
La storia divisa e la difficile eredità del Risorgimento italiano

11 Ottobre 2009
In una importante raccolta di saggi, a cura di Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia, Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea (Ed. Il Mulino 2003) viene messo a fuoco, forse per la prima volta, in maniera critica e sistematica, il problema delle fratture culturali e ideologiche che hanno segnato il nostro paese (e continuano ancora a condizionarne il faticoso cammino verso l’Occidente). In particolare, il lucido saggio di Giovanni Belardelli, Una nazione ‘senza anima’: la critica democratica del Risorgimento, mostra la linea di continuità tra le delusioni suscitate dal compimento del processo unitario, nell’Italia umbertina, e la contestazione permanente, da parte delle correnti più avanzate della democrazia, dei regimi politici che avrebbero tradito le ‘grandi promesse’ di rinnovamento iscritte in moti popolari come il Risorgimento e la Resistenza.
“Attraverso la traduzione fattane da Carducci la critica dell’Italia unita contribuiva a formare un abito mentale duraturo e resistente, grazie anzitutto a una scuola che ebbe a lungo, appunto, un’impronta carducciana. Soprattutto, però, quella critica portava alle estreme conseguenze la tendenza mazziniana a risolvere la politica nella morale, a diventare nel suo nucleo centrale moralismo. La contrapposizione tra un’Italia reale, corrotta e da respingere in blocco, e l’”altra Italia”, composta da minoranze virtuose, che un giorno l’avrebbe sostituita faceva a meno della propria originaria qualificazione repubblicana. Contemporaneamente diventava cibo per gli intellettuali, che infatti nella storia italiana del Novecento avrebbero spesso identificato una loro peculiare identità di gruppo proprio nella delegittimazione dell’Italia esistente, e nell’idea che la vera politica dovesse avere per scopo la rigenerazione morale degli italiani. Fu, come noto, nell’ambito della cultura vociana e poi presso gli esponenti dell’antifascismo di matrice gobettiana, in un modo o nell’altro eredi di quella cultura, che questo tema originariamente mazziniano-carducciano dell’”altra Italia” ebbe soprattutto fortuna”.
Il rilievo è condivisibile ma va integrato e precisato introducendo distinzioni concettuali in mancanza delle quali il discorso potrebbe diventare la notte nera in cui tutte le vacche della protesta politica diventano nere. Lo stesso Belardelli giustamente, in un altro saggio, Democrazia e nazione. Studi su Mazzini (Ed. Morlacchi 2002), scrive che “l’originario discorso democratico-mazziniano” subì “significative trasformazioni tali da porre in ombra o da lasciar cadere alcuni elementi (la costituente, la repubblica, il richiamo a Dio), conservandone altri (la contrapposizione etica e irriducibile tra vera e falsa Italia, il ruolo dell’intellettuale-sacerdote come depositario dell’”anima” della nazione)”.
Il mio intervento intende richiamare l’attenzione sulle ‘significative trasformazioni’ della nobile retorica mazziniana riportandole a una dimensione politologica spesso rimasta in ombra. Per entrare subito in medias res, sostengo che va presa in seria considerazione la distinzione -da me richiamata altre volte- tra ‘comunità politica’ e ‘regime politico’: la prima si riferisce a un ‘destino’, quello che ci ha fatto nascere in un determinato territorio sottoposto a un governo e a una legge, che non ci siamo dati; il secondo si riferisce alla libertà e al consenso, ai diritti che intendiamo promuovere, al modello di convivenza che ci sembra preferibile ad altri. La comunità politica è ascrittiva, valorizza la tradizione ed enfatizza i “doveri” –verso chi ci ha dato i natali, la lingua, i codici morali, i costumi etc. Il regime politico, che rinvia alla vasta gamma delle forme di governo’, in democrazia, enfatizza i ‘diritti’ e il processo di liberazione da obblighi e vincoli che umiliano l’individuo e non gli consentono di “vivre sa vie”, seguendo le sue più profonde inclinazioni.
Una delle caratteristiche più preoccupanti della filosofia italiana contemporanea —ma anche di larga parte della storiografia— è la ‘rimozione’ del momento comunitario, realistico, della politica e il relativo primato conferito ai diritti. Sembra ormai che al centro della riflessione sia l’uomo disincarnato, titolare astratto di spettanze giuridiche che gli vanno riconosciute a prescindere da ogni appartenenza o luogo di nascita. (Non poco significativo, al riguardo, il dibattito sull’immigrazione in cui il progressismo neo-illuminista ha avuto modo di dispiegare tutto il suo dogmatismo filantropico). Non si è fatto molto conto della saggezza contenuta nel comunitarismo liberale di un Michael Walzer —un autore, peraltro, caro a Belardelli– che ancora nel recente Pensare politicamente. Saggi teorici (Ed. Laterza 2009), ha ribadito che “I diritti individuali possono tranquillamente derivare, come sono incline a ritenere, dalle nostre idee sulla personalità e sulla capacità di agire moralmente, senza fare riferimento a processi politici e circostanze sociali. Ma l’applicazione dei diritti è un’altra faccenda. Non è che si possa proclamare un elenco di diritti e poi andare a cercare uomini armati per farli rispettare. I diritti sono applicabili all’interno di comunità politiche dove sono stati riconosciuti collettivamente e il processo attraverso cui arrivano a essere riconosciuti è un processo politico che richiede uno spazio politico”.
Né si è meditato, come invece sarebbe stato necessario, sul contributo più “forte” dato a questa problematica, che quasi potrebbe chiamarsi ‘neomachiavelliana’, dalla scuola francese di Raymond Aron e François Furet. E’ stato in particolare Pierre Manent, nel magistrale saggio In difesa della nazione (Ed. Rubbettino 2007) e anni prima in un articolo su "Commentaire" ripreso ora dalla rivista di Giorgio Fedel, "Quaderni di scienza politica" (agosto 2009), La democrazia senza la nazione?, a definire, con implacabile chiarezza analitica e lucidità di pensiero, i termini della dialettica comunità/regime. “La democrazia moderna che sulla libertà si fonda, vi si legge, vuole bastare a se stessa. Ma essa non può fare a meno di un corpo. E come potrebbe darsi un corpo nuovo, un corpo che non sia l’erede necessariamente contingente e arbitrario dell’età predemocratica, un corpo di cui la democrazia sia l’autore esclusivo?” L’uomo europeo ha “fatto un uso tirannico del principio stesso della libertà; ha voluto fare solo ciò che voleva, ha rigettato come arbitrario e antiquato lo strumento politico che gli permetteva, fissandogli dei limiti, di esercitare la sua sovranità, cioè la sua volontà; senza strumento, senza quadro di formazione e d’azione, la sua volontà si troverà solitaria e politicamente impotente. Con il diritto meticolosamente garantito di voler tutto, non potrà come cittadino quasi più niente”. Sennonché, conclude Manent, "un corpo politico combina sempre, in proporzioni variabili, la forza e la giustizia. Ciò vuol dire che, dal momento in cui c’è un corpo politico, la giustizia non vi è mai assolutamente senza forza. Ma se usciamo completamente dall’esistenza politica, preoccupiamoci che, a dispetto di tutti gli artifici della civiltà perfezionata, la giustizia e la forza non si trovino completamente separate —con la giustizia perfettamente pura, cioè impotente, e la forza soltanto forte, cioè ingiusta”.
Va rilevato, incidentalmente, che mentre il dramma del fascismo —per chi non voglia considerarlo, trogloditicamente, come mera, violenta, reazione di classe— sta proprio nella cancellazione dei diritti e della libertà (della dimensione ‘regime politico’ nel senso detto) in nome della comunità, sicché svolto alle sue estreme conseguenze rimane “la forza soltanto forte, cioè ingiusta”, il dramma dell’Europa in costruzione sta, all’opposto, nella cancellazione della comunità, nel rifiuto, di “definirsi politicamente, di “considerare come importante per se stessa la questione del territorio”.
Tornando, dopo ampio giro, al nostro tema e alle tesi di Belardelli, c’è una differenza fondamentale, incolmabile, tra l’”alienazione” rispetto al sistema politico instaurato dopo l’Unità iscritta nell’impegno etico-politico delle generazioni (peraltro diverse) dei Mazzini, dei Garibaldi, dei Carducci e la protesta endemica delle famiglie ideologiche che dal non conformismo del primo Novecento (la ‘Voce’, ’Rivoluzione liberale’ etc.), attraverso l’interventismo democratico, approdarono all’azionismo e alla mistica antifascista e resistenziale, per molti aspetti matrice del sessantotto e dell’odierna cultura antagonista. La differenza sta, per così dire, nel diverso referente di legittimità delle due "scuole di pensiero", accomunate dalla cocente delusione provata dinanzi allo spettacolo dell’”Italia qual è”. Per i critici dello Stato sabaudo e della ‘conquista regia’ è stata tradita la ‘comunità’, per i nemici del fascismo e delle sue propaggini clerico-democristiane è stato tradito un progetto di rinnovamento che, coniugando la libertà con la giustizia sociale, indicava al mondo una ‘terza via’ , indipendentemente dai contenitori territoriali e nazionali che avrebbero dovuto ospitare le forme di governo proposte come esemplari.
Ne deriva che se qualificare gli azionisti e i loro eredi come “anti-italiani” ha un senso —e del resto essi stessi nutrivano l’orgoglio dell’essere in pochi: l’’Italia di minoranza’, l’’Italia civile’ (contrapposta ovviamente a quella incivile e qualunquistica), l’’Italia della ragione’ etc.— quella qualifica non ha senso per i Mazzini, i Garibaldi, i Carducci. Con le loro luci e le loro ombre, infatti, i primi —ai quali andrebbe aggiunto Giuseppe Verdi, il più popolare ‘educatore delle masse’ nell’Italia ottocentesca– furono i grandi “costruttori della nazione”, i produttori di un’identità collettiva senza la quale il dibattito sui diritti e sulle libertà si svolge nel vuoto (diritti e libertà, infatti, sono sempre “diritti e libertà di un popolo determinato”). La gratitudine che ad essi dobbiamo —e nel centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana non va nascosto— trova dei limiti nella loro delegittimazione del sistema politico in conseguenza degli investimenti troppo ambiziosi fatti sulla comunità politica. Per gli autori citati, il peccato d’origine dello Stato unitario era nella totale incapacità dei governanti di assolvere alla loro missione storica. Quale contrasto, rilevava Mazzini ne L’iniziativa (1870), con i nostri antenati.” La magnifica parola religiosa dell’evangelista Giovanni: Perché tutti siamo uno in noi come tu, Padre, sei in me e lo sono in te, s’era fatta realtà nella patria romana. Ogni uomo credeva nei fati di Roma: sentiva dentro sé una scintilla della grande anima di Roma; Roma s’era incarnata in ciascuno de’ suoi figli, e ciascuno si sentiva forte della sua forza e mallevadore dei suo avvenire. Per questo Roma diede spettacolo unico ai secoli d’una città conquistatrice del mondo. Ed è questa fede, questa facoltà d’immedesimarsi nella patria come in un pensiero vivente destinato a svolgersi nell’indefinito dei tempi; questa potenza d’amore che abbracci in uno passato, presente e futuro d’Italia; questa coscienza d’esser ministri a una tradizione di grandezza iniziata da Dio e che deve, attraverso ogni ostacolo, continuare nella vittoria—questa fede un raggio della quale fu dato, sullo spirare dell’ultimo secolo, alla Francia repubblicana e bastò a farla più forte di tutta l’Europa congiunta a’ suoi danni—che manca tuttavia agli Italiani”.
“I pigmei volevano edificare sulle rovine dei giganti” era la formula adoperata dal suo amico/avversario Giuseppe Garibaldi. Il vecchio generale, nei quattro romanzi —‘Cantoni il volontario’, ’Manlio’, ’Clelia’, ‘I Mille’— che traducevano fedelmente le sue idee politiche, gettava ripetutamente fango sulla ‘Destra storica’, dichiarava che nel meridione si stava meglio quando si stava peggio, che con una buona dittatura a tempo si dovevano ripulire le stalle italiche dagli uomini di malaffare e , innanzitutto, dai preti. E alla miseria del presente contrapponeva le glorie del passato.” Considerando però che non ripugnano i nostri odierni vicini a trattarci come gente da nulla, che non si batte, terra di morti, espressione geografica, gente da portar avanti col calcio del fucile, etc, etc., in legittima difesa ci permetteranno di ricordare che su questa terra nacquero gli uomini chiamati Manlio, Scipione, Marcello, Mario, Silla, Cesare, Napoleone, etc., etc., e di accennare al grandissimo catalogo degli uomini sommi della scienza, che cominciano da Archimede a Volta, della poesia ed arti, da Dante e Michelangelo a Raffaello, a Canova, etc., etc. Servano questi gloriosi ricordi ad innalzare la fronte dei depressi e malmenati nostri concittadini e di vituperio ai miserabili governanti, che potrebbero fare un eden di questa terra privilegiata ed invece mantengono nella miseria e nell’abiezione. Serva pure agl’Italiani, che per esser degni di questa gran patria, essi devono esser colti, emancipati dal morbo prete, e forti, belli, valorosi, d’anima di corpo”. Ed è forse superfluo ricordare il primo Carducci, e non solo quello de ‘La Consulta araldica’ citato da Belardelli: “Oh non per questo dal fatal di Quarto/Lido il naviglio di mille salpò/, né Rosolino Pilo aveva sparto/ suo gentil sangue che vantava Angiò”.
Gli ‘intellettuali’ più visibili —che non sono i giuristi, almeno fino a qualche decennio fa, gli scienziati, gli economisti ma gli artisti, i poeti, i letterati, i filosofi, nella misura in cui prendono la parola e intervengono sui grandi quotidiani, i pensatori politici, i capipopolo— vanno allora esecrati per aver impedito agli Italiani di affezionarsi alle loro istituzioni, tutto sommato liberali, nonostante certe ambiguità dello Statuto albertino e le prassi parlamentari, analizzate e criticate da Giuseppe Maranini nella sua fondamentale, Storia del potere in Italia. 1848-1967 (Ed. Vallecchi 1968)? Sarebbe ingiusto e antistorico e, inoltre, rispecchierebbe solo una parte della verità.