
La riserva indiana dei non garantiti

14 Aprile 2021
Del genocidio dei nativi americani conosciamo attraverso film e libri che hanno alimentato un’epopea dai tratti mitici la descrizione fattane dai vincitori ma poco conosciamo, se non da qualche tempo e grazie alle opere di qualche intellettuale coraggioso, della stessa storia vista dalla parte delle vittime così come loro l’hanno vissuta. Il dualismo, che ha portato ad un sostanziale genocidio, è stato tra due strutture archetipiche: l’uomo bianco civilizzato e con “garanzia di diritti” da un lato ed il nativo selvaggio e “non garantito” dall’altro.
Non fu un genocidio pianificato come tale. Anzi. L’inferiorità degli armamenti e dell’organizzazione industriale dei nativi era tale che inevitabilmente il loro perimetro di sopravvivenza veniva sempre più ristretto grazie alle cosiddette “guerre indiane” per consentire ai “garantiti”, agli uomini bianchi, di godere di un sempre maggiore (ed insaziabile) spazio vitale.
Ai non garantiti venivano fatte promesse e concessioni (pomposamente definite trattati) disattese nello stesso istante della firma in un circolo vizioso di ribellioni prontamente sedate da una nuova guerra e da un nuovo trattato immediatamente a sua volta disatteso.
Non che mancassero valorosi capi che intuivano, con drammaticità, l’esito finale dello scontro. Tecumseh degli Shawnee lucidamente si chiedeva: “…Dove sono oggi i Pequot? Dove sono i Narragansett, i Mohicani, i Pokanoket e molte altre tribù del nostro popolo, un tempo potenti? Essi sono scomparsi a causa della cupidigia e dell’oppressione dell’Uomo Bianco come neve al sole d’estate. Ci lasceremo distruggere a nostra volta senza lottare, rinunceremo alle nostre case, al nostro paese assegnatoci in eredità dal Grande Spirito, alle tombe dei nostri morti e ogni cosa che ci è cara e sacra? Sono certo che griderete con me: ‘Mai! Mai!’…”.
Ad oggi la pandemia, nella nostra civiltà capitalistica occidentale, non si declina solo nel suo drammatico versante sanitario bensì in quello, parimenti drammatico se non di più, della pandemia economica, della ingloriosa “morte per soldi”. Ma la “morte per soldi” non ha l’equanimità e la giustizia della morte in senso naturale in quanto destino inevitabile di ogni individuo: la “morte per soldi” risulta selettivamente e politicamente governata in modo da colpire solo una parte della popolazione produttiva: ristoratori, baristi, albergatori, operatori turistici, operatori dello spettacolo, circensi, titolari di palestre, piscine, operatori di cinema e di teatro, liberi professionisti. Tutto quello che in sintesi riepilogativa può essere definito il “popolo dei non garantiti”.
Questo popolo, come i nativi indiani, per scelta politica deve mostrare elementi di “cedevolezza” rispetto al popolo dei garantiti al quale solo deve essere riconosciuto ogni diritto lavorativo, di stipendio, di salute, di stabilità giuridico economica. Mentre il popolo dei non garantiti diviene normativamente “non essenziale” e quindi sacrificabile come l’homo sacer di Agamben senza che alcuno debba rispondere giuridicamente o politicamente della sua eliminazione.
Perché la morte per soldi, per i non garantiti, ha questo di bello e di macabro: che non ti fa morire immediatamente. Ti tiene in vita con la promessa che in un futuro mai precisato il non garantito avrà gli stessi diritti dei garantiti (come gli indiani nelle riserve avrebbero dovuto avere in teoria lo stesso statuto di diritti dell’uomo bianco). E al non garantito viene richiesta un’approvazione giuridica e politica delle misure a suo danno e a favore dei garantiti, pena l’esclusione dalla futura inclusione nell’ambito dei garantiti.
Il non garantito deve essere, in questo paradigma politico, come il “buon selvaggio”: essere deferente nei confronti del padrone, non aver rivendicazioni, non ribellarsi al proprio destino e non compiere alcun atto di insurrezione in particolare collettiva. Perché il terrore di chi politicamente governa tale processo è la “politicizzazione” della disperazione del non garantito.
Per i garantiti i verbi della sopravvivenza si declinano al passato prossimo (abbiamo trovato i soldi, abbiano rinnovato i contratti, abbiamo messo in sicurezza le persone). Per i non garantiti, come gli indiani nelle riserve, i verbi della sopravvivenza si declinano al futuro condizionale (se troveremo i soldi, ci impegneremo, faremo, programmeremo). E tale futuro condizionale ha un prezzo: la rinuncia dei non garantiti ad ogni manifestazione di dissenso politico maturato dalla disperazione economica ed esistenziale.
L’avanzata dei bianchi (e cioè dei garantiti) sostituiva sociologicamente una civiltà di matrice industriale occidentale alla popolazione nativa portatrice di una concezione non fondata sull’economia industriale. Il capo Heinmont Tooyalaket dei “Nasi forati” affermava: “…La terra fu creata con l’aiuto del sole, e tale dovrebbe restare… La terra fu fatta senza linee di demarcazione, e non spetta all’uomo dividerla… Vedo che i bianchi in tutto il paese accumulano ricchezze, e vedo il loro desiderio di darci terre prive di valore… La terra e io siamo dello stesso parere…L’unico che ha il diritto di disporne è chi l’ha creata. Io chiedo il diritto di vivere sulla mia terra e di accordare a voi il privilegio di vivere sulla vostra”.
Del pari, soprattutto in Italia, la pandemia economica risulta lo schema, il “pattern” di sostituzione, da parte soprattutto del PD e dei 5 Stelle, di un assetto sociale di tipo capitalistico occidentale (fondato sulla libera intrapresa e quindi sul lavoro autonomo) con un assetto sociale “post-marxista” fondato sul ridimensionamento della libera iniziativa privata e su un’enorme implementazione del pubblico anche in ambito industriale e di programmazione economica da attuarsi con la cooperazione di una burocrazia amministrativa fidelizzata dalle guarentigie delle “garanzie”. L’unica possibilità che rimane alla borghesia liberale di non essere rinchiusa nelle “riserve indiane” sempre più piccole è il recupero della propria genetica forza “rivoluzionaria” (peraltro riconosciuta dallo stesso Marx ne Il Capitale).
Senza la politicizzazione di tale forza “rivoluzionaria” attuata con l’utilizzo di tutti gli strumenti democratici (ivi incluso il diritto alla protesta) rimarrebbero attualizzate le parole di Alce Nero: “Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose… Lassù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno… Il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro e l’albero sacro è morto”.