La sinistra mangia-leader (sempre) alla ricerca di una legittimazione “dall’alto”

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La sinistra mangia-leader (sempre) alla ricerca di una legittimazione “dall’alto”

20 Dicembre 2017

Il problema principale della sinistra italiana non è stata la litigiosità (pur assai diffusa) ma il cercare la legittimità essenzialmente “dall’alto”. “C’è sempre nell’ombra qualcuno pronto ad abbattere il leader nascente, a limitarne le possibilità, a sfinirlo con il gioco d’interdizione. L’elenco dei leader bruciati dal centrosinistra in questi anni è impressionante: Achille Occhetto, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Pierluigi Bersani, Enrico Letta”. Luciano Fontana sul Corriere della Sera dell’11 dicembre dice cose ragionevoli sulla difficoltà della sinistra italiana a restare unita. Però mi pare che non colga il nodo centrale della questione che non è solo caratteriale. La sinistra non si è mai unificata seriamente e fino in fondo perché  la sua leadership è stata di fatto garantita essenzialmente “dall’alto”. E’ l’assecondare, grazie innanzi tutto a Luciano Violante (poi esemplarmente pentitosi del suo ruolo), l’ondata giustizialista del ’92 che libera la sinistra dal compito di ripensare una Costituzione in parte figlia della Guerra fredda e dunque da rivedere. E’ Francesco Saverio Borrelli che fa cadere il governo Berlusconi del ’94. E’ il pool di Milano che con Magistratura democratica “libera” il governo Dini dal Guardasigilli Mancuso che voleva una riforma della Giustizia nel 1996. Sono i vertici europei che con l’obiettivo di far entrare nell’euro l’Italia sostengono Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi. E Gerardo Colombo che blocca il tentativo costituente di Massimo D’Alema. E l’assordante silenzio dell’establishment  che blocca D’Alema quando cerca di riformare il sindacato. E così via: magistrati e influenze straniere (e in parte il nostro sempre più piccolo establishment) sono essenziali per liquidare i vari governi Berlusconi e preparare la via ai vari governi sempre costruiti “dall’alto”. Ma lo Stato, il sindacato, il sistema giudiziario, una politica per le nuove generazioni, il sistema si possono cambiare solo (anche) dal basso (cioè collegandosi ai processi concreti non pensando di poterli dominare astrattamente), o altrimenti il tuo potere finirà per svanire anche quando tu personalmente sembri essere fortissimo come nel caso di Matteo Renzi. Se si guarda alla spirito di scissione  invece che alla ricerca di processi di legittimità sempre dall’alto, non si comprende quale è stato il vero problema della sinistra secondorepubblicana

Trump e le organizzazioni sovranazionali, facciamo a capirci sulle origini dei conflitti. “Given his disdain for US allies, Mr Trump probably does not worry too much about the views of the UK, Japan and Australia. But America’s network of alliances — such as the US-Japan security treaty, Nato and the Anzus treaty — are bedrocks of US power”. Gideon Rachman sul Fiancial Times del 5 dicembre scrive che Trump per il disprezzo che prova per i suoi alleati, non si preoccupa troppo delle opinioni di Gran Bretagna, Giappone e Australia, ma così mette in pericolo tutte le strutture alleate che hanno contribuito alla sicurezza occidentale: dalla Nato al trattato di sicurezza con l’Australia e la Nuova Zelanda (l’Anzus Treaty). “As trade ministers from the WTO’s 164 members gather in Buenos Aires on Sunday for their biennial conclave, they are confronting what many see as an accelerating existential crisis for both the two decades-old body and for the postwar trading system. And the US, the one-time guarantor of that architecture, is now leading the assault”. Shawn Donnan scrive sul Financial Times del 6 dicembre che i ministri del Commercio dei 164 stati membri che si sono riuniti a Buenos Aires hanno dovuto confrontarsi con una crisi strutturale sia della loro istituzione sia delle regole che hanno governato il commercio internazionale nel Secondo dopoguerra. E quella che era la potenza che costituiva la garanzia fondamentale del sistema (gli Stati Uniti), è oggi quella che guida l’assalto contro lo stesso sistema. Certe élite inglesi che volevano essere nell’Unione ma fuori dall’Unione, con gli americani ma anche con i cinesi quando questi costruivano contro Washington la nuova Via della seta; il blocco bottegaio franco-tedesco che strilla in difesa di regole sovranazionali, chiede sanzioni ai russi, fa grandi proclami pro clima, critica la scarsa attitudine pacifista israeliana e poi manda Gerhard Schroeder a far il presidente della Rosneft, tarocca i motori diesel della Volkswagen e trascura le emissioni da carbone, critica Netanyahu e copre la strategia di aggressione di Teheran; e certi alleati asiatici che chiedono l’ombrello americano ma non vogliono ragionare sulle vie per pagare “questo ombrello”; l’insieme dei Paesi europei che giocano a tutti i tipi di i microprotezionismi possibili e poi si sollevano per le tasse americane; tutto questo andazzo che è cresciuto dopo la fine della Guerra fredda fino a diventare inarrestabile con la presidenza più scassata e demagogica della storia Usa, quella di Barack Obama e dei suoi degni segretari di Stato Hillary Clinton e John Kerry, sottolineano essenzialmente un problema (che si poteva peraltro intuire anche senza prove empiriche): non sono i sistemi sovranazionali che creano un equilibrio nel mondo ma è un equilibrio tra gli Stati che pone la base per far funzionare gli organismi sovranazionali. Tutte le organizzazioni sovranazionali che sono cresciute nel Secondo dopoguerra (dall’Onu alla Nato, dalla Comunità europea al Fmi, dal Wto alla World Bank) si sono formate sulla base dell’equilibrio definito dalla Seconda guerra mondiale e plasmato dalla Guerra fredda. Oggi questo equilibrio non c’è più e c’è chi ha ritenuto che le organizzazioni sovranazionali potessero tirarsi su da se stesse come un nuovo barone di Münchhausen. “Tend to think they’re sort of evolving kinds of governance” tendono a pensare che organismi funzionali pensati per un preciso scopo e sulla base di determinati rapporti interstatuali, si stiano evolvendo in forme di governance internazionale separata dagli stati nazionali. Così Ana Swanson sul New York Times del 10 dicembre riporta il pensiero di Robert  Lighthizer, l’uomo di Trump nella discussione sul Wto. Oggi qualunque persona onesta intellettualmente dovrebbe rendersi conto che senza “un nuovo  equilibrio” (che potrà poggiarsi solo sugli Stati nazionali come base fondante) il disordine mondiale prevarrà su qualsiasi organizzazione sovranazionale. E in questo quadro Trump non è che il classico fool shakespeariano che si assume il compito di dire la verità. Thomas L. Friedman dice sul New York Times dell’8 dicembre che Trump “does not see himself as the president of the United States. He sees himself as the president of his base” non si considera presidente degli Sati Uniti bensì presidente del suo elettorato. In parte c’è qualcosa di vero. E in parte c’è qualche deficienza nella nuova amministrazione americana nel gestire regole e diritti che vanno registrati ma che nella transizione a un nuovo assetto non possono essere abrogati. Ma al fondo la caratteristica del Donald è che si considera  soprattutto presidente degli Sati Uniti, invece che presidente della Nato, dell’Onu, dell’Unione europea, del Fmi e così via. E vuole ricostruire anche (non sempre con il massimo della razionalità) una logica di queste istituzioni sovranazionali partendo da un piccolissimo fattore: gli Stati Uniti esistono e per fondare qualsiasi nuovo equilibrio internazionale devono continuare a esistere.

Tutto il mondo è via Arenula: a Varsavia l’Andrea Orlandczyński polacco sconfigge il Piercamillo Davigczyński locale. “The new version lowers the retirement age for the court’s judges to 65 from 70, effectively forcing the immediate removal of 40 percent of the justices. That bill was approved by a vote of 239 to 171”. Rick Lyman sul New York Times dell’8 dicembre spiega il duro scontro in  atto in Polonia sulla questione della giustizia. Il punto di maggior dissenso è sulle forme di elezione della Corta suprema (una sorta di Cassazione polacca) nella quale secondo il partito di destra “Diritto e Giustizia” oggi al governo c’è ancora un eccesso di magistrati che provengono dal vecchio regime comunista e per ovviare a questo fatto si propongono forme di selezione dei giudici più determinate dal parlamento che dal presidente della Repubblica (pur anche lui di Diritto e Giustizia). L’opposizione e la stessa Commissione europea vedono in queste scelte, il pericolo di una sottomissione della magistratura alla politica. Il governo polacco sostiene di comportarsi all’interno della Costituzione che la Polonia si è data. Subordinata a quella principale che ho richiamato, c’è poi anche una dura ma più circoscritta polemica – quella a cui si riferisce la frase riportata di Lyman-  perché Varsavia ha deciso di abbassare l’età di pensionamento delle toghe polacche (dai 70 anni ai 65), liquidando così il 40 per cento dei membri di quella Corte suprema che rappresenta il nodo centrale dello scontro.  Così a occhio mi sembra che in questo caso l’Andrea Orlandczyński locale ce la farà a portare a casa i prepensionamenti e non sarà ostacolato come il nostro Guardasigilli a prendere provvedimenti su pensioni e ferie dei giudici da un qualche Piercamillo Davigczyński leader dei magistrati polacchi

Stai Seregno, Ferrarella. “’Carenza di gravità indiziaria, non risultando comprovati né la illegittimità del procedimento amministrativo né l’intervento tra le parti di un accordo corruttivo’. Con queste motivazioni il Tribunale del Riesame ha stroncato l’indagine della Dda di Milano che lo scorso settembre aveva portato in carcere 24 persone, fra politici e imprenditori in Lombardia, accusati a vario titolo di associazione mafiosa finalizzata alla corruzione, allo spaccio di stupefacenti e al traffico di armi” così scrive Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio del 29 novembre.

Colpo alle cosche in Lombardia: 24 arrestati. Indagato anche l’ex vicepresidente della Regione, Mantovani”. Così l’incipit dell’articolo di Luigi Ferrarella  che descriveva il 26 settembre la “retata” di Seregno finita così ridimensionata dalla sentenza del Tribunale del riesame. “A Seregno episodi inquietanti / Ma la corruzione non è provata” così il titolo (che ben illustra lo svolgimento dell’articolo di Ferrarella a cui è dedicato) che il Corriere della Sera del 27 novembre dedica alle motivazioni del Tribunale del riesame di cui scriveva prima, motivazioni che tra l’altro scagionano il su citato Mantovani. Si sfalda un teorema, svaniscono le accuse a un uomo politico di peso di Forza Italia, ma quel che si continua a sottolineare è un vago fattore “inquietante” degli episodi e si cerca di far passare l’idea che la “corruzione” c’è ma non è “provata”.