La storia può aiutarci a capire perchè gli Usa combattono ‘le guerre giuste’
10 Marzo 2012
Ancora guerra, ancora Iraq e Afghanistan, ma adesso dalla prospettiva della storia, del passato, cioè del Vietnam, per cercare di capire se da quella tragedia possiamo trarre qualche insegnamento. Chi in un dibattito pubblico si schiera a favore, come ho fatto spesso anche su queste colonne, di una guerra, degli interventi in militari all’indomani dell’11 Settembre, ha il dovere morale e politico di rendere conto delle sue posizioni, di non sottrarsi nemmeno per un momento al confronto. Vero è che questo dovrebbe essere l’atteggiamento da tenere sempre nella sfera pubblica, ma l’argomento “guerra” per la sua terribile specificità richiede un obbligo civile ulteriore.
E quindi si ritorna sulla guerra Iraq e in Afghanistan riportando un dibattito forte e polemico che si sta tenendo negli Stati Uniti e che vede impegnati strateghi, storici, giornalisti, militari e civili. L’occasione nasce da un libro sul generale Westmoreland, scritto da Lewis Sorley ex-veterano del Vietnam, accademico, autore di numerosi saggi dedicati alla storia militare. Libro dal sottotitolo significativo “Westmoreland. The General Who Lost Vietnam”, “ il generale che perse la guerra.
La tesi è lineare; lo storico sostiene che l’ufficiale americano, a capo delle truppe in Vietnam dal 1964 al 1968, non capì quella guerra, incomprensione che lo portò ad applicare una strategia d’attrito completamente sbagliata contro le forze vietnamite impiegando grandi unità come se quella fosse una riedizione del secondo conflitto, strategia basata sulla famigerata dottrina di “search and destroy”, per scovare il nemico ed eliminarlo ad ogni costo, sia che fosse un soldato del nord, che un guerrigliero vietcong o un civile ostile (per capire di cosa si trattasse, bastano le immagini dell’arrivo degli elicotteri in Apocalypse Now).
Invece, prosegue il nostro, quella guerra era un classico conflitto “tra la gente”, dove il centro di gravità, lo scopo del contendere, era la popolazione, la conquista delle “hearts and mind” e non la distruzione delle forze del nemico. Per questo Westmoreland fu sostituito con il generale Creigthon Abrams che lanciò un nuovo programma di pacificazione che funzionò talmente bene che gli Stati Uniti nel 1971 potevano ritenere la guerra come vinta. Ma la vittoria militare non si trasformò in vittoria politica a causa dell’insipienza della politica, perché dopo il ritiro delle forze USA nel 1972, il governo americano non sostenne sufficientemente in mezzi e finanziamenti il governo del Sud Vietnam.
E’ una tesi suggestiva, polemica, che ha il pregio di essere netta unendo due punti di vista diversi: il primo, all’inizio del conflitto l’esercito statunitense, come sempre, non capì che in Vietnam si stava combattendo una guerra rivoluzionaria, una guerra di popolo secondo gli insegnamenti di Mao e dei suoi eredi Ho chi Min e Giap; in secondo luogo, i militari, una volta aggiustato il tiro, avrebbero vinto ma la vittoria fu loro scippata dalla politica, a mancare all’appuntamento furono il Congresso, il Governo e la società americana.
Ma Gian P. Gentile – colonnello, ufficiale in Iraq, storico, docente ad una delle tante accademie USA – non ci sta e in un articolo su The National Interest del 28 febbraio, ribatte punto per punto, mostrando l’errore di valutazione di Sorley a proposito di Westmoreland, criticando la tesi che la guerra del Vietnam potesse essere vinta, e dicendo qualcosa di più per il presente che suona estremamente attuale.
La posiziene di Sorley – sostiene Gentile -potrebbe essere chiamata “la tesi della guerra migliore”, secondo cui una “better war” avrebbe condotto l’America alla vittoria solo se al comando delle truppe ci fosse stato il generale giusto con la dottrina giusta. Innanzitutto non è vero – ribatte il colonnello – che Westmoreland contrapponesse la guerra di contro insorgenza alla guerra tradizionale; egli era ben conscio del tipo di conflitto che si stesse combattendo in Vietnam e ben a conoscenza delle dottrine asimmetriche.
Come ha mostrato ampiamente lo storico militare Andrew Birtle in un bellissimo e documentato articolo sul Journal of Military History del 2008 – basandosi sui documenti del Pentagono, conosciuti con l’acronimo PROVN – lo scopo delle azioni del generale erano basate sull’alternanza degli strumenti e la tattica di search and destroy era impiegata per ridurre la pressione dell’esercito regolare nord vietnamita in modo da permettere la realizzazione della pacificazione. (Ann Marlowe, una giornalista e analista americana autrice di un importante articolo sulla biografia intellettuale di Galula, uno dei padri nobili delle moderne dottrine coin, riporta ad esempio il fatto che fu Westmoreland a spingere affinchè il francese riuscisse ad ottenere il posto di ricercatore presso il Centro per gli Affari Internazionali di Harvard).
A fallire in Vietnam non fu un generale ma la politica, a mancare non fu la tattica ma la strategia: con le parole di Sun Tzu “strategia senza tattica è la lenta strada alla vittoria. Tattica senza strategia è il rumore prima della sconfitta”. Il fatto è che mentre per i guerriglieri, gli insorti, ribelli, insomma per i combattenti dell’altra parte, per i locali, la guerra in Vietnam era combattuta per la difesa di se stessi, mentre non è vero l’inverso: se da una parte è una guerra totale, per l’America era una guerra limitata.
E’ quindi ovvio che dopo dieci anni venisse meno il consenso della società e scemasse la volontà politica; quello che nella guerra nel Vietnam all’inizio non entrò nel calcolo fu la coriacità dell’avversario, l’inesistenza di un’alternativa politica valida a Saigon dato che il governo sudvietnamita risultava corrotto, assente, per giunta formato da una minoranza e lo stesso esercito completamente incapace di scontrarsi con le truppe del Nord.
Ed ecco la lezione per il presente. Questa, continua Gentile, è la stessa logica che adesso, riguardo alla guerre in corso, appartiene alla nostra leadership militare e civile e che ha portato a mettere sugli altari Petreus assieme a tutta la tribù della dottrina di contro insorgenza, i vari Nagl, Kilcullen eccetera. In questo tipo di guerre non è sufficiente però né cambiare tattica, né comandante; queste sono guerre perse, perché a mancare è la politica, la visione strategica, il fine della guerra. Perché sono guerre che richiedono tempo, risorse di uomini e soldi, tanti e il regime change non si risolve nello spazio di una notte, richiede decenni, ed una volontà e dedizione impossibili perché totali.
Il fatto molto semplice, e ormai evidente, è che, in questo tipo di guerre asimmetriche, gli Stati Uniti si trovano stretti in una contraddizione micidiale perché non possono affrontare questi conflitti né con una logica da guerra totale, né con gli strumenti della guerra neocoloniale; né possono permettersi di utilizzare metodi bellici che sarebbero leciti nelle guerre totali, come la rappresaglia ed i bombardamenti che non si curano della sorte dei civili, non a caso definiti “danni collaterali”, né possono sostenere un impegno imperiale che li costringa a rimanere sul terreno per decenni, utilizzando tattiche di contro insorgenza – mix di azioni civili e militari – che hanno al centro la conquista delle menti e dei cuori.
Infine una bordata polemica contro i sostenitori della nuova dottrina del generale Petraeus in Iraq. Il successo della surge della lotta contro Al Qaida nel 2007 in Iraq non fu dovuto alla nuova dottrina coin impiegata dai soldati americani, ma dalla fine degli attacchi di Motqada Asdr, cioè delle milizie scite, ai sunniti che così poterono indirizzare le loro forze sui militanti alqaidisti; infatti, come dimostra il database dell’ Iraq Body Count Project, il numero delle vittime che aveva raggiunto l’apice nel dicembre del 2006, era già cominciato a scendere due mesi prima l’arrivo del generale.
Fatti certi, difficili da contestare, ma ben più impossibile è negare l’evidenza dell’attuale situazione, come dimostrano le analisi, tra gli altri, di Anthony H. Cordesman, si veda ad esempio il report del 27 febbraio “Afghanistan: la morte di una strategia”.