La SCO vuole entrare in Afghanistan, ma a combattere sarà sempre la NATO

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La SCO vuole entrare in Afghanistan, ma a combattere sarà sempre la NATO

04 Aprile 2009

Il 27 marzo si è svolta a Mosca la conferenza regionale sull’Afghanistan organizzata dalla Shanghai Cooperation Organization (SCO), l’Organizzazione di sicurezza regionale che ha come membri Russia, Cina e quattro Repubbliche centroasiatiche (Kazakhstan, Kirghizstan, Tagikistan, Uzbekistan), come osservatori India, Iran, Mongolia e Pakistan, e quali “ospiti speciali” Turkmenistan e Afghanistan.

Nelle intenzioni della Russia, presidente di turno della SCO, una partecipazione estesa anche agli attori già presenti nel teatro afgano e ad altri potenzialmente interessati avrebbe reso la conferenza il forum ideale per affrontare delicate questioni, quali il contrasto alle minacce del terrorismo e del narcotraffico provenienti dall’Afghanistan. Quindi, facendosi interprete dell’esigenza condivisa nello spazio eurasiatico di un’iniziativa regionale di stabilizzazione, la SCO ha convocato a Mosca rappresentanti dell’OSCE, dell’UE, degli Stati Uniti, della NATO, dei Paesi del G8, della CSTO (Collective Security Treaty Organization) e dell’Organizzazione della Conferenza Islamica.

Benché presentato come un punto di svolta nella gestione della crisi afgana, la conferenza ha lasciato dietro di sé una scia di perplessità: resta valida l’idea di un nuovo approccio regionale per l’Afghanistan, ma le modalità individuate non risultano sufficientemente convincenti, poiché non considerano la dimensione militare del problema.

La “questione afgana” è da tempo nell’agenda politica dei paesi vicini, preoccupati dalle minacce alla loro sicurezza derivanti dalla situazione politica interna fragile e precaria, dall’endemica corruzione (dalla quale essi stessi non sono immuni) e dalla porosità dei confini che permette a traffici illeciti di ogni tipo di diffondersi a macchia d’olio in tutto lo spazio centroasiatico. L’Afghanistan esporta quindi la propria instabilità nei paesi confinanti, anche in termini di narcotraffico e ideologia estremista. Se con il traffico di droga le Repubbliche centroasiatiche si trovano ad affrontare un problema nuovo (dinanzi al quale non dispongono di strutture sanitarie adeguate per fronteggiare la dipendenza dal consumo di sostanze stupefacenti né il diffondersi dell’AIDS), il radicalismo religioso evoca, invece, i fantasmi dei diversi gruppi terroristici particolarmente attivi nella regione negli anni ‘90 (compiendo diversi attentati, soprattutto in Uzbekistan) e che ora (secondo alcune analisi) sembrerebbero sul punto di riattivarsi.

L’arrivo delle Forze americane, nel 2001, è stato sotto certi aspetti considerato con favore, proprio per il contributo che ha recato alla repressione del terrorismo, mentre sotto altri aspetti ha destato nei leader locali il timore di potenziali squilibri nell’assetto regionale, dovuto a poco gradite ingerenze nella loro politica interna. Di qui un atteggiamento altalenante, fatto di sostegno e diffidenza, che ha condotto alla chiusura delle basi di Kharshi Khanabad e Manas (rispettivamente in Uzbekistan ed in Kirghizstan), inizialmente concesse a supporto delle operazioni in Afghanistan, trovando una copertura di fondo da parte russa.

Oggi, la situazione di difficoltà nella quale si trovano le Forze impegnate in Afghanistan, l’elevato numero di “danni collaterali” (su cui i media regionali non mancano mai di riferire), la necessità condivisa da parte degli attori regionali – sostenuti da Russia e Cina – di imprimere una svolta alla gestione della crisi, hanno consentito la maturazione di un clima favorevole alla responsabilizzazione delle prime e principali vittime della situazione in atto, ossia i vicini centroasiatici dell’Afghanistan. Il naturale strumento di tale processo è stata la SCO, che li comprende tutti, a vario titolo, e che già nel 2002 aveva istituito su iniziativa di Vladimir Putin un Gruppo di Contatto SCO-Afghanistan. I mancati esiti dell’iniziativa hanno indotto la presidenza russa a rilanciare gli sforzi dell’Organizzazione, che il 27 marzo ha chiamato a sancire la propria investitura di arbitro dell’equilibrio regionale eurasiatico anche le maggiori Organizzazioni interessate. L’impressione che si ha è che la Russia abbia voluto approfittare dell’evento per rilanciare il proprio ruolo nell’area, utilizzando la prestigiosa vetrina della presidenza di turno della SCO.

Benché nel corso dei lavori della conferenza, Mosca abbia insistito sul fatto che l’Organizzazione “non poteva restare esclusa dagli sforzi collettivi”, permane più di una perplessità sulla reale volontà di farsi parte attiva della gestione della crisi. Nel suo discorso, il ministro degli Esteri russo Lavrov ha delegato al binomio SCO-CSTO il compito di realizzare una “cintura” di contrasto ai traffici di narcotici e alle attività terroristiche. Ma si tratta di una presa di responsabilità solo apparente, perché la Russia non è intenzionata ad assumere responsabilità militari nella risoluzione della crisi in coordinamento con la NATO. L’unica offerta concreta è la candidatura da parte della SCO a favorire il dialogo e la collaborazione tra Afghanistan e Pakistan. Forse perché Mosca spera nel logoramento delle forze di chi è impegnato sul campo in Afghanistan dal 2001.

La partecipazione della NATO alla conferenza di Mosca è uno sviluppo importante, indice di un avvicinamento alla SCO senza precedenti. Infatti, le due organizzazioni si erano studiate a distanza e guardate con sospetto e diffidenza, ma non si erano mai avvicinate così tanto. Ciononostante, al di là delle dichiarazioni d’intenti non è possibili ancora rilevare una reale volontà della SCO di impegnarsi militarmente in Afghanistan, a dispetto dei reiterati richiami alla regionalizzazione della crisi e del fatto che la conferenza di Mosca si era posta in concorrenza con quella dell’Aja organizzata dalla NATO e dall’ONU il 31 marzo.  

Alla conferenza dell’Aja hanno partecipato circa 80 Paesi e 20 Organizzazioni internazionali, che si sono confrontati sull’Afghanistan alla ricerca di una “soluzione globale ad un problema regionale”, come recitava il titolo dell’evento. La regionalizzazione della crisi è stato quindi il leit motiv anche del vertice olandese, dove degna di nota è stata appunto la partecipazione di una delegazione iraniana.

Ad alcuni commentatori, non è sfuggito che all’Aja non solo si sono riproposti i contenuti della conferenza del 27 marzo, ma che gli attori che NATO e Stati Uniti vorrebbero ora coinvolgere in Afghanistan non sono altro che membri (Russia e Cina) e osservatori (Iran e Pakistan) della SCO. Di conseguenza, una cooperazione tra la SCO (in qualità di coordinatore politico dei partner regionali) e la NATO (coordinatore della missione ISAF su mandato dell’ONU) è oggi uno scenario realizzabile in Afghanistan. A tali considerazioni, si aggiungono le dichiarazioni del segretario generale della SCO, Bolat Nurgaliev, che, alla vigilia della conferenza di Mosca, già si diceva pronto a collaborare attivamente con la NATO.

Che dopo la conferenza di Mosca la SCO abbia davvero fatto un primo significativo passo per il proprio sdoganamento internazionale, approfittando di un’ipotetica gestione regionale della crisi afgana, in cooperazione con la NATO? Per il momento si tratta solo di un auspicio e se si avvierà davvero un processo di stabilizzazione in questi termini, è ancora tutto da vedere. Quel che conta è che sia matura la volontà di chi è già attivo nelle operazioni in corso (Stati Uniti e ISAF), di chi può mutarne l’indirizzo (ONU) e di chi potrebbe fornire un nuovo contributo decisivo (Iran) a partecipare ad un progetto condiviso per la stabilizzazione dell’Afghanistan e, con esso, dell’intero spazio eurasiatico. Se così non fosse, qualunque sforzo unicamente regionale con ambizioni di successo mancherebbe del necessario supporto globale per conseguirlo.