La storia parla chiaro: Carrillo era un europeo, ma pur sempre comunista
21 Settembre 2012
Chi è stato Santiago Carrillo, avventuroso uomo politico spagnolo, morto quasi centenario il 18 settembre a Madrid? Vediamo cosa dicono i moderni strumenti della comunicazione. Apriamo il computer, e colleghiamoci con Google. Troviamo un articolo del «Corriere della Sera» e uno di «la Repubblica». Dunque i più diffusi quotidiani italiani. Da «la Repubblica» apprendiamo che Carrillo è stato segretario del partito comunista spagnolo dal 1960 al 1982. Poi una biografia striminzita.
Nel dopoguerra, leggiamo, adottò una «politica moderata e riformista, che gli fece seguire il segretario del partito comunista italiano Enrico Berlinguer e quello del partito comunista francese Georges Marchais nell’adesione a quello che venne chiamato “eurocomunismo”», adesione che «gli costò l’espulsione dal Pce nel 1985». Passiamo al «Corriere». C’è poco di più. La biografia è riassunta in tre foto esemplari della sua vita. La prima è dei tempi della repubblica spagnola, in veste di agitatore. La seconda è successiva alla vittoria di Franco, in veste di esiliato. La terza è della storia della Spagna democratica, del febbraio 1981, quando il colonnello Antonio Tejero Molina tentò un “golpe”, entrando armi alla mano nel parlamento spagnolo. Tre deputati non si lasciarono intimidire, non si nascosero sotto i banchi: uno di loro era Santiago Carrillo.
Un altro era Adolfo Suárez González, un franchista convertitosi alla democrazia. Quindi comunisti ed ex franchisti affrontarono a testa alta l’ultima minaccia franchista (ammesso che Tejero fosse un franchista, cosa mai dimostrata) alla nascente e ancora debole democrazia spagnola. Povera di informazione è anche la voce italiana di Wikipedia. Più ricco di spunti è un lungo resoconto di «The Guardian» (ma bisogna conoscere l’inglese). E, soprattutto, la voce spagnola di Wikipedia (ma bisogna conoscere lo spagnolo). Da lì apprendiamo che sulla figura di Santiago Carrillo pesano le ombre della guerra civile, combattuta dalla parte dei repubblicani, in stretto collegamento con i sovietici agli ordini di Stalin. Su Carrillo pesano varie responsabilità, tra cui – la più grave e gravida di sangue – della fucilazione di massa, senza troppi riguardi e senza processi o prove concrete, di migliaia di prigionieri, falangisti, simpatizzanti di Franco, religiosi, borghesi.
Santiago Carrillo nella difesa di Madrid aveva un ruolo di primo piano. Quando fu chiaro che Franco stava per entrare nella città, la “pulizia ideologica” divenne spietata. È impossibile, sul piano storico, negare le sue responsabilità nella mattanza. Naturalmente i tempi erano drammatici, e le “guerre civili” assumono fisionomie più drammatiche di qualsiasi altro conflitto. Ma nella notte oscura in cui è caduto il comunismo (con i sui immensi crimini) nella memoria delle occidentali, perché stare a perdere tempo nel ricordare un dettaglio insignificante, che magari interessa soltanto gli spagnoli (e magari anche gli spagnoli non hanno nessuna voglia di ricordarlo)? Sorvoliamo allora sui crimini, che restano e resteranno. Soffermiamoci su un altro aspetto della biografia di Carrillo, non macchiato dal sangue: l’eurocomunismo. Il «Corriere» parla della scelta di Carrillo di aderire ad un progetto «europeista del comunismo occidentale guidato dall’amico italiano Enrico Berlinguer».
Ricordiamo cosa è stato l’eurocomunismo. Il 3 marzo 1977 a Madrid si ritrovano Enrico Berlinguer e Georges Marchais, ospiti di Santiago Carrillo. Sono i rispettivi leaders dei partiti comunisti italiano, francese e spagnolo, i più forti e autorevoli dell’Europa occidentale. L’incontro di Madrid serve per lanciare una nuova formula politica: l’eurocomunismo. Berlinguer è sicuro che il Pci sia giunto alle soglie del potere. Nel 1976 alle lezioni politiche ha riportato una confortante vittoria. La Dc raggiunge il 38,9%, il Pci il 33,8%. Indro Montanelli ha invitato gli italiani, nella cabina elettorale, al fine di evitare il sorpasso, di turarsi il naso e votare Dc, con la sola accortezza di usare con intelligenza le preferenze. E gli italiani l’hanno ascoltato. Aldo Moro, l’interlocutore democristiano privilegiato da Berlinguer, sta lavorando alla strategia di coinvolgimento nelle responsabilità governative dei comunisti. In cambio di un appoggio esterno al nuovo governo, il terzo, di Giulio Andreotti, il Pci ottiene la presidenza della Camera per Pietro Ingrao. È solo il primo atto per passare dal governo delle “astensioni” ad un vero e proprio governo di “solidarietà nazionale”. Berlinguer deve però trovare una veste nuova al Pci.
La fiducia internazionale è scarsissima, e gli americani (e i sovietici) non guardano favorevolmente il “compromesso storico”. Il settimanale «Time» ha messo in copertina Berlinguer con questo titolo: «minaccia rossa». Il segretario comunista pochi giorni dopo rilascia un’intervista esplosiva a Giampaolo Pansa, sul «Corriere della Sera», dichiarando di sentirsi tranquillo e protetto dall’ombrello della Nato. Ma non basta. Ci vuole qualcosa di più appetibile. E Berlinguer trova la formula magica dell’eurocomunismo. Lo schema di fondo ideologico è la riforma del comunismo, che deve rianimarsi all’interno dell’Europa. Berlinguer da un po’ di tempo era alla ricerca di uno schema nuovo per collocare il Pci nell’area governativa italiana. A lui sembrava che la storia stesse andando ineluttabilmente verso quella direzione. Incontrando Leonid Brežnev nel 1973 aveva parlato di un’Europa né anti-sovietica né anti-americana. Ma il segretario sovietico gli aveva ricordato che i blocchi esistevano e andavano mantenuti. Sempre nel 1973 Berlinguer aveva scritto i tre famosi articoli su «Rinascita», dedicati alla “questione comunista”, dettati dall’emozione suscitata dal colpo di stato cileno del generale Pinochet. Andare al governo senza le forze moderate si era rivelato un errore storico. Quindi Berlinguer, impegnandosi nella costruzione della casa eurocomunista, aveva ormai assimilato alcune precise convinzioni. La crisi storica del Pci era cominciata nel 1968. I carri armati a Praga e, soprattutto, l’apparire di una nuova generazione, avevano minato la fiducia nel comunismo internazionale e quella nel comunismo italiano. Il Pci stava provando ad arginare, non riuscendoci, il fiume in piena rappresentato dalle nuove generazioni. Di quei giovani non capiva le richieste e la loro insofferenza si era trasformata in ribellione aperta. Nel marzo del 1977 la situazione italiana stava diventando esplosiva. A febbraio c’è stata la violenta contestazione all’Università di Roma del segretario della Cgil Luciano Lama.
Ai primi di marzo la città di Bologna, storica roccaforte comunista, retta dal sindaco Renato Zangheri, verrà messa a ferro e fuoco. Il rischio era alto: si stava essiccando il bacino di consensi giovanili, minando pericolosamente il futuro elettorale del partito. Berlinguer era cosciente che lo strettissimo legame del Pci con Mosca, voluto da Togliatti e dalla classe dirigente stalinista, non reggeva più. Occorreva pertanto fare qualcosa. L’eurocomunismo sembrò la medicina adatta. Ma Berlinguer fallì. Partendo da premesse giuste, attuò una strategia sbagliata. Era intenzionato a riformare il comunismo, e l’esempio italiano avrebbe dovuto servire da modello per tutti i partiti dell’Europa occidentale. Non riuscì nell’impresa poiché, pur avvertendo il declino del comunismo, la spinta trasformatrice non doveva confluire, come sarebbe stato logico, nella tradizione socialdemocratica, ma in quella comunista. Sulla lungimiranza eurocomunista di Enrico Berlinguer verrà costruita una vera e propria “mitologia berlingueriana”, dovuta soprattutto alla pubblicistica di alcuni suoi “ragazzi”: Massimo D’Alema, Waler Veltroni, Pietro Folena, Gavino Angius e Achille Occhetto. Ma nessuno sarà capace di fare davvero i conti con l’eurocomunismo, cioè con l’impossibilità di riformare il comunismo. Lo storico del Pci Giuseppe Vacca, arrampicandosi sugli specchi, ha sostenuto la tesi dell’eurocomunismo quale nuovo modello di socialismo. In realtà Berlinguer pensò sempre ad un nuovo modello di comunismo. Il leader del Pci, pur attenuando lo spirito polemico, rimase anticapitalista, antiamericano e incapace di evolversi verso le socialdemocrazie europee e diffidente ad ogni forma di liberalismo. Naturalmente Mosca rese manifesta la propria ostilità all’eurocomunismo.
Se la prese soprattutto con Santiago Carrillo (un irriconoscente che aveva trascorso un largo tratto dell’esilio a Mosca); ma i rimproveri allo spagnolo andavano letti come una critica aperta alla politica di Berlinguer. Per il Pci l’eurocomunismo fu un treno perso e l’inizio della fine. Potevano arrivare alla Bolognina trent’anni prima. Ma non ne furono culturalmente e politicamente capaci. Nello stesso 1977, a dicembre, alla Biennale di Venezia venne organizzata una coraggiosa mostra sul dissenso nei regimi dell’Est. Si parlava di arte, letteratura, cinema e naturalmente di libertà di espressione. Berlinguer non gradì quell’iniziativa, e si adoperò molto per ostacolarla. Innanzitutto perché messa in piedi da un ex-comunista, divenuto socialista, Carlo Ripa di Meana. Ma in realtà perché una tematica del genere usciva fuori dalla sua mentalità. La mentalità di un eurocomunista. Europeo: ma pur sempre comunista. E lo stesso si può dire dell’avventurosa e lunga esistenza di Santiago Carrillo: un europeo, ma pur sempre comunista. E dimenticarlo, per Berlinguer come per Carillo, significa travisare il senso della storia. Scambiare la storia del comunismo con quella del socialismo ormai non ha più senso.