La Romania e i buchi neri del comunismo secondo Dario Fertilio
15 Settembre 2010
di Luca Negri
Se è vero che la dottrina comunista è una secolarizzazione materialista del cristianesimo, una sua moderna eresia, negli episodi culmine della violenza esercitata dai regimi del “socialismo reale” sulla persona umana ha toccato punte di vera blasfemia e demonismo. Fu il caso del carcere rumeno di Pitesti dove tra il 1949 e il 1952 si manifestò il Male allo stato puro, per chi ci crede, o la dimostrazione più evidente dell’inestirpabile capacità dell’uomo di fare del male al suo prossimo.
A parere di Aleksandr Solgenitsin, che sperimentò sulla sua pelle l’atrocità dei Gulag nella sua Russia, Pitesti fu il teatro della “più grande barbarie del mondo moderno”. Forse perfino superiore ad Auschwitz per sadismo. Se ne parlerà domani, giovedì 16 settembre alle ore 18,30, presso l’Accademia di Romania in Roma (P.zza José de San Martin no. 1, Valle Giulia) in occasione della presentazione del libro di Dario Fertilio Musica per lupi (Marsilio).
Firma del “Corriere della Sera”, Fertilio ha già dato alle stampe due testi fondamentali per comprendere i buchi neri della storia comunista, La morte rossa e La via del Che. Con il suo ultimo lavoro è entrato nell’inferno di Pitesti per offrire al lettore italiano un‘opera non solo documentata ma scritta magistralmente con efficace registro romanzesco. Scelta coraggiosa ma forse l’unica possibile, poiché l’orrore dell’”esperimento” realizzatosi in quel carcere può essere pienamente reso solo calandosi per quanto sia possibile nelle anime e nei corpi di vittime e carnefici. L’autore, però, riesce a raccontare l’essenziale senza usare una parola di troppo. Lui stesso ci avverte che a Pitesti “accadde una cosa di cui si dovrebbe tacere, dal momento che non esistono parole per descriverla”.
In quel carcere speciale ai piedi dei Carpazi, si praticava infatti la “rieducazione” tramite la tortura; qualcosa di peggio del “suicidio della personalità” cinese o cambogiano. Non solo sevizie psicologiche o lavoro forzato ma torture fisiche ininterrotte per “creare in laboratorio un’umanità pervertita”, formare “uomini nuovi” totalmente insensibili, crudeli e pronti ad obbedire al Partito.
Non è nota la cifra esatta degli sfortunati che transitarono per Pitesti, riportandone comunque segni indelebili nel corpo e nell’anima; si calcola da un minimo di mille ad un massimo di 5000. Una minoranza dei detenuti dal regime rumeno (550mila circa fra il 1949 ed il 1960), ma una minoranza di dannati. Erano perlopiù studenti universitari, oppositori perché socialdemocratici, liberali, monarchici; soprattutto “legionari dell’Arcangelo Michele”, anche chiamati “Guardie di Ferro”, seguaci di Corneliu Codreanu e del suo controverso movimento in cui si incontravano misticismo cristiano ed antisemitismo nazionalista.
Ex legionario convertitosi alla fede comunista era Eugen Turcanu, la mente malata che teorizzò ed organizzò le violenze all’interno del carcere. “Un angelo caduto” appariva agli occhi delle sue vittime, per bellezza fisica e spietatezza nello spalancare abissi di degradazione umana.
A Pitesti per sua volontà, le vittime si mischiavano ai carnefici, l’odio reciproco era alimentato proprio dalla cancellazione di ogni forma di pietà e compassione umana. Chi era oggetto di tortura sapeva di poter assumere in futuro un luogo attivo, forse proprio ai danni chi già aveva violato il suo corpo ed umiliato la sua intera persona. L’elenco delle efferatezze ideate da Turcanu può trovare qualche affinità solo con quelle descritte dal Marchese de Sade nel classico dell’horror pornografico settecentesco Le centoventi giornate di Sodoma: lesioni con corpi contundenti, privazione della luce o del buio, marchiature e bruciature, sospensioni dal soffitto, schiacciamento sotto il peso di altri corpi, atti sessuali contro natura e coprofagia forzata.
Il catalogo dell’orrore culminava nelle feste comandate dalla religione cristiana ortodossa. Natale e Pasqua erano celebrati con messe nere e parodie sessuali e sanguinarie della vita del Messia. A proposito del Redentore, Turcanu amava dire: “Se mi fossi occupato di Gesù, lui non sarebbe mai diventato Cristo”.
I prigionieri che rinnegavano tutto il loro passato, tradivano e denunciavano gli affetti più cari, insudiciavano ciò che avevano ritenuto più sacro prima di entrare lì dentro, e soprattutto mostravano particolare malvagità ai danni degli altri internati, erano finalmente “redenti”. Diventavano sgherri di Turcanu, membri dell’ODCC, “organizzazione dei detenuti di convinzioni comuniste”. Potevano anche aspirare all’uscita dal carcere, al ritorno fra la gente normale, nelle vesti di agente della Securitate. “Uomini nuovi” fedeli all’unica cosa sacra rimasta, il Partito che aveva amputato il loro passato “decadente” e “reazionario”.
Ma non fu questo il destino di Turcanu e dei dannati che lo seguirono fino all’ultimo. Quando le notizie cominciarono a trapelare il governo rumeno decise di non compromettere troppo la propria immagine con gli alleati. Le responsabilità del Ministero dell’Interno e della Securitate vennero scaricate sui prigionieri torturatori; in 22 subirono un processo con l’accusa di aver screditato il comunismo patrio per mezzo delle loro atrocità, in combutta con dissidenti emigrati e, ovviamente, servizi segreti americani. Furono fucilati tutti, compreso l’”angelo caduto” Turcanu; in seguito il carcere venne abbandonato e poi raso al suolo. Oggi un monumento sul posto ricorda all’umanità quelle barbarie.
Nel corso della presentazione del libro e del dibattito moderato dal giornalista Luca Bistolfi, all’Accademia di Romania interverranno oltre a Fertilio anche l’intellettuale e cineasta romeno Sorin Iliesiu, autore di un film documentario su Pitesti ancora in lavorazione (Il genocidio delle anime) e soprattutto il signor Paul Dumitrescu. Quest’ultimo, ormai ottantenne, è un sopravvissuto da Pitesti ed offrirà al pubblico la sua coraggiosa e preziosa testimonianza.