La spia occidentale alleata di Hamas, Hezbollah e degli Stati del Terrore

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La spia occidentale alleata di Hamas, Hezbollah e degli Stati del Terrore

13 Marzo 2010

Pur non essendo più un giovanotto di primo pelo (è nato nel 1950) Alastair Crooke ha un aspetto stranamente giovanile e quasi elfico: grandi orecchie che sporgono dalla testa, un naso puntuto e occhi tranquilli che si concentrano con attenzione sull’interlocutore. Così Daniel Samuels descrive sul magazine bimestrale Mother Jones l’ex agente dei servizi segreti britannici da lui intervistato nell’Hotel Albergo (sic) a Beirut. Un “posto perfetto per incontrare una spia”, defilato in una stradina tranquilla del facoltoso quartiere Ashrafieh, al riparo da sguardi indiscreti grazie a un “delizioso vecchio muro di pietra”. Di questi tempi – scrive Samuels – Crooke è “uno dei più interessanti e influenti” habitué dell’hotel. Nel corso della sua carriera nell’intelligence si è occupato di un po’ di tutto, dalle mediazioni con l’IRA al rifornimento di armi per i mujahidin in Afghanistan, ha “passato del tempo” con i gruppi di ribelli nella giungla colombiana e, in seguito, ha fatto “da occhio e orecchio” di Tony Blair in Medio Oriente.

Poi, nel 2003, dopo trent’anni di onorato servizio, è stato richiamato in patria e, nel classico stile della burocrazia britannica, insignito di un’alta onorificenza e rimosso dall’incarico. Sulla vicenda circolò la voce che fosse stato lo stesso premier britannico a volere il suo congedo. Il motivo? A un certo punto, Blair avrebbe cominciato a provare una certa inquietudine per l’eccessiva vicinanza di Crooke all’ambiente dei militanti islamici. A tal proposito, Samuels racconta come nel 2002 il Mossad israeliano fosse entrato in possesso della trascrizione di un incontro tra Crooke e quattro alti esponenti di Hamas, tra i quali lo sceicco paraplegico Ahmed Yassin, il leader del gruppo poi ucciso a Gaza dai razzi israeliani. Stando al documento, durante l’incontro Crooke aveva detto di ritenere che il principale problema della regione fosse l’occupazione israeliana. Un’affermazione che – nota Samuels – venne accolta con particolare favore da Yassin, il quale non mancò di sollecitare Crooke a dare ad Hamas il sostegno già dato ai “combattenti in Afghanistan”. La risposta di Crooke non si fece attendere: “Capisco perfettamente quel che dite”. Quanto al terrorismo e alla reazione americana ai fatti dell11 settembre, Crooke affermò: “Odio questa parola. La gente non tollera la vista di bambini uccisi, e ciò scatena una reazione emotiva”.

Non molto tempo dopo il congedo, Crooke è tornato alla ribalta come fondatore del Conflicts Forum, “un action- tank più che un think-tank” con base a Beirut che ospita conferenze ed eventi sotto lo slogan “Dare ascolto all’Islam politico, riconoscere la resistenza”. Il Conflicts Forum – precisa Samuels – ha accolto a bordo ex rivoluzionari provenienti dall’IRA e dall’African National Congress allo scopo di insegnare ai terroristi “come si fa politica”. Tuttavia, la funzione di fatto del think-tank sembra essere piuttosto quella di fornire ai diplomatici e ai funzionari d’intelligence occidentali “l’occasione d’incontrarsi in via non ufficiale con esponenti di Hamas ed Hezbollah”. Gruppi di “resistenza islamica” che – giova ricordarlo – sono inseriti sulla “lista nera” dei governi occidentali nonostante abbiano conquistato il potere politico in Palestina e in Libano. Il punto però – sottolinea Samuels citando una fonte d’intelligence – è che quegli incontri si sono sempre tenuti dopo i meeting ufficiali, in “ristoranti, stanze d’albergo e appartamenti privati”.

Il board del Conflicts Forum è alquanto variegato. Vi siedono, fra gli altri, personaggi come il politico nordirlandese Lord Alderdice, l’ex detenuto di Guantanamo Moazzam Begg e Milt Bearden, “il leggendario capo della Cia in Pakistan che negli anni Ottanta riforniva di armi i mujahidin”. Crooke afferma che il gruppo ha iniziato la propria attività grazie a donazioni private ed è ora finanziato in parte dalla Commissione europea, ma quale sia stata la sua vera genesi e quale l’effettiva entità del suo budget “resta un mistero”. Insomma, una fondazione, quella di Crooke, dai contorni e dalle attività piuttosto nebulose, persino per chi con lui ha a che fare da molto tempo. È il caso di Ibrahim Mousawi, media director di Hezbollah, al quale Samuels ha chiesto cosa facesse Crooke a Beirut. “Magari puoi dirmelo tu”, ha risposto.

E non sembra andar meglio quando si finisce a parlare delle elezioni iraniane e del sangue innocente che le ha bagnate. Per Crooke “non c’è assolutamente alcuna prova che le elezioni siano state truccate”. Anzi, quel che “paradossalmente” i media occidentali danno l’impressione d’ignorare è che in Iran “esiste un conflitto tra due fazioni, entrambe convinte di rappresentare gli autentici pricipi della rivoluzione islamica”. Ma ancor prima che le immagini e i racconti sfuggiti alle maglie della censura di Teheran indignassero il mondo, l’abbraccio di Crooke ai “freedom fighters” iraniani e ai chierici assetati di potere si era già conquistato un’abbondante fetta di critiche. Persino l’Economist, nel recensire il suo libro Resistence: The Essence of the Islamist Revolution, ha stigmatizzato l’“entusiasmo” dell’ex agente del MI6 per la filosofia di potere iraniana e ha espresso disgusto per il trattamento sin troppo “gentile” che Crooke ha riservato ad al-Manar, la televisione di Hezbollah. È incredibile – si legge sul settimanale britannico – che Mr. Crooke non faccia cenno a come questa emittente, “che accende odio e pregiudizio”, diffonda in continuazione propaganda antisemita, compresa una serie nella quale “ebrei ortodossi dal naso a uncino” uccidono bambini gentili al fine di “usarne il sangue per il pane della Pasqua ebraica”. Per tacere del giornalista britannico Stephen Grey, il quale, dopo aver partecipato a un evento organizzato dal Conflicts Forum a Beirut, si è scoperto a chiedersi quanto fosse corretto “scherzare con gli uomini di Hamas” davanti a una tavola imbandita tra gamberoni, avocado, pasta e pomodorini. E soprattutto come sarebbe stato possibile spiegare quell’atmosfera così rilassata, quasi intima, “alla madre di un bambino ammazzato da un attentatore suicida”.

Ancora nella galassia-Crooke, troviamo a gravitare anche Mark Perry, autore del libro Talking to Terrorists: Why America Must Engage With Its Enemies ed ex co-direttore del Conflict Forum. Come ricorda Lee Smith del think-tank conservatore Hudson Institute, basato a New York, Perry sostiene che sia soltanto al-Qaeda il gruppo terroristico con il quale non può esserci dialogo dal momento che non ha alcun interesse nel processo democratico. Gli altri, invece, non sarebbero che “movimenti di resistenza nazionale”. Nonostante qualche attrito con Crooke, Perry – nota ancora Smith – non sembra aver “perso l’entusiasmo per i violenti pupilli del regime iraniano come Hezbollah”.

Secondo Smith l’entusiasmo per la democrazia ha ben poco a che fare con con le ragioni che spingono giornalisti e policymaker a dialogare con i terroristi e con chi li sponsorizza. A confronto con le ingessate figure di “noiosi democratici” dai vestiti eleganti, i terroristi con l’occhio truce e la faccia cotta dal sole sono dei veri “duri” il cui “potere e sex appeal derivano dalla loro determinazione all’uso della violenza”. Da qui il fascino, o una parte di esso, che questi esercitano sui media occidentali. A ciò si aggiunga che alcuni reporter e analisti occidentali hanno secondo Smith un senso molto profondo di “partecipazione personale”. Un desiderio così forte di “comprendere l’altro” che ai loro occhi qualsiasi accenno al fatto che gruppi come Hezbollah possano davvero “essere spinti da una pericolosa ideologia politica che nulla ha a che vedere con norme laiche e democratiche” finisce per essere “letteralmente insostenibile”.