La riforma delle pensioni si può e si deve fare. Il Pdl raccolga la sfida

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La riforma delle pensioni si può e si deve fare. Il Pdl raccolga la sfida

25 Ottobre 2011

La riforma delle pensioni si deve fare, a cominciare da quelle di anzianità, che rappresentano una anomalia del nostro sistema previdenziale e generano oltreché un onere per la finanza pubblica, anche una sperequazione fra generazioni, non essendo previste dal nuovo sistema pensionistico contributivo che sta andando gradualmente a regime.

Il tema dell’elevamento dell’età di pensione a 67 anni è importante, ma secondario, rispetto a quello delle pensioni di anzianità. Anzi se si attuasse questo innalzamento di età di pensione, senza provvedere alle pensioni di anzianità si accentuerebbero le attuali sperequazioni fra chi può fruire di questi consistenti privilegi e chi invece non è in grado di farlo.

Occorre anche aggiungere che i pensionamenti anticipati, una anomalia italiana, ottenuta dalla CGIL nel 1994 come prezzo per la caduta del governo Berlusconi, oltreché generare un elevato debito pensionistico, danno luogo anche a lavoro nero. Coloro che vanno in pensione in una età che, attualmente, è relativamente giovane, spesso si dedicano a un lavoro part time, se non full time o ad una attività di lavoro autonomo, per la quale evadono gli obblighi di legge, sia contributivi che fiscali, per tre ordini di considerazioni.

La prima  è che, in questo modo massimizzano il loro guadagno. La seconda, strettamente collegata alla prima è che non hanno molti rischi nel farlo, perché non fa meraviglia che possano vivere senza lavorare, in quanto hanno il reddito della pensione. La terza considerazione è che non hanno alcun motivo di pagare altri contributi sociali, perché la pensione la hanno già; e questi ulteriori contributi  potrebbero non bastare per raggiungere i 15 anni di anzianità previdenziale che consentono l’accesso a una nuova pensione previdenziale.

Il lavoro nero dei pensionato a sua volta può alimentare evasioni fiscali da parte di operatori economici che se ne avvalgono per lavoro subordinato o per prestazioni soggette ad IVA, evadendone gli obblighi, in modo da ridurre i costi, il fatturato, le spese che sono indice di capacità contributiva. Dunque, un motivo in più per cercare di intervenire prioritariamente sulle pensioni di anzianità.

Occorre anche intervenire con una ulteriore accelerazione all’elevamento a 65 anni delle pensioni per il lavoro femminile privato, in quanto ciò è richiesto da una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia Europea, ed è una riforma già in atto nel settore del pubblico impiego. Anche questa misura è importante per la riduzione del disavanzo fra contributi previdenziali riscosse e pensioni pagate. E’ meno importante per il contenimento del lavoro nero, in quanto molte delle donne che vanno in pensione precocemente si dedicano poi al lavoro domestico e assistenziale, per la propria famiglia o per i propri figli o genitori.

Ma questa riforma è richiesta anche per equiparare la condizione femminile a quella maschile, a vantaggio delle donne. Infatti il pensionamento delle donne in anticipo sugli uomini ne riduce le prospettive di carriera e diminuisce la quota rosa nelle posizioni alte delle carriere, nelle varie attività. Le imprese, dato ciò, sono indotte a investire di meno nel capitale umano femminile e il dominio maschile nelle varie attività economiche è maggiormente tutelato.

L’elevamento dell’età di pensione per le donne al livello di quella degli uomini, dunque, completa la parità delle donne con gli uomini, nella struttura sociale e nella sua gerarchia. E’ questo pensiero, del resto, che ha motivato la sentenza dell’Alta Corte di Giustizia Europea, che ha condannato l’Italia per la discriminazione del sistema pensionistico dal punto di vista del sesso. Sembrerebbe anche che questa discriminazione debba essere vietata dalla Costituzione italiana, che all’articolo 3, che stabilisce la eguaglianza dei cittadini davanti alla legge senza distinzione di sesso, religione, razza, idee politiche, lingua, condizioni personali e sociali.

L’elevamento a 67 anni può essere stabilito con un provvedimento successivo, con uno schema di incentivi per chi accetta tale soluzione. Fra essi emerge la possibilità di effettuare in seguito attività di lavoro senza alcun obbligo contributivo. In Italia attualmente la spesa previdenziale è arrivata al 19% del Pil ed è in massima parte costituita da pensioni. I contributi sociali invece sono attorno al 13% del Pil. Si può calcolare che il deficit pensionistico che l’Italia sopporta annualmente pesi per un 4,5% del Pil, cioè quanto il servizio di interessi sul nostro elevato debito pubblico.

Come si può ridurre la pressione fiscale se il 9 per cento del PIL va nella spesa pubblica per questo doppio onere debitorio che le generazioni si trasmettono nel tempo? Dopo avere fatto una pesante manovra per il pareggio del bilancio, appare assurdo perdere di credibilità in Europa e verso i mercati finanziari, per un ‘no’ a questa riforma urgente delle pensioni, la quale gioverebbe alle future generazioni.

I padri e le madri la dovrebbero fare per avere nei prossimo anni un avvenire migliore, conseguente alla messa in sicurezza dei loro risparmi, dei loro valori patrimoniali, che ha bisogno di una finanza pubblica solida. Se non lo vogliono fare per questo, lo facciano almeno per i loro figli, cercando di avere una visione dell’avvenire più lunga del loro naso.

Questa è anche una sfida decisiva per il  premier e per il Pdl . Essi ora debbono insistere su questa riforma, che ci viene chiesta in sede europea e che la sinistra non è in grado di attuare. E’ una questione da cui dipende il futuro dell’Italia e quello di un intero movimento politico e della sua leadership.