La riforma Renzi-Boschi non rafforza la governabilità ma la indebolisce

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La riforma Renzi-Boschi non rafforza la governabilità ma la indebolisce

15 Ottobre 2016

La campagna elettorale per il referendum sulla revisione costituzionale promossa dal governo Renzi è ufficialmente appena cominciata, ma è già stata ormai da tempo avvelenata dalla esasperata personalizzazione che il presidente del Consiglio ha sovrapposto al dibattito di merito sulla legge. Da mesi, Renzi va proclamando che le modifiche alla Carta del 1948 contenute nella legge Boschi rappresenterebbero la “svolta” decisiva del paese verso una democrazia finalmente governante, e addirittura verso chissà quali nuove “magnifiche sorti e progressive” di sviluppo del paese, trasformando il confronto in un referendum su se stesso e nella richiesta agli elettori di una delega in bianco. 

Dall’altra parte alcuni tra gli oppositori della riforma – quelli schierati in una difesa feticistica della “Costituzione più bella del mondo” – hanno personalizzato lo scontro in maniera contraria e speculare, sostenendo che la legge Boschi produrrebbe una svolta autoritaria, con l’instaurazione di una sorta di dittatura del premier. Entrambe queste posizioni sono del tutto sbagliate. Da più parti è sempre stata ritenuta non solo auspicabile, ma anzi necessaria, una riforma della Costituzione che rafforzasse e rendesse più autonomo il potere esecutivo, sull’esempio delle democrazie più radicate e solide, in cui esiste una chiara delega di potere e responsabilità dagli elettori ai governanti. Una riforma del genere in Italia per troppe volte è stata proposta o intrapresa – da Bettino Craxi alla Bicamerale D’Alema, alla riforma Berlusconi del 2006 – ma non è mai giunta a compimento. 

E dunque sono comprensibili le posizioni di molti intellettuali e costituzionalisti che da sempre si battono per questo, e ora si sforzano di credere che la riforma Renzi/Boschi, benché non ottimale, rappresenti almeno un passo avanti, o sia meglio che niente. Sono comprensibili umanamente, ma razionalmente non condivisibili. Se infatti si esaminano le presenti modifiche costituzionali con freddezza, senza scambiare i propri desideri (o i propri timori, nel caso degli oppositori) per la realtà, emerge chiaramente come esse non favorirebbero un rafforzamento del potere esecutivo, ma al contrario provocherebbero un suo indebolimento. Tanto più se considerate congiuntamente alla nuova legge elettorale nota come “Italicum”. Il rischio per la democrazia, del quale parlano i paladini del “no” dai toni più apocalittici, non sarebbe dovuto all’eccessivo potere detenuto dal governo, ma semmai al contrario all’eccessiva confusione di potere che si verrebbe a creare, e dalla quale gli esecutivi rischierebbero di venire paralizzati più di quanto avvenga attualmente. 

La storia dei regimi liberaldemocratici ci dice inequivocabilmente che la stabilità, la forza e la responsabilità di un potere esecutivo possono essere assicurate seguendo tre strade: 1) l’elezione popolare diretta del capo dell’esecutivo, o del supervisore dell’esecutivo (presidenzialismo statunitense, semipresidenzialismo francese); 2) norme o convenzioni che consentano al capo del governo di nominare autonomamente i ministri e sciogliere le Camere elettive sulla cui fiducia il governo si regge (parlamentarismo di tipo britannico, governo di gabinetto e del premier); 3) una legge elettorale maggioritaria con collegi uninominali, a turno singolo o a doppio turno (democrazie anglosassoni, Francia). Ora, la riforma Renzi/Boschi non segue né la prima né la seconda strada, e la legge elettorale “Italicum” non ha nulla a che vedere con la terza. Il bicameralismo perfetto è certamente inutile e dannoso alla governabilità, ma altrettanto certamente il bicameralismo imperfetto o il monocameralismo non sono di per sé un elemento decisivo per garantirla.

La legge Boschi ha eliminato il Senato elettivo sostituendolo con una rappresentanza di secondo grado degli enti locali che non vota la fiducia al governo, ma partecipa comunque al processo legislativo – complicandolo notevolmente – in molte materie sensibili. Ammesso pure che, in generale, questo nuovo assetto permetta una velocizzazione dei processi legislativi (cosa alquanto dubbia, vista la complessità dell’interazione tra le due Camere prevista dal nuovo articolo 70) il punto fondamentale è un altro: e cioè che nella riforma non è stato inserito alcun elemento che stabilizzi la posizione del premier e del governo. Laddove, invece, la riforma Berlusconi del 2005 attribuiva al premier la facoltà di nominare e revocare i ministri e di indire le elezioni anticipate – poteri sottratti al Capo dello Stato, che diventava una figura meno influente e più simbolica -, e prevedeva anche l’istituto della sfiducia costruttiva, ad ulteriore  salvaguardia dell’esecutivo risultante dal pronunciamento degli elettori. 

La riforma renziana, insomma, lascia in realtà in piedi senza alcuna significativa variazione il sistema parlamentare italiano, nel quale l’esecutivo è stretto tra l’incudine di un parlamento incontrollabile e il martello del Presidente della Repubblica, figura chiave e ambigua del sistema italiano. Per di più, il nuovo Senato “delle autonomie” sarebbe formato interamente da rappresentanti di una corporazione di politici – gli amministratori locali – unita da un forte interesse comune: quello di cercare di ottenere dal governo maggiori stanziamenti economici per enti generalmente dediti agli sprechi e sull’orlo (quando non oltre l’orlo) del dissesto. E’ dunque facilmente prevedibile che essi userebbero il loro potere di ritardare alcune leggi per ricattare il governo dal punto di vista economico, e potrebbero essere tacitati soltanto attraverso ulteriori aggravi della spesa pubblica. 

Infine, se alla riforma venisse abbinata la legge elettorale così come è stata approvata, il risultato sarebbe che una sola lista otterrebbe alla Camera un’amplissima maggioranza di seggi, portando in parlamento un mix  tra capilista nominati dai vertici di un partito e di eletti con il proporzionale e le preferenze. Il governo, apparentemente “blindato”, resterebbe così in balia non soltanto della Camera destinata a votargli o a togliergli la fiducia, come in ogni sistema parlamentare senza contrappesi, ma soprattutto degli equilibri tra le correnti e le fazioni interne ad un partito. E, in tempi di  forze politiche sempre più “liquide”, personalizzate e prive di strutture rappresentative interne stabili, ciò vuol dire che sarebbe alla mercè delle lobby (economiche, finanziarie, corporative) che volta a volta riuscissero ad assicurarsi l’appoggio di questa o quella corrente, modificando gli equilibri di forza nel gruppo parlamentare di maggioranza. 

In conclusione, non soltanto la riforma (costituzionale ed elettorale) presente non impedirebbe i giochi di potere che sono alla base dell’instabilità italiana e dei frequenti “ribaltoni” di governo, ma anzi queste manovre sarebbero da essa ulteriormente incoraggiate. E’ vero che si creerebbe una maggiore concentrazione di potere, come paventano alcuni oppositori della riforma: ma non certo nella figura del premier, bensì in un’assemblea parlamentare fluida e incontrollabile, come nelle più radicate tradizioni del trasformismo italiano. Insomma i sostenitori liberali/riformisti di questa riforma sembrano vittima di una pericolosa illusione, e non si rendono conto che gli effetti della riforma stessa rischiano di andare nel senso opposto a quello da loro auspicato. 

Il presidente del Consiglio, dal canto suo, si culla in una illusione altrettanto pericolosa: quella di usare la riforma e l’eventuale vittoria del “sì” come un mezzo per legittimare e stabilizzare il proprio potere. Laddove, se pure questo azzardo gli riuscisse, ben presto si renderebbe conto amaramente di aver introdotto nel sistema degli elementi di destabilizzazione che renderebbero quel potere sempre più precario, e probabilmente ne accelererebbero la prematura fine. Se il “no” prevalesse nelle urne, come ci auguriamo, la sconfitta di questo tentativo di riforma produrrebbe certamente un effetto frustrante su futuri tentativi di revisione della Carta. Un effetto che sarebbe dovuto però non agli oppositori della legge, ma all’ostinazione di Renzi nel perseguirla in solitudine. 

D’altra parte, quel risultato non pregiudicherebbe per il futuro un serio processo di revisione. Anzi, a mio avviso, potrebbe essere l’occasione buona per rifondarlo finalmente su basi più solide e ponderate. Prendendo coscienza che, se si vuole effettivamente assicurare autonomia ed efficacia della funzione di governo, si deve necessariamente partire dalla recezione nell’ordinamento italiano di uno tra i due meccanismi che nelle democrazie più mature producono tale effetto: il presidenzialismo o il premierato.