La rivoluzione grillina è finita (di G. Quagliariello)

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La rivoluzione grillina è finita (di G. Quagliariello)

01 Agosto 2021

Il giro di poker che ha portato alla versione definitiva della riforma del processo penale ha avuto un solo scopo e un solo effetto. Lo scopo delle forze politiche che hanno giocato al rilancio era piazzare una bandierina da rivendicare. L’effetto è stato quello di perseverare nel brutto vizio della frammentazione dell’ordinamento, stabilendo regole differenti non secondo criteri “universali” (la gravità del reato in base al massimo della pena edittale, ad esempio) ma con una logica “settoriale”, come se a parità di pena esistessero reati meno reati di altri o come se il grave allarme sociale attribuito a determinate fattispecie non imponesse processi più rapidi invece che prescrizioni più lunghe. Difatti, già è partita la corsa delle vittime degli “altri” reati, quelli esclusi dall’acchiappabandiera dei partiti innescato dal Movimento 5 Stelle sulla pelle dell’ordinamento giudiziario, a dire: “e io?”.

Insomma, si è replicato col codice di procedura penale quel che la legge Zan, e prima ancora la legge Mancino, vuole fare in tema di violenza e discriminazione: tutelare non tutte le persone in quanto tali in base alla gravità del torto subìto ma questa o quella categoria a seconda del momento, in una rincorsa dalla quale ci sarà sempre qualcuno che si sentirà escluso.

Ce se lo poteva risparmiare? Certamente sì. Per le ragioni di merito sopra esposte e anche perché non è stato uno spettacolo edificante assistere a questa sarabanda su una riforma che rappresentava già un compromesso, come è inevitabile che sia con un governo di unità nazionale, e la cui tempestiva approvazione era una delle condizioni poste al nostro Paese per l’erogazione del Recovery Fund. Un impegno assunto a fronte del quale dalla maggioranza sarebbe stato lecito attendersi un più composto senso della realtà e un patriottismo di sostanza più forte dell’amor di parte. Ma tant’è.

La svirgolata finale, tuttavia, non altera il bilancio. Per quanto figlia di un compromesso obbligato, per quanto segnata dalle bandierine partitiche, per quanto sufficientemente articolata da consentire a ciascuno di cantare parzialmente vittoria, la partita della riforma del processo penale segna la fine di un’epoca. Cancella l’obbrobrio del “fine processo mai” dall’ordinamento del Paese che fu di Cesare Beccaria. Reintroduce la prescrizione non come strumento di impunità ma come incentivo all’attuazione dei princìpi del giusto processo.

Ci sarà tempo e modo per dare all’ordinamento un assetto più compiuto, ma quello che si può affermare con nettezza è che la rivoluzione giacobina-russoviana è fallita. Il Movimento 5 Stelle aveva fissato nel processo senza fine il punto di legittimazione di quella rivoluzione: aver rimesso un termine alla processabilità di un essere umano la archivia senza appello. Aver portato il M5S sul terreno della trattativa, per quanto perfettibile possa essere il suo esito, segna già la loro sconfitta. Con quale assetto giuridico se ne uscirà nel medio periodo è un altro capitolo ed è ancora tutto da scrivere, ma quello precedente è caduto in prescrizione.

Ne esce a testa alta il governo, in primis il premier Mario Draghi e il ministro Cartabia alla quale va dato atto di una capacità di tenuta non scontata per un non politico con una carriera tutta istituzionale. Ne esce rafforzata la cultura giuridica del nostro Paese, la quale certamente avrà bisogno di ulteriori riforme e aggiustamenti (che una massiccia adesione alla raccolta firme per il referendum potrà aiutare a indirizzare nella giusta direzione), ma che ha voltato pagina rispetto agli sfregi dell’era Bonafede. Ne esce rafforzata la credibilità dell’Italia, che ha preso un impegno e lo ha rispettato. Ne esce rafforzato un metodo. Soprattutto, ne esce consolidata e rinfrancata quella maggioranza silenziosa che oggi si riconosce nell’azione di Draghi e del suo esecutivo e che una piattaforma politica pragmatica e di buon senso dovrà candidarsi a rappresentare.