La sinistra ha scelto l’eutanasia ma per se stessa
08 Febbraio 2009
L’impegno politico inteso alla stregua di una scelta religiosa. La convinzione che la Giustizia – con la “G” doverosamente maiuscola – dimori da sempre nel proprio campo, disertando in eterno quello degli avversari. La tendenza a vedere in chi professa idee diverse non un oppositore con cui giocarsi la partita, ma l’incarnazione del male assoluto. Un messianismo sicuro di sé sulla carta ma assai debole nella pratica quotidiana. Queste le caratteristiche della politica “vista da sinistra” che emergono nette dal libro di Riccardo Barenghi Eutanasia della sinistra (Fazi Editore, pp. 133, euro 14).
Diciamo subito che l’autore ha tutte le carte in regola per discettare di tale argomento. Infatti Barenghi, ora editorialista de “La Stampa”, ha iniziato la carriera giornalistica nel “manifesto” nel 1980, ed è stato poi direttore di tale quotidiano dal 1998 al 2003. Vanta quindi una conoscenza personale di tutti i principali leaders del centro-sinistra ed è – ammesso che il termine abbia ancora senso – un comunista doc. Pronto, tuttavia, a mettere in discussione con passione e onestà che spesso sfiora il disincanto quanto la sinistra ha fatto negli ultimi decenni, non importa se al governo o dai banchi dell’opposizione.
Il narratore è Giovanni, che è poi lo stesso autore, un intellettuale molto impegnato capace di vivere le campagne elettorali italiane quasi fossero scacchiere sulle quali si gioca il destino dell’umanità. Giovanni vive di politica e per la politica. L’attesa dei risultati gli fa perdere il sonno, lo costringe a centellinarsi gli exit polls in piena notte, lo spinge alla disperazione se le cose non vanno nel verso che lui considera giusto. Non solo. Anche quando la coalizione nella quale si identifica conquista il governo con una maggioranza risicatissima, iniziando subito un balletto interno che la porterà infine all’autodistruzione, la distanza tra gli ideali forti in cui Giovanni crede con fermezza e la pratica quotidiana dei personaggi chiave della sua parte politica lo fanno precipitare in un pessimismo sempre più cupo.
Ecco quindi narrate, con un’ansia genuina che finisce col contagiare il lettore, le vicende dello scontro tra Prodi, D’Alema e Veltroni da un lato, e Berlusconi dall’altro. Scontro che, anche quando la sinistra vince, è sempre determinato dai tempi e dalle parole d’ordine fissati dal capo della coalizione avversa. Giovanni, insomma, vede frantumarsi con ritmo rallentato tutti gli ideali di una vita, fino al disastro finale con l’esclusione dal Parlamento della sinistra radicale, la fazione che sente più vicina. Impietosa la descrizione di prima mano di Prodi, che non è mai stato un leader, e si addormenta durante le riunioni. Di D’Alema, il più intelligente, ma troppo narciso e autoreferenziale. Di Bertinotti, assai più vanesio di quanto lascino credere le versioni ufficiali. Di Veltroni – neppure lui un vero capo – troppo sensibile all’immagine mediatica e al contempo troppo lontano dalle pulsioni primigenie del popolo di sinistra. Per non parlare di figure minori quali Giordano e Diliberto.
Ma la carenza di leadership può davvero spiegare tutto? Ovviamente no. Barenghi è intelligente e non semplifica. Occorre pure tener conto della fusione posticcia fra DS e Margherita. Della ineliminabile tensione tra sinistra moderata e radicale. Ma, soprattutto, del fatto che gramscianamente il centro-destra ha saputo conquistarsi una sorta di egemonia culturale in vasti strati della gente comune. La soluzione? Per ora non c’è, e di certo non può consistere nel “ma anche” di Veltroni. Occorre invece, per Barenghi, “una filosofia politica capace di ridare un senso alla sinistra del secondo millennio”.
A chi scrive, però, non pare che la soluzione si possa trovare in una qualsivoglia filosofia politica. Si tratta piuttosto di dismettere gli atteggiamenti messianici per passare a una visione più pragmatica della politica stessa, adottata dalla sinistra dei principali paesi europei. E di tagliare i ponti con coloro che vedono nei “movimenti” – tipici i casi dei girotondi prima e dell’Onda studentesca poi – occasioni da non perdere per sovvertire le fondamenta del sistema. Insomma un’iniezione di sano pragmatismo e la capacità di non confondere essere e dover essere.