La  rupture  italiana è tutta a sinistra

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La rupture italiana è tutta a sinistra

19 Aprile 2007

Non facciamoci ingannare. Obbiettivamente è difficile immaginare per un partito che si annunzia, un esordio più sgangherato di quello messo in scena dal Partito Democratico: incapace di trovare un convincente punto di convergenza sia sulle proprie radici sia sui programmi futuri e, per di più, penalizzato dai sondaggi. Questi, fino ad oggi, lo danno circa al 23%. Confermano così che la politica, in quanto scienza inesatta, può persino trasformare una somma in sottrazione.

Nonostante tutto ciò, però, la fusione di Ds e Margherita in un solo partito, che con i congressi di questi giorni diverrà ineluttabile, è un evento destinato a segnare in profondità la politica italiana. Essa sancirà, in primo luogo, la definitiva fine di antiche solidarietà personali nate all’interno del Pci degli anni di Berlinguer. Quei vincoli avevano subito già tanti agguati da parte della storia. Ma i compagni di scuola sono rimasti stretti a coorte: un filo rosso in grado di legare il Pci alla “cosa” e questa al Pds, per quanto tenue, aveva saputo resistere persino all’amputazione della “p”. Lo strappo del Partito Democratico, invece, risulterà irresistibile. Non a caso, proprio in questi giorni, da più parti, viene avvertito il bisogno di un consuntivo del risvolto esistenziale di una storia collettiva avviatasi in sezione, all’ombra delle insegne gloriose del vecchio Pci. Che si tratti del libro di Andrea Romano sull'”umanità” di Fassino, Veltroni e D’Alema o delle confessioni di Peppino Caldarola al Foglio, tutti convengono che quel risvolto rappresenta parte integrante di una vicenda politica. Si è trattato senza dubbio di un risvolto fallimentare. La nascita del Pd provvederà a liquidarlo nel suo significato politico riconducendolo alla sola dimensione dei rapporti interpersonali. Perché essa, per quanto stentata, sarà in ogni caso un nuovo inizio in grado di determinare una frattura generazionale.

Più a ridosso della politique politicienne, quell’aggregazione segna la definitiva bipolarizzazione della sinistra, ormai scissa in una componente moderata e una radicale. Se dovessi scommettere sul loro futuro, sarei più ottimista sulle sorti di quest’ultima, almeno in termini di consenso: fino a tal punto risulta nera la notte ideale della sinistra moderata! Proprio per questo, però, ritengo che la scissione di Mussi e c. abbia un significato più grande dei suoi numeri relativamente esigui. E la mancanza di un approdo sicuro per gli scissionisti è ulteriore prova che, ormai, l’esistenza di un’area di sinistra radicale è più importante dei tanti partitini che oggi l’affollano e domani chissà.

Sarebbe politicamente miope ritenere che tutto possa non avere conseguenze anche sull’altro versante dello schieramento politico. E ciò indipendentemente dalla legge elettorale che, infine, verrà adottata. Acclarata la mancanza di volontà politica di giungere a un partito unitario, anche scrutando a destra s’intravede la prospettiva di una più moderata semplificazione partitica in grado di configurare, al livello del complessivo sistema politico, una sorta di “quadriglia bipolare” con due partiti protesi a disputarsi il centro e due formazioni che agiscono sulle ali contrapposte. Le conclusioni del congresso Udc vanno proprio in questo senso: non solo perché hanno liquidato le velleità centriste; anche perché hanno depotenziato le tentazioni di lanciare Opa ostili sulle ricchezze degli alleati. Forza Italia, fin qui, ha fatto benissimo a rifiutarsi di muoversi su stimolo esterno. Sta però giungendo l’ora nella quale dovrà dimostrare di avere classe dirigente e forza politica che le consentano di guidare l’inevitabile processo di rinnovamento del centro-destra.