coprire la tua intera carriera universitaria, che ripagherai poi con i tuoi futuri guadagni.

Secondo noi, la filosofia delle fasce di reddito dello studente può essere uno degli elementi presi in considerazione nell’eventuale assegnazione di un prestito, ma non deve assolutamente essere né l’unico né il più importante. Altrimenti si perpetua anche in questa riforma “liberale” la categoria tutta italiana degli studenti “giovani” fino a 30/35 anni, i quali, nonostante la loro maggiore età sia stata stabilita a 18 anni, continuano a dipendere alla famiglia di origine senza avere alcuna autonomia gestionale della loro vita. Considerare il reddito della famiglia nell’assegnazione dei finanziamenti impedisce l’autonomia dello studente e di fatto lo discrimina.

Il problema non è applicare rette scolastiche “politiche” o premiare i “poveri”, ma piuttosto consentire a tutti i meritevoli di partecipare prima a un concorso di ammissione all’università, e quindi a un concorso per un prestito che li seguirà per tutta la loro vita universitaria. Forse, ancora una volta, non sarà casuale che la retta di Harvard University sia di circa 45,000 dollari all’anno per tutti, ma che la percentuale di studenti delle classi meno privilegiate che riescono a iscriversi e a proseguire fino in fondo i loro studi sia ben più alta di quella degli universitari italiani, che sono praticamente ancora fermi a quel 6% di figli della classi a più basso reddito, contro cui già si batteva il movimento studentesco della fine degli anni sessanta.

Su altri elementi qualificanti del disegno di legge (l’Alta Commissione per l’accreditamento e la valutazione, il ruolo del Ministero, il numero chiuso, le griglie disciplinari minime, il reclutamento e la retribuzione dei docenti) ci riserviamo di intervenire in un’altra occasione. Quello della riforma dell’università è da troppo tempo un nodo fondamentale della progettazione di un nuovo paese, e naturalmente i ritocchi a un disegno di legge sono sempre possibili. Ma senza dubbio il disegno di legge che abbiamo letto va nella direzione giusta e va appoggiato fin d’ora fino in fondo.

codignol@unige.it