La socialdemocrazia in Europa ha fallito e neanche Obama potrà salvarla

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La socialdemocrazia in Europa ha fallito e neanche Obama potrà salvarla

14 Giugno 2009

Scriveva Giuseppe Berta prima di questa tornata elettorale: “In Europa, la sinistra – o il centrosinistra, se si preferisce – è al suo minimo storico. Priva di appeal come non è quasi mai stata. Dove è rimasta a lungo al governo, come nel Regno Unito, sembra sul punto di passare da una prospettiva di secca sconfitta a un’altra di débacle vera e propria.” I risultati di una settimana fa sembrano confermare in pieno le sue considerazioni. In questo libretto che raccoglie una serie di articoli scritti per la rivista “il Mulino”, Berta descrive in modo impietoso la crisi nella quale si trova la sinistra in tutta Europa, collega questa crisi alla “eclisse della socialdemocrazia” alla quale il suo pamphlet si intitola, identifica nell’America di Obama una speranza e un modello da seguire.

E’ molto efficace la descrizione che questo storico dell’epoca contemporanea da sempre molto attento all’economia compie della traiettoria seguita dalla sinistra nel Vecchio Mondo: un passaggio dal “capitalismo laburista” di cui parlava Joseph Schumpeter nel secondo dopoguerra alla “socialdemocrazia capitalista” di oggi. Che cosa indicano queste espressioni? Schumpeter indicava con “capitalismo laburista”, deprecandola, la scomparsa dal capitalismo del laissez-faire, dell’individualismo, dell’imprenditorialità aggressiva e perfino selvaggia che lo aveva caratterizzato agli inizi: il capitalismo si era arreso alle esigenze del pubblico, della regolazione statale, ed era divenuto “una grande macchina burocratica e spersonalizzata”. Una situazione che Berta descrive così: “Il nuovo assetto capitalistico, che s’era configurato dopo la seconda guerra mondiale, era perciò un ibrido: sulle fondamenta della più potente ed efficiente organizzazione economica che la società avesse mai messo a punto era cresciuta una superfetazione istituzionale che pretendeva di asservire la fabbrica della ricchezza a fini di equilibrio sociale che in fondo le erano avversi.” Nel giudizio di Schumpeter, il socialismo non mirava a distruggere il capitalismo, ma a smussarne gli angoli  e così a snaturarlo, “a sterilizzare ciò che restava dei suoi impulsi antiegualitari e magari anche antidemocratici”: si realizzava in questo modo, soprattutto nell’Inghilterra laburista, l’unione del capitalismo come sistema di produzione con il livellamento dei redditi e quindi con la diminuzione delle differenze di classe, con una maggiore uguaglianza nella società.

Oggi invece – sostiene ancora Berta – abbiamo da una parte un capitalismo che non assomiglia affatto a quello descritto da Schumpeter, un capitalismo che non è per niente livellatore delle differenze, e dall’altra un “laburismo impregnato di umori capitalistici, tanto da avere, esso sì, smarrito l’etica sociale che l’aveva distinto un tempo”, ovvero una “socialdemocrazia capitalistica”: “nell’epoca della globalizzazione, la socialdemocrazia al governo ha scoperto di dover aderire quasi plasticamente ai caratteri del capitalismo contemporaneo, abbandonando la pretesa di trasformarli.” In effetti, nella Gran Bretagna dei governi laburisti degli ultimi anni, “la questione consiste nell’adattare la società al sistema economico, giudicato immodificabile”. Se dalla Gran Bretagna, che Berta sceglie come osservatorio privilegiato su quel che accade a sinistra, si passa all’Italia o ad altri paesi europei, la situazione si ripete con poche varianti.

Ciò che è scomparso all’interno della sinistra secondo Berta è il modello socialdemocratico: lamenta che oggi il capitalismo venga accettato così com’è senza neppure il tentativo di modificarne gli aspetti più palesemente sperequativi e generatori di differenze, così come viene accettata completamente la globalizzazione con tutti i suoi disastri. Semplicemente, nota l’autore, ci si arrovella sul modo in cui è possibile restare a galla, essere sempre più produttivi e di successo in un’economia la cui configurazione presente è considerata lo sfondo naturale, ovvio, dato una volta per sempre, dell’azione politica da svolgere. In Gran Bretagna il New Labour ha messo in soffitta “il collettivismo e il comunitarismo d’antan delle Unions”, si rivolge al singolo elettore considerato un atomo isolato dal resto della società, promette garanzie sociali che però non si collegano più in alcun modo al socialismo, si batte per l’accesso all’istruzione (vera frontiera sulla quale avvengono le lotte e le rivendicazioni della sinistra di oggi), chiede maggiore sicurezza, difesa dalla criminalità, stabilità sociale, in modo non molto diverso dalle forze politiche che si collocano in un’area di centrodestra. Nel frattempo “il messaggio politico è divenuto (…) compiutamente individualistico, al punto che organizzazioni collettive come i sindacati lasciano il compito della formazione (nella quale sembra tradursi oggi l’ideale dell’emancipazione) al governo.” Dal lessico del New Labour britannico è scomparso ogni riferimento al socialismo: anche gli scarsi richiami della SPD tedesca a quella ideologia risultano solo verbali. Allo stesso modo, un governo socialista come quello spagnolo di Zapatero si differenzia da quello precedente di Aznar non per la politica economica o sociale, ma esclusivamente per il richiamo ai diritti civili e a una diversa politica estera. Anche nel centro-sinistra italiano, del resto, ogni riferimento al socialismo è scomparso ormai da tempo.

La descrizione di Berta è crudele e al tempo stesso efficace: mostra bene il passaggio avvenuto nella sinistra riformista da ideali di cambiamento della società all’accettazione dello status quo, dal piano della trasformazione al piano della conservazione di quel che esiste, dalla lotta al capitalismo alla difesa di esso in tutto e per tutto, salvo qualche miglioria che ne attenui gli effetti peggiori. Se la descrizione è acuta, non altrettanto convincente risulta la ricerca delle cause di questo passaggio; la proposta di una ripresa del modello socialdemocratico da parte della sinistra solleva poi alcuni dubbi.

Quali sono infatti le cause di questa situazione della sinistra? Berta parla di eclisse: della perdita da parte della sinistra di una ideologia, un modello di società, una prospettiva di mutamento dell’economia sulla quale si basa la società europea. Nelle sue pagine si trova la sensazione che la sinistra moderata europea si sia arresa all’esistente, abbia riconosciuto l’impossibilità di fuoriuscire dal capitalismo, e che in questa resa abbia lasciato cadere anche obiettivi limitati (e intermedi rispetto al socialismo) quali la democrazia o la diminuzione delle disuguaglianze sociali. Il modello socialdemocratico del quale si parla in queste pagine si era tradotto concretamente in Welfare state, e questo a sua volta ha subito i contraccolpi delle politiche di deregulation degli ultimi anni, insieme agli effetti della crisi economica. A leggere Berta, non si comprende se questo atteggiamento della sinistra dipende da una caduta delle sue convinzioni ideali sull’obiettivo finale da raggiungere (il socialismo), da una strategia di occultamento dell’obiettivo finale per raccogliere consensi anche presso quell’elettorato al quale la parola socialismo fa paura, ovvero da un ripensamento sugli eventi capitali occorsi nella storia a noi più prossima. Vivere in un’età che è stata definita già molti anni or sono postideologica non può essere indifferente, soprattutto a sinistra. Ma un peso lo ha esercitato probabilmente anche la globalizzazione: assistere in un torno velocissimo di tempo al diffondersi su scala mondiale del capitalismo deve aver colpito anche coloro che della globalizzazione criticano modalità di realizzazione ed effetti negativi. E infine, l’idea che l’unico modo di produzione possibile sia il capitalismo non dipenderà anche dalla scomparsa dell’URSS, dove si era incarnato non l’unico socialismo possibile, ma certo l’unico realizzato su vasta scala in seguito a una rivoluzione?

Vi è nelle riflessioni di Berta un punto che resta oscuro: non è chiaro perché egli consideri il social liberalism, insieme alla “democrazia sociale” che ne discende, una eredità del passato, “dell’età in cui il laburismo era ancora una costola del liberalismo”. Non era proprio in quel social liberalism, in quella democrazia sociale, che si traduceva l’ideale politico a cui l’autore fa riferimento e che consiste nell’unire il mantenimento del sistema produttivo occidentale e della libertà politica con obiettivi di giustizia sociale, eguaglianza, livellamento dei redditi? Berta rimprovera ai nuovi socialisti del XXI secolo di aver rinunciato alle parole d’ordine e agli ideali del socialismo, ma allo stesso modo si potrebbe rimproverare a lui di non riconoscere al progetto che propone alla sinistra riformista i progenitori che gli spettano: quell’ibrido fra liberalismo e socialismo che nasce tra Ottocento e Novecento e che assume varie denominazioni nel corso della storia (socialismo liberale, liberalsocialismo, social liberalism). Esso gli pare vecchio e defunto, ottocentesco, così legato al liberalismo da apparire come una sua variante, tutt’altra cosa rispetto alla socialdemocrazia. Invece, la traduzione politica di quel modello economico che possiamo indicare come socialdemocrazia o Welfare state è precisamente quell’ibrido ideologico propugnato da John Stuart Mill nella seconda fase della sua riflessione, e poi sostenuto da autori che vanno da Hobhouse a Renouvier, da Carlo Rosselli a Bertrand Russell, da Thomas Green a John Dewey.

La proposta di Berta è del tutto assimilabile con altre analoghe che hanno avuto corso nei secoli XIX e XX e che hanno mirato a proporre e riproporre il socialismo liberale (o liberalsocialismo) sotto varie denominazioni e varie forme. Il socialismo liberale si rifà proprio al laburismo del quale il nostro autore lamenta la scomparsa, e vede nell’unionismo, ovvero nel sindacalismo britannico, un modello da seguire nell’azione politica. Riprende dalla tradizione inglese il gradualismo, l’antimarxismo, una via riformista e non rivoluzionaria al mutamento sociale, l’idea che il capitalismo vada conservato eliminandone però gli effetti più macroscopici di disuguaglianza, il principio di una più equa distribuzione della ricchezza, la centralità del lavoro, l’idea che le forti disuguaglianze in una società siano negative per la tenuta di quella società perché portatrici di sofferenze e quindi di spinte distruttive. Esprime insomma quella sintesi fra liberalismo e socialismo che traduce in formula politica e ideologica il progetto socialdemocratico riproposto da Berta.

Ciò di cui l’autore lamenta la scomparsa, infatti, è “un ibrido disinteressato a distinguere fra liberalismo e socialismo, per dirla ancora con le categorie del secolo scorso”. Il Novecento avrebbe  distinto tra liberalismo e socialismo, mentre oggi è necessario che una sinistra riformista non faccia differenze tra l’uno e l’altro. Berta afferma: “Il futuro, se un futuro vi è per un centrosinistra che possegga autentico spirito europeo, spinge ad abbattere le surrettizie distinzioni ideologiche del passato, che non tengono conto delle urgenze del presente.” Dimentica però che è proprio il passato ad aver  intrapreso la strada che egli indica al futuro, ed esattamente quando ha espresso ideologie politiche che vanno sotto il nome di socialismo liberale, di liberalsocialismo, di liberalismo sociale: il tentativo di correggere il capitalismo (che veniva accettato) in direzione di una maggiore equità sociale, l’unione della libertà liberale con una attenzione per la giustizia sociale, la salvaguardia della libertà in economia (contro la nazionalizzazione propugnata da una parte del socialismo) insieme al desiderio di far scomparire (o almeno diminuire) le disuguaglianze presenti all’interno della società, è infatti ciò che caratterizza quelle correnti.

Infine, veniamo alla crisi economica attuale e all’effetto Obama. Berta invita a vedere nella crisi economica che oggi ci tocca l’occasione per invertire la rotta rispetto allo Stato minimo, alla centralità del mercato, all’individualismo. In questo modo, ridiventerebbe attuale la ricetta fornita da Keynes nella crisi del ’29. Ma non è affatto certo che dalla crisi si esca con un maggior peso dello Stato nell’economia, né è detto che un maggior peso dello Stato nell’economia (qualora si verifichi) coincida con una ripresa della socialdemocrazia. Quanto agli Stati Uniti, è difficile prevedere fin da ora, nel gioco delle vicinanze e lontananze che hanno sempre contraddistinto i rapporti fra Vecchio e Nuovo Mondo, quale potrà essere l’effetto sull’Europa e su un centrosinistra alla ricerca di una leadership e una linea politica coerente di un’amministrazione come quella certamente molto dinamica e innovativa di Obama.

G. BERTA, Eclisse della socialdemocrazia, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 135, euro 10.