Il potere logora chi non ce l’ha. Chissà se Ehud Barak aveva in mente questa caustica espressione quando è salito sul podio della convention laburista convocata, il 24 marzo scorso, per pronunciarsi sull’intesa fresca di inchiostro con Benjamin Netanyahu? Di certo il leader di una sinistra uscita sconfitta dalle urne ha usato quasi le stesse parole andreottiane per convincere i 1600 delegati a dargli il disco verde per l’inedita alleanza con la destra. Ha spiegato infatti che per un partito da sempre protagonista della storia di Israele non c’era futuro in un’opposizione di cui non avrebbe neppure avuto la leadership, affidata dagli elettori alla centrista Tzippi Livni.
Probabilmente ha ragione Nahum Barnea, il principe dei giornalisti israliani, quando scrive che essendo il Partito laburista condannato comunque a morte, il suo leader ha deciso di andare ai funerali in uno scompartimentio di prima classe invece che col carro bestiame. La stampa israeliana, nella quasi totalità, ha attaccato Barak con toni estremamente duri. Si è distinto nell’operazione il quotidiano Haaretz, sempre più schiacciato verso le posizioni della sinistra pacifista di Meretz.
Eppure, l’ultima campagna di "Barak-Napoleone", epiteto che si prende burla del suo proverbiale decisionismo, rischia sì di concludersi con una Waterloo per i laburisti ma è certamente un bene per Israele. La presenza dei laburisti nel governo Netanyahu ha già fatto tirare un sospiro di sollievo a Washington e in Europa. I 13 lacerati deputati delle magre truppe di Barak forse non parteciperanno neppure tutti al voto di fiducia ma rappresentano comunque un argine all’influenza dai due partiti di estrema destra, espressione del movimento dei coloni, che insieme hanno ottenuto appena il 5 per cento del voto popolare, ma che rischiavano di paralizzare qualunque iniziativa diplomatica.
Non a caso, ieri, all’indomani del sì laburista, Netanyahu per la prima volta ha mostrato il suo volto pragmatico, dicendosi impegnato a proseguire i negoziati con i palestinesi e precisando che la pace economica da lui proposta è un binario parallelo, complementare a quello politico.
La priorità di Israele è fermare l’Iran nucleare. Netanyahu ha già dovuto promuovere ministro degli Esteri il leader ultranazionalista Lieberman, un personaggio indigesto agli alleati occidentali e arabi. Sarà certamente più facile per il futuro premier varcare la soglia della Casa Bianca con a fianco Barak per convincere il presidente Obama dell’urgenza di accompagnare la carota dell’apertura di credito al regime di Teheran con un credibile bastone di sanzioni economiche. E in caso di fallimento della diplomazia, ipotesi che a Gerusalemme viene considerata estremamente probabile, Israele dovrà prendere decisioni difficili. Netanyahu e Barak, entrambi con un passato militare nei ranghi della più reputata delle unità speciali dell’esercito israeliano, la Sayeret Matkal, sono considerati dall’establishment di sicurezza come i più autorevoli comandanti in capo, per far fronte “alla più grave minaccia all’esistenza dello stato di Israele dalla guerra di indipendenza”. Parole testuali del futuro premier.