La sfida di Bagnasco e della chiesa è per una nuova cultura della libertà
19 Agosto 2009
Nel giro di poco più di una settimana il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, è tornato due volte sul tema del rapporto tra diritti soggettivi e libertà individuali, rilasciando dichiarazioni molto “provocatorie” per la cultura politica dominante che, nel nostro paese ma non solo, si autodefinisce “liberaldemocratica”.
In un’intervista rilasciata ad “Avvenire” a proposito dell’introduzione in Italia della pillola abortiva RU486, il cardinale tra l’altro affermava: “Il ‘se uno vuole lo fa’ è solo apparentemente un concetto buono e rispettoso; sostanzialmente sostiene sempre il diritto del più forte”. Il 10 agosto, poi, in occasione della celebrazione di S. Lorenzo, Bagnasco polemizza contro il dominio “subdolo e strisciante” dell’opinione pubblica, che pretenderebbe di decidere a maggioranza ciò che è bene e ciò che è male, sulla base di una concezione assolutamente individualistica della morale. Laddove si afferma tale criterio relativistico, sostiene il presule, si pensa che “basta non disturbare troppo gli altri”; ma “col passar del tempo questo ‘disturbare non troppo’ restringe sempre più il suo campo, e la libertà individuale – coincidente con le voglie e le emozioni individuali – si allarga sempre di più nell’affermazione di sé”.
Sono dichiarazioni convergenti nel delineare una strategia di intervento della Chiesa nel dibattito sul rapporto tra democrazie e diritti fondamentali, delle quali il presidente della Cei ha scelto di essere la punta di lancia. E che meriterebbe non barricate ideologiche ma piuttosto risposte chiare e convincenti da parte dei rappresentanti della cultura cosiddetta “laica”. “Se uno vuole lo fa”, e decidere cosa sia bene o male “senza disturbare troppo” gli altri: si tratta, evidentemente, dei principi che stanno alla base di una concezione dei diritti soggettivi fondata sulla libertà per ogni individuo di scegliere i propri “stili di vita”, senza essere limitato da norme giuridiche restrittive.
E’ noto come nell’ultimo secolo – con un accelerazione impetuosa dagli anni Sessanta in poi – nelle società liberaldemocratiche occidentali l’originaria estensione dei “diritti civili” si sia considerevolmente ampliata: includendo da una parte una serie di “diritti sociali”, dall’altra molti comportamenti individuali “eterodossi” precedentemente sanzionati, prima ancora che dalle leggi, dalla riprovazione della morale dominante: in particolare nella sfera sessuale, in quella del consumo di droghe e degli atti a vario titolo autolesionistici, e più in generale negli obblighi dell’individuo verso lo Stato e la comunità.
Questa evoluzione ha suscitato in molti settori della stessa cultura liberale la sensazione che la moltiplicazione dei diritti soggettivi e la giuridicizzazione massiccia di qualsiasi tema etico riguardante i rapporti tra individui e comunità comportassero in realtà una inflazione e svalutazione dei diritti stessi.
Un timore riconoscibile fin negli anni Sessanta – per limitarci soltanto alla cultura italiana – in un giurista liberale come Guido Fassò: il quale, ricordando le origini medioevali e tomistiche del liberalismo moderno, ammoniva sul fatto che i diritti soggettivi, per avere un adeguato fondamento, devono rimandare necessariamente ad un “diritto oggettivo”, ossia ad un quadro di princìpi generalmente compresi e condivisi.
Esso si ritrova, poi, soprattutto nella critica radicale alla cultura “sessantottina” da parte di autori liberal-conservatori come Augusto Del Noce o Nicola Matteucci. E ben presto farà breccia persino nella cultura “postmovimentistica” diffusa. Altamente simbolico in tal senso lo spettacolo musicale di Giorgio Gaber Libertà obbligatoria (1976), in cui il cantautore milanese intonava: “Si può, io mi vesto come mi pare / Si può, sono libero di creare / Si può, son padrone del mio destino / Si può, posso mettermi un orecchino, si può”. Aggiungendo, dopo un crescendo di “liberazioni” personali e collettive: “Sono liberato, sono davvero più leggero / Sono infedele, sono matto, posso far tutto / Viene la paura di una vertigine totale / Viene la voglia un po’ anormale / di inventare una morale”.
Le “provocazioni” attuali di Bagnasco sullo stato del rispetto effettivo della persona umana nelle nostre democrazie tanto ammantate di “diritti umani fondamentali” segnano, in realtà, un passo ulteriore nella storia della critica filosofica al libertarismo: riallacciandosi, al contempo, ad una tradizione di pensiero che la Chiesa cattolica non ha mai abbandonato, nemmeno nei periodi di maggiore successo del “verbo” liberal, e di maggiore esposizione della stessa comunità cristiana ai venti del progressismo individualista. Nella visuale cattolica che oggi il cardinale ripropone con rigore, infatti, il principio
secondo cui “S’ei piace, ei lice” non soltanto rappresenta la svalutazione della libertà individuale autentica, ma ancor più drasticamente si configura come l’affermazione di una nuova legge della giungla, in cui i diritti riconosciuti a tutti sono in realtà esercitati soltanto dai più forti e subiti da coloro che non hanno voce per protestare e rivendicare.
Sembra quasi riecheggiare, nelle parole di Bagnasco, l’antica invettiva di Trasimaco, il sofista che nel I libro della Repubblica di Platone polemizzava con Socrate sostenendo che la giustizia è “l’utile del più forte”, cioè che ogni schieramento politico vincente modella il diritto secondo le proprie idee e i propri interessi. Nelle democrazie fondate sull’assoluto relativismo dei princìpi e comportamenti etici, infatti, agli occhi di chi crede ad una verità oggettiva e alla sacralità assoluta dell’essere umano l’opinione delle maggioranze tende inevitabilmente ad assoggettare i diritti delle minoranze ai comportamenti dominanti, rispetto ai quali i limiti dati dai diritti fondamentali vengono erosi e interpretati sofisticamente in modo da divenire puramente retorici.
Non a caso la leva dalla quale l’offensiva di Bagnasco prendeva spunto era il tema lacerante dell’aborto, con gli sviluppi più recenti connessi alle sue sempre più “facili” applicazioni. Un caso, cioè, di eclatante contraddittorietà in cui il “senso comune” dominante – prima che le leggi vigenti – non attribuisce alcuna personalità giuridica o diritto all’individuo nelle fasi prenatali del suo sviluppo, a vantaggio della libertà incontrastata di scelta da parte della madre. E sicuramente quando egli si riferisce al pericolo di un dominio “subdolo” dell’opinione pubblica punta il dito in primo luogo sui temi biopolitici, che concernono la manipolazione sempre più illimitata della vita in stadi in cui essa è evidentemente priva di qualsiasi salvaguardia.
Ma il succo delle argomentazioni di Bagnasco ha una valenza ben più ampia: siamo proprio sicuri che anche la scelta degli “stili di vita” individuali riguardi soltanto l’individuo che le compie e non coinvolga a pieno titolo altri individui, i quali non detengono un’analoga libertà di scelta sulle conseguenze di essa? In tutti gli ordinamenti liberaldemocratici, nonostante la penetrazione del libertarismo, sono rimaste in vigore consistenti barriere normative ad una libertà di scelta assoluta dell’individuo, in nome della protezione dell’individuo stesso e della società da condotte autodistruttive: dal proibizionismo sulle droghe alla limitazione del consumo di alcoolici, a norme di sicurezza volte ad impedire incidenti causati da comportamenti imprudenti, e via dicendo.
Ma virtualmente tutte le opzioni di vita individuali comportano conseguenze non soltanto sul soggetto agente o sulla collettività, bensì specificamente su altri individui che ne soffrono le conseguenze. Se nel caso dell’aborto o delle pratiche di fecondazione artificiale questo legame è razionalmente evidente (salvo essere rimosso da chi assume una posizione pro choice negando la personalità giuridica dell’embrione e del feto), esso sussiste in modo altrettanto consistente in molte altre circostanze: tra le quali risaltano in modo particolare tutte quelle riguardanti la responsabilità di genitori o tutori verso i minori a loro affidati.
La legalizzazione del divorzio, per citare l’esempio più ovvio, non cancella il fatto che la libera scelta dei coniugi di interrompere la loro unione comporta inevitabilmente conseguenze drammatiche per i loro figli (o per il coniuge più debole), rispetto alle quali nessun tribunale potrà mai adeguatamente tutelarli.
Ma, più in generale, qualsiasi scelta di vita irresponsabile (slegata, appunto, da ogni obbligo) o autodistruttiva si ripercuote inevitabilmente in termini negativi sulla vita dei figli, degli altri familiari e di chiunque altro dipenda a qualsiasi titolo dal soggetto agente.
Rispetto a tutta la vastissima sfera del rapporto tra stili di vita personali e responsabilità verso terzi la Chiesa non intende limitarsi ad un discorso strettamente politico-giuridico. Se in casi limite (divorzio, aborto, sperimentazione sugli embrioni) essa esprime un giudizio fermamente negativo rispetto a leggi permissive, su un piano più ampio essa tiene soprattutto a porre all’ordine del giorno, appunto, la questione filosofica di cosa significhi e cosa debba significare la libertà nel nostro tempo. Posizioni come quelle di Bagnasco evidenziano come l’obiettivo fondamentale della gerarchia cattolica oggi sia quello di promuovere una trasformazione etico-culturale condivisa verso una concezione della libertà non più come pura realizzazione di “irrelati” desideri individuali, ma come “prendersi cura” degli altri, libero dono di sé. Proprio la nozione di “dono”, la cui centralità anche nella vita socio-economica è stata riaffermata prima da Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annus e poi più recentemente da Benedetto XVI nella Caritas in veritate, rappresenta per la Chiesa il nucleo concettuale intorno al quale rifondare la stessa pensabilità dei diritti soggettivi.