La speculazione non c’entra, contro il caro greggio servono più investimenti
16 Luglio 2008
La speculazione non è la peste del XXI secolo e gli speculatori non sono untori. L’intervento di Massimo Nicolazzi sull’Occidentale di martedì 15 luglio mette in fila una serie di ordinati ragionamenti, che consentono di comprendere meglio cosa sta dietro all’incredibile e imprevedibile corsa del barile, il cui valore in dollari è raddoppiato in pochi mesi (in euro, l’aumento è più contenuto ma quasi altrettanto visibile). Il punto è che le dinamiche finanziarie giocano un ruolo, ma possono farlo solo perché intervengono in un contesto di mercato “tirato”. Sia la domanda sia l’offerta sono, nel breve termine, molto rigide; e nel medio termine un po’ meno ma non certo elastiche. Quindi, la sensibilità dei mercati agli scossoni – e dunque al rischio di scossoni – è molto alta, e questo aiuta a capire, da un lato, che il contenimento della domanda anche in piccola misura richiede un grande sbalzo di prezzo; e, dall’altro, che, poiché l’informazione è opaca e incompleta, la volatilità dei prezzi è altrettanto pronunciata. Non è, questo, un quadro a tinte fosche: se lo si guarda con attenzione, anzi, non mancano elementi di ottimismo.
Il primo è generale: il mondo oggi sta messo maluccio, ma va pure detto che si trova al centro di una tempesta perfetta, con l’incrocio perverso tra aumenti dei prezzi delle commodities, crisi finanziaria, e alchimie monetarie della Fed. Se si confronta l’attuale crisi petrolifera con quelle precedenti, non si può non notare come condizioni oggettivamente molto peggiori e più complesse abbiano un impatto relativamente più contenuto sulle economie mondiali. E questo appunto perché, nel frattempo, le economie mondiali sono cresciute in modo straordinario, e l’energia – per la quale spendiamo oggi più che allora – rappresenta nondimeno una frazione inferiore del nostro reddito nazionale. Secondariamente, i prezzi e il mercato stanno facendo dignitosamente il loro mestiere: la domanda in Europa e Stati Uniti ha finalmente dato segni di cedimento, e i recenti interventi di paesi come Cina e Russia sulle tariffe energetiche (fino a ora pesantemente sussidiate) lasciano intuire che qualcosa potrebbe muoversi pure là. Dal lato dell’offerta, gli investimenti sono partiti e, tempo qualche anno, ce ne accorgeremo. Ovvio, la way out non è dietro l’angolo: ma, come una nave alla deriva, il mondo sta cominciando a intravedere le stelle al di là della coltre di nubi che ci sovrasta. Per rispondere a slogan con slogan, dunque, non ci serve meno speculazione, ma più investimenti: e le ondate speculative, gli investimenti, li incentivano, sono come un gigantesco cartello luminoso puntato su un punto nel terreno con la scritta “perforare qui”. Fin qua, allora, tutto bene.
Le magagne arrivano quando, dalla dimensione fattuale del problema, si passa alla sua interpretazione politica. Alla domanda: “Cosa possono fare i governi, in condizioni tanto critiche, per agevolare l’uscita dalla crisi?”, Nicolazzi risponde prima con un dribbling logico: avendo esordito con la giusta constatazione che, dal punto di vista degli investitori (che è l’unico punto di vista davvero rilevante, in queste cose) petrolio e meloni pari sono, prosegue dicendo che petrolio e Coca Cola sono cose diverse. Invece no: petrolio e Coca Cola sono la stessa cosa, sebbene non abbiano comuni caratteristiche di sostituibilità ed elasticità di domanda e offerta ai prezzi. Il punto essenziale, però, è che non c’è una differenza ontologica tra il liquido scuro e la bevanda con le bollicine: entrambi sono governati dalle medesime leggi, eterne e immutabili, della domanda e dell’offerta. Che dicono le stesse cose: se i prezzi scendono la domanda cresce, se i prezzi salgono la domanda cala. Ne abbiamo avuto, si diceva, una conferma dall’Agenzia di Parigi, con le previsioni sui consumi 2008.
Sulla base di tale fallace assunto, Nicolazzi prosegue immaginando un ruolo per i governi, che, almeno per quanto ci riguarda, non può che essere dal lato della domanda, ché il lato dell’offerta riguarda paesi diversi da quelli europei. Per Nicolazzi, il fatto che nell’Ue la tassazione sull’energia sia tradizionalmente molto alta ci ha preservati dagli scossoni che hanno sballottato l’America, mentre assisteva incredula alla benzina venduta all’astronomica cifra di 4 dollari al gallone (i quali, peraltro, restano molto meno del misero eurino che noi pagavamo tanto tempo fa per un litro). Naturalmente, avendo noi un prezzo dell’energia strutturalmente più alto e meno dipendente dal costo della materia prima (in quanto dominato dalla componente fiscale), le variazioni percentuali del prezzo all’oscillare di quello del barile sono meno sensibili. Quindi, i nostri costi di aggiustamento sono inferiori. Bon. Ma che dire dei lunghissimi anni in cui noi abbiamo pagato dolorosamente di più per ciò che altrove era assolutamente a buon mercato? E’ vero che il caro greggio sta facendo, negli Usa, morti e feriti, ma noi che crediamo di esserne quasi immuni è perché i morti e i feriti li abbiamo sepolti gradualmente lungo la strada, negli anni passati. E’ vero che negli Usa tanta gente oggi non si può permettere il pieno, ma è la stessa gente che da noi non se l’è mai potuto permettere. Ed è vero che negli Usa le vendite di Suv stanno calando mentre noi furbacchioni – tranne pochi fortunati – non l’abbiamo mai avuti, ma verrebbe da girare la questione: loro, almeno un po’, la libidine di guidare un bestione se la sono concesse.
Quindi Nicolazzi ha, paradossalmente, ragione e torto al tempo stesso. Ha ragione nella diagnosi, ma la sua terapia non convince. Per uscire dalla crisi energetica – ed è in ogni caso una strategia di lungo termine – non servono le tasse (magari tagliarle adesso, questo è vero, darebbe segnali strabici al mercato: avremmo dovuto ridurle prima). C’è bisogno di un mercato più reattivo, dal lato della domanda e dell’offerta. Che è un modo gentile per dire che serve più mercato e meno Stato, come sempre.