La sinistra, le riaperture e i dogmi del politicamente corretto

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La sinistra, le riaperture e i dogmi del politicamente corretto

25 Aprile 2021

In attesa che Giuseppe Conte termini di scrivere il Manifesto dei 5 Stelle “due punto zero” – c’è chi ha giustamente notato che il tempo impiegato sarà assai più lungo di quello speso da Marx ed Engels per redigere il loro (e anche Luigi Di Maio, nel suo piccolo, se ne inizia ad accorgere) -, Enrico Letta alla guida del Pd resta la maggiore novità prodotta dalla politica italiana dell’era Draghi.

Noi non intendiamo entrare nel merito delle singole scelte compiute dal neo-segretario. Vorremmo, piuttosto, discutere degli effetti che il suo avvento sta determinando sul sistema politico. Perché Enrico Letta ha compiuto una scommessa che riguarda tutti e alla luce della quale vanno lette le sue mosse più importanti: la scommessa di restaurare quel bipolarismo che era tramontato nel 2013, proprio in corrispondenza della formazione di un esecutivo da lui presieduto.

Enrico Letta, approfittando del governismo a oltranza ormai impadronitosi dei 5 Stelle, ritenendo che dalle ceneri di quello che fu “il movimento” non risorgerà una nuova forza anti-sistema, intravedendo falle non irrilevanti nello schieramento di centrodestra, ha deciso di inscrivere il suo ritorno nel segno di un nuovo Ulivo; di risuscitare cioè, riveduta e corretta, la creatura che fu dei suoi maggiori Andreatta e Prodi.

A tal fine vorrebbe stabilire una nuova centralità del Pd attraverso la guida di una coalizione di centrosinistra la più ampia possibile, piuttosto che attraverso la conquista di uno spazio centrale (e tendenzialmente centrista) nel più complessivo schieramento politico. Da qui discendono le scelte sistemiche più importanti dei suoi primi quaranta giorni: rimarcare l’assoluta alternatività del partito nei riguardi della destra ma anche del centrodestra (da qui l’uscita sullo ius soli che, se valutata in sé, è apparsa quanto meno intempestiva); sbaraccare qualsiasi proposito di riforma elettorale proporzionale puntando invece su sistemi con effetti maggioritari ancor più pronunciati (da qui l’evocazione di un ritorno al Mattarellum); provare ad allargare la coalizione di sinistra quanto più possibile verso un centro non “compromesso” con la parte avversa (da qui la tentata apertura verso Calenda e, addirittura, il ramoscello d’ulivo porto a Matteo Renzi).

Noi, pur essendo in tempi ordinari dei “maggioritaristi” convinti, non possiamo fare a meno di ritenere che questa strategia possa andare incontro ad alcune gravi criticità. E che queste dipendano sia da motivi strutturali che dalla contingente realtà storica.

Nella prima categoria di criticità va annoverato il diverso terreno di coltura nel quale l’Ulivo di Letta prova a impiantarsi rispetto a quello che fu di Romano Prodi. Gli anni Novanta in Italia videro l’importazione (in ritardo) delle ricette neo-liberiste che erano state sperimentate nel decennio precedente tanto nel mondo atlantico (Reagan e Tatcher) quanto sul continente (Chirac). Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale che, naturalmente, spinse la componente cattolico-sociale che nel nostro Paese da sempre aveva guardato verso sinistra a ribellarsi. Gli effetti di questa deriva furono amplificati dal fatto che a incarnare “la novità” fu Silvio Berlusconi: un tycoon antropologicamente estraneo alla politica così come fino ad allora era stata interpretata e, per questo, vissuto naturalmente come nemico della formula politica che aveva dominato l’Italia per tutto il lungo centro-sinistra. E’ innanzi tutto su questo terreno che si saldò l’accordo tra gli eredi della sinistra comunista e gli eredi del cattolicesimo sociale. Ed è lungo questa trincea che sono state combattute tutte le battaglie degli ultimi anni del XX secolo e dei primi del XXI.

Rispetto a quello schema di battaglia oggi tutto è diverso. Le scelte economiche hanno assunto una torsione più pragmatica e meno ideologica. Certo, al fondo delle decisioni di politica economica è sempre possibile rintracciare un “residuo” della vecchia contesa. Ma, per l’appunto, si tratta di un residuo. E ancora. Pur considerando tutta la forza divisiva di Salvini, questa non può essere neppure paragonata a quella che fu di Berlusconi. Soprattutto dopo che, bene o male, nel momento più difficile della storia della Repubblica, il leader leghista ha deciso di prendere parte a un governo di unità nazionale. Si può fare ogni sforzo per svilire il significato di questa scelta ma essa c’è stata e sarà destinata a riverberare i suoi effetti nella durata.

Anche alla luce di tale considerazione si possono considerare i limiti contingenti della strategia lettiana. Forzare sulla alternatività obbligatoria nei confronti delle forze di centrodestra porta il Pd, nell’attuale compagine governativa, a prendere le parti di quegli ambiti economico-sociali più garantiti e a penalizzare, di contro, lavoratori autonomi, partite Iva, professionisti: quei ceti produttivi dai quali dipenderà in gran parte la ripresa del Paese. Sia chiaro: il problema non è quello di essere più o meno “aperturisti” di fronte a una situazione sanitaria ancora incerta. Il problema è come si ripartisce il peso che questa situazione impone. L’idea che la sinistra sta accreditando all’interno del governo è di essere insensibile alle difficoltà dei settori più vivi e intraprendenti della nostra economia: se si tengono chiusi i ristoranti e si aprono i teatri, la scelta suona, inevitabilmente, come ideologica; così come se si afferma che il “tesoretto” derivante dalla discesa dei contagi deve essere speso per consentire agli studenti di salutarsi alla fine di un anno scolastico a dir poco disastroso (Speranza dixit), a fronte della miseria che insidia alcune categorie sociali.

A tutto ciò va aggiunto un altro elemento di riflessione. Romano Prodi teneva unita la sua coalizione e allargava il suo Ulivo sul terreno dell’economia sociale (il meno possibile di mercato) e contro ciò che antropologicamente Silvio Berlusconi rappresentava anche in termini di secolarizzazione. A Enrico Letta tocca farlo sulla base di un europeismo esasperato nel momento nel quale l’Europa non è più in discussione e, semmai, il dibattito è su come dovrà essere l’Europa dopo la pandemia; e, soprattutto, inseguendo i 5 Stelle sul terreno delle cosiddette battaglie post-materiali. Da qui discende, ad esempio, la lotta per portare immediatamente nell’aula del Senato la legge Zan: al di là dei contenuti della legge, scelta difficile da spiegare per la tempistica. Letta così rischia, forse inconsapevolmente, di accreditare definitivamente quella trasformazione della sinistra in un grande partito radicale di massa, evocata per primo da Augusto Del Noce: opzione che culturalmente non gli appartiene.

Quel che però a nostro avviso dovrebbe ancor più indurlo a riflettere è che, al di là delle contingenti scelte governative, la ripartenza si intravede in fondo al tunnel. Ed è questa la dinamica che, inevitabilmente, conquisterà anche il centro dell’agone politico. C’è da ritenere, e soprattutto c’è da sperare, che la vitalità di una parte del Paese sarà più forte di divieti a volte incomprensibili o di decisioni più o meno sbagliate. E Letta rischia di regalare chi incarnerà questa vitalità ai suoi avversari: una buona parte del mondo moderato, pragmatico, centrista che con la cultura dei 5 Stelle (seppure versione light, come la Coca Cola) non vuole avere a che fare; o quantomeno non vuole avere a che fare organicamente.