La storia tra passato e presente di un politologo controcorrente
04 Maggio 2012
Ripubblichiamo, grazie alla gentile concessione dell’editore, l’intervista che Raimondo Cubeddu fece e apparsa nel volume curato da Luciano Pellicani, La storia fra passato e presente (studi in onore di Domenico Settembrini), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001.
Raimondo Cubeddu: “Ho conosciuto il professor Settembrini nel 1971, quando mi sono trasferito a Pisa per iniziare gli studi universitari. Egli era già uno studioso di chiara fama, conosciuto anche da un giovane liceale. Nel 1974 sostenni con lui l’esame di Storia del movimento operaio e sindacale e in quella circostanza mi resi conto di quello che – ma glielo dissi molti anni dopo – era il suo difetto come docente: faceva le domande e poi rispondeva lasciando, allora pensavo ‘per fortuna’, poco spazio all’esaminando. Successivamente siamo diventati colleghi nella stessa Facoltà e nello stesso Dipartimento. Inizierei l’intervista chiedendoti quando, dove sei nato, e perché sei venuto a studiare a Pisa”.
Domenico Settembrini: “Sono nato nel 1929 a Cupramontana in provincia di Ancona, e mi sono trasferito a Pisa dopo aver terminato gli studi liceali a Pesaro, città della mia famiglia di origine, per concorrere alla Scuola Normale. L’ingresso alla Normale, nel 1947, l’anno in cui vinsi il concorso, fu un’esperienza molto importante, anche perché provenivo da una famiglia antifascista, ma liberale, e mi trovai inserito in un ambiente largamente dominato dal comunismo. Questo mi creò qualche problema”.
R.C.: “Da chi era composta la commissione al concorso d’ammissione?”
D.S.: “Un momento. Non posso lasciare senza risposta la tua critica al mio modo di fare esami. Certo, devo ammettere di avere ecceduto nel ricorso – se posso dire così – al metodo socratico, specie negli anni cui fai riferimento. Tuttavia, va ricordato che sui temi del marxismo, della rivoluzione e simili, la mia voce era allora l’unica controcorrente nell’intero Ateneo pisano, e forse non era male – almeno così pensavo – che essa si facesse intendere anche oltre le ore di lezione, nella affollate aule degli esami; tanto più che, dato il carattere complementare dell’insegnamento di storia del movimento operaio e sindacale, altissimo era il rapporto tra studenti che si presentavano soltanto o quasi a sostenere gli esami, e quindi ad assistere a quelli dei colleghi, per cercare di supplire così alle lezioni che non avevano ascoltato – e tra i questi ve ne erano anche moltissimi di altre facoltà – e studenti che avevano frequentato con continuità. Va bene, sull’altro piatto della bilancia va messo il pericolo di errori di valutazione, anzi di sopravvalutazione dei candidati. Anche da questo punto di vista, ritengo, tuttavia, che ci sia molto da dire in favore del metodo maieutico – magari, ripeto, esercitato in misura più contenuta – per pervenire ad una valutazione dei canditati, più ‘civile’, ‘più cordiale e tutto sommato anche più affidabile’. Comunque, anche negli anni del mio uso più ‘esagerato’ di questo metodo, non credo di essere caduto più di altri in grossolani errori di sopravvalutazione. Certamente, non nel tuo caso”.
R.C.: “Torniamo alla domanda: da chi era composta la commissione al concorso d’ammissione?”
D.S.: “C’erano nomi famosi: Giorgio Pasquali per il greco, Delio Cantimori per la storia, Luigi Russo per l’italiano. Mi pare ci fosse anche Cesare Luporini per la filosofia, ma non ne sono sicuro. Ricordo le due prove con Pasquali e con Cantimori. Con Pasquali andai molto bene, perché per prepararmi al concorso di Normale mi ero affidato a un professore assai esperto che, battendo e ribattendo, era arrivato a farmi leggere e comprendere il Fedone nella lingua originale. Pasquali rimase molto soddisfatto. Era un professore che curava molto gli studenti e che, se individuava un giovane di valore, cercava di aiutarlo in tutti i modi, anche per attirarlo sotto le sue ali – ma io, devo dire, pensavo già di dedicarmi alla storia, con una certa inclinazione già allora per la storia delle idee politico-sociali moderne e contemporanee. Mi ricordo che, quando mi trovai ad essere interrogato da Cantimori, dopo essere già passato per le mani di Pasquali questi, vedendo che a un certo punto facevo scena muta, non poté trattenersi dal chiedere cosa fosse accaduto a ‘quel bravo giovane’. ‘Si è tacitato su Ciro Menotti’, fu la lapidaria risposta di Cantimori. Il concorso, comunque, andò bene. Se non vado errato, arrivai terzo dopo Pietro Citati. Tra i vincitori c’era anche Graziano Arrighetti, il grecista, che era per carattere, formazione, origini familiari, orientamento politico e campo di studi, molto diverso da me, se non addirittura agli antipodi – ricordo, ad esempio, che era monarchico e non ne faceva mistero – ma con il quale, forse proprio per questo, già da subito andai stringendo un’amicizia davvero fraterna, che avrebbe successivamente coinvolto anche le nostre mogli”.
R.C.: “Era lo stesso anno in cui entrarono in Normale Giuseppe Are e Claudio Cesa?”
D.S.: “No, Are sarebbe entrato due anni dopo, e Cesa era entrato l’anno prima. I compagni di studi con i quali in quegli anni ebbi un maggiore e più intenso scambio culturale furono Pietro Citati e Felice Antonio Del Vecchio. Quest’ultimo era l’allievo prediletto di Cantimori. Era il più intelligente di tutti noi, di un’intelligenza che non ero il solo a pensare che rasentasse la genialità. Del Vecchio aveva anche un sorriso accattivante; tanto che aveva affascinato Cantimori. Per quanto riguarda Citati, va detto che egli era di gran lunga il più colto ed il solo di noi tre, e non solo di noi tre, che già avesse un’idea molto precisa di quello che avrebbe fatto da grande. Io finivo con l’essere la terza ruota del carro. Lo capivo già da me, ma se non me ne fossi reso conto, ci avrebbe pensato Citati, che una volta ebbe il toupet di dirmelo apertis verbis, anche se – magnanimo – volle attribuire una palma pure a me: quella della serietà dell’impegno civile o ‘etico-politico’, come mi pare si esprimesse, con evidente riferimento al mio conclamato crocianesimo di allora. L’episodio la dice lunga sull’atmosfera da ‘prime donne’, spesso irrespirabile, che regnava in Normale. Un’atmosfera cui non ero preparato e che mi provocava un profondo disagio, al quale tuttavia considero sia stato saggio aver saputo resistere, senza cedere alla tentazione di chiudermi in me stesso, perché mi rendevo confusamente conto di quanto sprovincializzante fosse per me la frequentazione di quegli amici, per scomodi che potessero essere. Per fortuna mi riuscì anche in quell’ambiente di stringere qualcuna di quelle amicizie ‘esistenziali’, più vere, più calde e riposanti, senza le quali vivere sarebbe davvero troppo faticoso”.
R.C.: “Come fu il passaggio dalla provincia alla Normale?”
D.S.: “Fu complesso perché, naturalmente, io avvertii, da un lato, un senso di superiorità nei confronti dell’ambiente comunista, per il tipo di educazione che avevo ricevuto in famiglia. Dall’altro, mi sentivo pur sempre un provinciale: quell’ambiente – con tanti di quei professori dalla fama quasi di semidei, con tanti di quei giovani con esperienze, letture e formazione che, a volte per il solo fatto di essere tanto diverse dalle mie, mi sembravano migliori, di più ampio respiro, anche quando magari non lo erano – mi creava un forte complesso di inferiorità. Io cercai lo scontro – incontro, però mi trovai ad avere a che fare con un uomo dagli infiniti complessi qual era il Cantimori, uno studioso di cui non si può discutere la bravura, ma che aveva un’idea del tutto distorta della funzione dell’educatore. Ricordo che in occasione del seminario del primo anno egli sembrò offrirmi un terreno che non avrei potuto desiderare migliore per mettere a confronto il mio liberalismo e il suo comunismo. Disse infatti che avrebbe fatto scegliere a noi, ‘democraticamente’, l’argomento del seminario fra due da lui proposti. Uno riguardava un eretico del ’500, una figura nota soltanto agli ultraspecialisti; l’altro verteva invece sulla fortuna della Storia d’Italia dal 1870 al 1915 di Benedetto Croce. Io, che naturalmente non ebbi esitazioni nell’optare per Croce, rimasi sbalordito nel vedere che gli anziani non si pronunciavano. In sostanza, votarono solamente i ‘fagioli’ e le matricole. La cosa, ad essere soltanto un poco più smaliziati di me, la diceva lunga. Ed in effetti, dopo che la maggioranza si fu pronunciata per la Storia d’Italia, ‘Bene’ – disse Cantimori – ‘allora studieremo l’eretico, perché dovete imparare che lo studio non è vana chiacchiera, ma una cosa dura’. Ciò mi creò un senso di rigetto, perché, pur convinto che si dovesse lavorare e lavorare intensamente, ritenevo che il lavoro dovesse avere un senso, un obiettivo. Trovo ancora oggi quel modo di comportarsi di Cantimori altamente diseducativo. In fondo, anche il più ottuso dei sergenti istruttori quando ti infligge percorsi di guerra, lo fa soltanto perché tu abbia maggiori possibilità di salvarti la vita in combattimento. E così dovrebbe essere per la pratica della ricerca rigorosa: le fatiche necessarie al suo apprendimento si possono giustificare, soprattutto agli occhi dei giovani intellettualmente più dotati ed inquieti, soltanto se si fa loro comprendere che sono un percorso obbligato per giungere a conoscere cose che ad essere conosciute hanno un interesse vitale in sé stesse, diverso da quello, puramente erudito, di essere conosciute”.
R.C.: “Ma Cantimori era il solo comunista, o lo era tutto l’ambiente?”
D.S.: “L’ambiente era prevalentemente comunista o più genericamente di sinistra estrema. Paradossalmente si potrebbe dire anzi che Cantimori fosse il meno comunista di tutti, perché ufficialmente evitava accuratamente di pronunciarsi su qualsiasi tema che avesse anche la più lontana attinenza con l’attualità – quella era soltanto ‘vana chiacchiera’. È significativo a questo proposito che il suo allievo prediletto, quel Del Vecchio che poi lo avrebbe abbandonato per la politica, quello che lui vedeva quasi come figlio adottivo e come prosecutore, e che per questo godeva del privilegio di essere frequentemente ricevuto nella sua stanza, a volte si facesse beffe del maestro, dicendoci con finta aria di circospezione: ‘Voi non ci crederete, ma nel chiuso della sua camera Cantimori osa esprimere opinioni persino su… Cavour’. Va detto che l’ambiente aveva questa caratterizzazione anche per la presenza di un gran numero di reduci e partigiani, che il Ministero per l’assistenza post-bellica aveva mandato in Normale a completare gli studi. È vero che noi normalisti per così dire ‘normali’, riuscivamo a sopravvivere, come non mancavano a volte di ricordarci reduci e partigiani, soltanto grazie alle borse cospicue di cui godevano questi ultimi, vista l’esiguità dei finanziamenti ‘istituzionali’ del Ministero della Pubblica Istruzione; ma sia per la maggiore età, sia per l’esperienza di guerra e di vita, che a noi, pulcini appena usciti dalla bambagia materna, faceva completamente difetto, era fatale che fossero proprio i reduci e i partigiani a dare la propria impronta all’ambiente. Del resto, in quella situazione, l’essere io nettamente anticomunista non impedì neppure a me di diventare un ‘agitatore’. C’era una commissione interna degli studenti, ed io ne ero il ‘commissario agli interni’. Mi occupavo soprattutto del cibo, che era scarsissimo. Per le matricole, una delle corvées più dure era quella di essere spediti dagli anziani più volte nel pomeriggio, quasi tutti i pomeriggi, a comprare 50 o 100 lire di castagnaccio o di cecina al ‘Montino’, perché, con il poco che si mangiava a pranzo, non si riusciva ad arrivare alla cena. Allora, io, ‘rigorista’, avevo fatto mettere una bilancia per ognuno dei quattro tavoli. Con il cuoco, che era in fama di anarchico ed era un tipo molto sanguigno, avevamo stabilito che avevamo diritto a un etto di carne a testa. Un giorno, avemmo la sensazione che la porzione di carne che ci ritrovavamo nel piatto fosse sensibilmente meno di un etto. Da tutti i tavoli fu un grido solo: ‘al peso, al peso!’. Detto fatto: la cerimonia confermò i sospetti. Venni allora spedito dal cuoco a protestare, impresa non del tutto rassicurante, a detta almeno di alcuni i quali – più desiderosi, credo, di farsi beffe di me, che davvero preoccupati – mi ammonirono di stare attento, dato il tipo, a non beccarmi una coltellata. Alle mie rimostranze, il cuoco mi oppose invece, con la voce più serafica che fosse dato immaginare, una verità inoppugnabile: che la carne, una volta cotta, perde di peso. Invece di metterla in ridere, applicando al nostro caso lo spirito della novella di Chichibio e la grù, io replicai a muso duro che spettava a lui acquistare la quantità di carne necessaria perché sul piatto di ciascuno di noi finisse una porzione non apprezzabilmente inferiore ad un etto. Per farla breve, gli detti enormemente fastidio e, come dirò in seguito, la pagai”.
R.C.: “Come veniva ricordata la Normale degli anni di Gentile, di Calogero, dei liberalsocialisti?”
D.S.: “Ho l’impressione che non venisse ricordata per niente, nonostante la presenza in Normale di Aldo Capitini, che era stato uno dei fondatori del liberalsocialismo. A pensarci bene, del resto, il silenzio su Gentile, sul liberalsocialismo e su argomenti affini non dovrebbe sorprendere: erano temi, per diverse ragioni, non graditi alla politica culturale comunista, che nella Scuola era nettamente egemone”.
R.C.: “A tanti anni di distanza, qual è oggi il tuo giudizio sull’esperienza di Normale?”
D.S.: “Ambivalente. Da un lato mi sembra di non averne tratto un gran profitto, nel senso che – magari per colpa anche mia o prevalentemente mia, non voglio dire – la formazione dello studioso che sono poi diventato deve assai poco alla Scuola; è ripartita molti anni dopo da zero, anzi in polemica con l’eredità della Normale. I miei veri maestri sono stati i libri di diversi autori, e per di più prevalentemente non italiani, che in Normale sarebbe stato allora del tutto impossibile conoscere. Dall’altra parte, tuttavia, mi riesce impossibile pensare come sarei potuto diventare quello che sono diventato, se non ci fosse stata l’esperienza, anche reattiva, di quegli anni, di quei professori e, soprattutto di quei coetanei. Del resto, dal punto di vista strettamente professionale non è che godessi di scarso apprezzamento, al contrario, almeno fino al ‘dramma della tesi’, di cui dirò tra poco. Ricordo che nel giudizio sul colloquio del terzo anno – argomento: la polemica Bailleul – madame de Staël sulla Rivoluzione francese, suggeritomi dalla lettura de La cultura francese nell’età della Restaurazione, di Adolfo Omodeo – mi si attribuiva ‘stoffa di storico’. Cosa potevo desiderare di più? Siccome all’epoca la laurea in storia non esisteva, scelsi di fare la tesi in Filosofia della storia con Ernesto Sestan, che mi aveva dato quel giudizio. Feci la tesi su un argomento che sviluppava quello del colloquio del terzo anno: le origini della storiografia francese sulla Rivoluzione. Ampliai le letture già fatte, studiai Burke, Chateaubriand ecc. Onestamente, non è che la mia tesi fosse un granché, per carità di Dio! Devo dire che a partire dai 18 fin verso i 35 anni ho sofferto di svariati malanni fisici e metafisici (psicologici), che poi, per fortuna, invece di aggravarsi si sono attenuati fin quasi a scomparire, il che mi ha consentito in età matura di lavorare con l’intensità e la perseveranza di un giovane, fino quasi a toccare i vertici di impegno che avevo tanto ammirato (e invidiato) nell’Arrighetti della Normale. Ma proprio nel periodo di preparazione della tesi tutti quei guai di salute fecero a gara per non darmi tregua Sicché è indubbio che lavorai molto meno di quanto avrei dovuto e voluto. E tuttavia, se fossi stato stimolato da Sestan, un po’ di più mi sarei certamente sforzato di fare. Senonché tutte le volte che mi recai ad limina – e ciò accadde di frequente – il mio professore si rivelò non dirò parco ma addirittura silente sia in fatto di indicazioni bibliografiche sia quanto a commenti. Arrivai addirittura a pensare che egli non conoscesse l’argomento. Era, questa, una bestemmia perché Sestan era una persona coltissima. Quanto alla mancanza di commenti e di critiche, l’interpretai come una tacita approvazione del mio operato – anche perché ciò mi faceva comodo, data l’impossibilità in cui mi trovavo di fare molto di più. Sennonché, quando arrivò il momento della discussione, apriti cielo! Sestan introdusse la relazione dicendo: ‘il candidato non conosce questa e quest’altra e quest’altra ancora tra le fonti primarie…’ E via di questo passo, senza non dirò un elogio, ma senza neppure un’indicazione da cui chi non l’aveva letta potesse ricavare la più pallida idea di quali fossero le idee esposte nella tesi. Luporini, che era il secondo relatore, si schierò in sostanza con Sestan, sia pure con toni molto più attenuati. E questo fu un secondo colpo, perché Luporini era notoriamente un marxista di punta e al marxismo, senza averlo ancora sposato, mi andavo avvicinando, al punto da averne appesantito la tesi. Sicché, se non favoritismi, almeno una qualche parola di difesa di fronte all’attacco di un ‘infedele’ come Sestan, da lui me la sarei aspettata. L’unico che trovò nel mio lavoro qualcosa di interessante fu invece l’altro ‘infedele’ della commissione, il terzo relatore Ettore Passerin d’Entrèves. L’esito della tesi, con la semplice conferma del 108, che era la media esatta dei miei esami, mi turbò profondamente. Pensavo, infatti, che un risultato così ‘vergognoso’, che non era dato ricordare a memoria di normalista, mi escludesse automaticamente dalla borsa all’estero, che spettava a tutti i laureati di Normale, nonché dal perfezionamento postlaurea”.
R.C.: “Come ti spieghi il comportamento di Sestan?”
D.S.: “Non me lo spiego. Non solo ottenni, senza difficoltà alcuna, la borsa a Parigi; ma di passaggio a Pisa per una breve vacanza, andai a trovare l’Arrighetti a Firenze. Ebbene, all’Università dove ci demmo appuntamento, incappammo in Sestan, il quale non solo si mostrò estremamente cordiale, ma mi parlò del perfezionamento in Normale, giungendo a farmi un invito quasi esplicito a presentarmi al concorso. E siccome l’esito del concorso dipendeva molto da lui, c’era di che cadere dalle nuvole. No, per quanto ci abbia pensato, il comportamento di Sestan in tutta la vicenda resterà un mistero”.
R.C.: “Oltre a quelli che hai ricordato, quali docenti hai seguito con maggiore interesse negli anni universitari?”
D.S.: “Il professore che più mi colpî, quello da cui ho imparato di più, è stato Luigi Scaravelli. Se ho capito qualcosa di Kant, lo devo alle sue dispense, che erano in materia una vera e propria Bibbia. In tempi relativamente recenti Corsi ha ravvivato il mio interesse per quella straordinaria personalità di studioso. Di professori che mi abbiano influenzato positivamente, ricordo inoltre Passerin d’Entrèves, di cui ho già detto, e Walter Maturi, che usava l’Omodeo come manuale, di cui all’esame noi studenti dovevamo conoscere anche le virgole, ma che, oltre a questo, sapeva farci amare la storia del Risorgimento. Ma il ricordo più vivace resta forse quello di Luigi Russo, più però per la sua personalità tonitruante che per l’influenza da lui avuta sulla mia formazione”.
R.C.: “Quali furono i tuoi primi interessi culturali?”
D.S.: “Come ho accennato mi interessai a Tocqueville, alla polemica Bailleul-Madame de Staël, alla Rivoluzione francese. Alla radice di questa linea di ricerca c’era un problema che era germinato in me già negli anni di liceo, dall’ascolto, magari casuale, di conversazioni di mio padre con colleghi ed amici sul ruolo di Mirabeau nella Rivoluzione francese e sul Terrore; la cosa aveva acquistato spessore, sempre prima della Normale, attraverso la lettura approfondita del volume Classe e Stato nella Rivoluzione francese di Giuseppe Maranini, opera che avevo scovato nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Anche se dedicato a Benito Mussolini ‘con fede nel presente e nell’avvenire’, anche se non condivisibile nell’impostazione generale, si trattava tuttavia di un lavoro molto serio e stimolante. Il problema, nella sua prima formulazione, mi si presentò in questi termini: come mai la marcia inglese alla liberaldemocrazia si è svolta in maniera graduale e pacifica, senza che si costituisse, quel millenarismo rivoluzionario, che avrebbe invece fortemente intralciato l’analoga marcia nei paesi del continente? È chiaro che la domanda, così formulata, indirizzava a cercare la risposta nella Rivoluzione francese. È certo che una problematica del genere non sarebbe mai passata attraverso le forche caudine del ‘rigore’ cantimoriano, avverso ad ogni contemporaneità della storia, nel senso crociano. E, tuttavia, non c’è dubbio che essa si muovesse nel senso del dérapage, della ricerca cioè delle ragioni dello slittamento dall’89 liberale al ’93 giacobino, che è diventata la chiave interpretiva della rivoluzione francese, proposta dalla scuola di François Furet, e che decenni prima si trovava già al centro del pensiero di Guglielmo Ferrero – un autore a me ora molto caro, ma la cui conoscenza debbo – insieme a tanti altri stimoli – a Luciano Pellicani. Sicché si può dire che quel problema abbia rappresentato una sorta di filo rosso di tutta la mia ricerca intellettuale: nel corso delle mie metamorfosi, da antimarxista a marxista e di nuovo ad antimarxista, è cambiato soltanto il giudizio di valore attribuito alla speranza nella rivoluzione, da negativo a positivo, di nuovo a negativo, ma le acquisizioni più propriamente conoscitive sono concresciute, per così dire, le une sulle altre. Da lì deriva, a ben guardare, sia pure con un notevole ampliamento di orizzonte e spostamento di accento, anche il lavoro cui vado pensando da tanti anni ormai, senza avere ancora messo mano alla fase esecutiva, tanto che comincio a domandarmi se avrò mai la costanza, la forza – e la buona salute – necessari per portalo a termine. Si tratta di un esame del pensiero di Hobbes, Locke e Rousseau alla ricerca delle origini della visione moderna della politica, nei suoi aspetti positivi ma anche nelle sue sempre più evidenti aporie”.
R.C.: “Com’è che sei diventato marxista, e perché?”
D.S.: “Il lontano punto di partenza va ricercato nella crisi religiosa, che si manifestò e si risolse nel mio quattordicesimo anno di età. Se penso a quanto ero stato pio fino ad allora, debbo dire che si trattò di una crisi apparentemente senza strascichi, quasi indolore. E, tuttavia, nell’allontanarmi dalla – per me, almeno – spensierata e beata adolescenza, sempre più avvertivo il senso di vuoto, il bisogno di trovare uno scopo oggettivo al tutto, uno scopo magari lontano ma comunque infallibilmente realizzabile, uno scopo ovviamente di bene e di perfezione. Si tratta, in sostanza, di quella tendenza che l’amico Giuliano Marini ha colto molto bene quando, nel dedicarmi una copia della sua traduzione dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, ha parlato della mia ‘strenua aspirazione al dover essere’. Sui 17 anni la lettura intensa di Benedetto Croce mi portò a credere di aver trovato nella ‘religione della libertà’ quello che cercavo: il sostituto della certezza perduta, con qualcosa in più: la conciliazione di fede e ragione. Ci tengo a precisare – en passant – che nonostante l’ingenuo abbandono con cui in quegli anni posso essermi consegnato nelle mani del maestro di Pescasseroli, fin dagli inizi non feci sconti neppure a lui. Ho ritrovato tra le cianfrusaglie del mio passato due paginette, datate giugno 1946, di quello che nelle intenzioni avrebbe dovuto diventare un pretenzioso ‘diario intellettuale’, ma che al di là di quelle annotazioni non ha avuto alcun seguito, in cui dimostravo come il problema del male all’interno di una filosofia immanentistica divenga più e non meno intrattabile, di quanto già non sia all’interno di una visione religiosa trascendente. Esagero, se vedo in nuce in quelle paginette la critica dell’ottimismo antropologico di Croce, che ho svolto quasi cinquant’anni dopo in Storia dell’idea antiborghese, e che tanto è piaciuta a Francesco Barone? Dal crocianesimo al marxismo, il passaggio in Italia, come è noto, è stato il destino di un’infinità di intellettuali. Che ciò trovi spiegazione anche in alcuni limiti, tra i tanti meriti, della critica di Croce a Marx, è quanto ho sostenuto molti anni dopo. Di quei tanti passaggi, comunque, il mio è certamente stato uno dei meno significativi, non foss’altro perché nel periodo in cui si verificò la mia notorietà era pari a zero, e quando la mia notorietà diventò visibile io veleggiavo già verso le sponde dell’antimarxismo. Come testimonianza, posso dire che la spinta mi venne dall’insoddisfazione per l’aristocraticismo intellettuale di Croce, che mi sembrava negare l’universalismo e l’amore per gli umili, retaggio perdurante della mia educazione cattolica. Come vedi, ad operare era pur sempre quell’aspirazione al dover essere, da me intesa però sempre più in senso economico-sociale. In altre parole, se mi stava bene collocare con Croce la sola felicità degna dell’uomo e la sola, in definitiva, possibile, nell’aspirazione a ‘soffrire più in alto’, molto meno ero disposto ad accettare che giungere a tali altezze fosse dato soltanto ad un’estrema minoranza. Volevo quel destino per tutti, e abbracciando il comunismo ritenevo appunto che avrei contribuito a creare le condizoni materiali di abbondanza e di equità distributiva – di cui Croce mi sembrava disinteressarsi del tutto – indispensabili perché a ‘soffrire più in alto’ potessero aspirare, per rifersi all’Italia, anche i cafoni del Sud. Mi ci volle del tempo per capire che il comunismo avrebbe potuto generalizzare soltanto miseria e imbarbarimento di massa. Di molto più tempo ebbi bisogno per rendermi conto che l’uomo comune non aspira affatto a ‘soffrire più in alto’, ma vuole al contrario godersi la vita, e che ne ha l’incontestabile diritto, anche se a me e a pochi altri molte delle forme scelte dai più per dare un senso alla loro vita possono non piacere per niente, e suscitare a volte un senso di ripulsa o di pena”.
R.C.: “Da quanto mi hai detto, immagino che la tua conversione al comunismo abbia inciso nei rapporti tra te e tuo padre?”
D.S.: “Eccome! Ricordo che la maggiore delle mie sorelle, che pure in quella contesa parteggiava per il padre, disse di capirmi e di scusarmi, per la necessità in cui mi trovavo, come tutti i giovani, di operare ad un certo momento uno strappo più o meno éclatant rispetto alla o alle personalità di chi lo ha allevato e plasmato, quello che si chiama ‘l’uccisione simbolica del padre’. Non v’è dubbio che la personalità dominante di mio padre, uomo nella cittadina universalmente stimato e per il quale io nutrivo un’ammirazione sconfinata, sembrava in effetti fatalmente destinata a fare ombra alla mia in formazione. Basti dire che a Pesaro, ormai uomo adulto con prole, io restavo per i più ‘il figlio del prof. Settembrini’, e così venivo designato nel periodo della militanza persino in seno alla sezione comunista; una satira delle compagne di classe, dopo avermi negato ogni avvenenza, concludeva: ‘d’intelligenza si fa paladino quel pappagallo d’ingegno padrino’. In tutta onestà, ancora oggi, a tanta distanza di tempo, mi sembra di poter dire che a livello di coscienza consapevole questa considerazione pubblica del nostro rapporto, che si direbbe aver dovuto suscitare in me un senso di umiliazione e di rivolta, non mi procurasse invece alcunissimo disagio, che ne fossi allo stesso tempo soddisfatto per quello che vi riconoscevo di esatto: l’omaggio reso a mio padre, e incurante, pronto anzi a sorriderne per primo, per quanto vi era di manifestamente esagerato nei miei confronti. Ma l’inconscio appunto è inconscio perché contiene quello che non è emerso o è stato scacciato dalla coscienza, e lotta per imporsi. Incosciamente, quindi, niente di più probabile che io andassi saggiando mio padre proprio per trovare il punto sul quale attaccarlo e arrivare a spiccare il volo con le mie ali. E così, non trovando altro da contestargli, lo sottoposi ad un esame di marxismo e di comunismo – le novità che riportavo in provincia dalla Normale – riuscendo a trovarlo finalmente manchevole. In realtà sul comunismo mio padre ne sapeva molto più di me e se Marx non era effettivamente il suo cavallo di battaglia, quello che gli contrapponevo io ero soltanto un imparaticcio di seconda e terza mano, del quale – giustamente – lui non voleva nemmeno sentir parlare. E così fu la rottura, così la mia ‘uccisione simbolica del padre’ venne a fare tutt’uno con la mia conversione al marxismo. In realtà e per mia fortuna la separazione non fu così netta come appariva: l’insegnamento paterno, anche quello sulla vera natura del comunismo, seguitò a vivere in me in sotterranea polemica con la mia nuova fede ideologica, fino a prevalere su di essa, con l’aiuto certo di circostanze esterne propizie. A quel punto però anche l’emancipazione della mia personalità era un fatto compiuto”.
R.C.: “Torniamo un passo indietro, al ‘dramma della tesi’. Dall’incontro con Sestan a Firenze sembrerebbe che tutto si potesse aggiustare per il meglio. Come accadde, allora, che interrompesti la carriera universitaria?”
D.S.: “Nel periodo in cui ero a Parigi, quando tornavo in Italia per le vacanze, passavo sempre almeno un giorno o due a Pisa, dove avevo la ragazza. Siccome avevo pochissimi soldi, alloggiavo in una pensioncina miserabilissima. Una volta un normalista più giovane, Benedetto Bravo, mi disse: ‘Ma chi te lo fa fare di stare lì? In Normale ci sono tanti letti liberi. Con quello che risparmi, puoi magari trattenerti un giorno in più’. Decisi di seguire il consiglio, tanto più che sapevo come la prassi del passare una o due notti in Normale da parte di exallievi, anche quarantenni, era stata fino ad allora un abuso, su cui le autorità avevano tacitamente chiuso tutti e due gli occhi. Avrei invece dovuto immaginare che con tutte le rotture di scatole di cui li avevo gratificati nella mia qualità di ‘commissario agli interni’ – ero stato pestifero, lo riconosco – i vertici della Scuola non si sarebbero lasciati sfuggire l’occasione di rendermi pan per focaccia. Non bastasse, mentre scavalcavo la cancellata di Via Consoli del Mare mi sorprese il famoso cuoco, cui non parve vero, dopo che ero stato costretto a farmi riconoscere, di lasciarmi indisturbato a completare il ‘misfatto’ fino in fondo. Insomma, non c’è che dire, una punizione me l’ero proprio meritata, non foss’altro per la trasognata stupidaggine da gran semplicione dimostrata in tutta la vicenda. E la punizione venne e salata: un rinvio di tre anni della facoltà di sostenere l’esame per ottenere la qualifica di normalista, esame che era buona norma superare al più tardi al rientro dall’anno di stage all’estero. Francamente non so se in quel modo mi venisse davvero legalmente precluso, per superamento dei termini, di utilizzare il titolo per qualsiasi concorso di perfezionamento, vuoi in Normale, vuoi all’Istituto Croce, di recente istituzione, cui pure pensavo. Certamente questo fu quello che allora ritenni. È altrettanto certo che il provvedimento, se non in termini strettamente di legge, veniva ad avere di fatto quell’effetto, visto che in quei tre anni avrei pur dovuto intraprendere qualcosa, non foss’altro per campare la vita. La mia era una famiglia numerosa. Mio padre, che pure già si ammazzava di lezioni private, sarebbe stato ben lieto di spendersi ancora di più per aiutarmi. Ma con quale prospettiva avrei accettato? chi mi poteva garantire che, al dunque, il Sestan dell’incontro di Firenze non sarebbe tornato a mostrare il volto del Sestan del giorno della tesi? Eppoi, diciamola tutta: se per la prospettiva di una vita dedicata quasi esclusivamente agli studi, ma così come li intendevo io, ero disposto a sottopormi anche a qualcuno dei ‘loro’ percorsi di guerra; dedicare la vita agli studi così come li intendevano ‘loro’ – leggi: Cantimori, i suoi innumerevoli discepoli e tutti i suoi simili – non mi attraeva un granché. Sicché è possibilissimo che io abbia inconsciamente precipitato lo scioglimento negativo della vicenda per una molteplicità di ragioni: perché nonostante tutto non mi sentivo ancora sufficientemente maturo e fiducioso per diventare il tipo di studioso che intendevo diventare; perché temevo ormai sia di non riuscire più a farmi accettare da ‘loro’, sia, e forse maggiormente, di riuscirci, ma senza poi essere in grado di salvare la mia personalità dal tritacarne dei ‘loro’ percorsi di guerra, come poi con gli anni ho visto capitare a più d’una delle giovani promesse di allora. Fu così che abbandonai la carriera universitaria, ma non certo la pratica degli studi, e nel 1953-54 feci la mia prima supplenza in una scuola media, nei cui ruoli ripartii dalla gavetta, vincendo prima la cattedra di materie letterarie negli Avviamenti al lavoro, poi quella di filosofia e storia nei licei. All’incirca nello stesso periodo iniziai a fare politica nel Pci”.
R.C.: “Come procedette la militanza politica?”
D.S.: “La mia permanenza nel Pci è stata un’esperienza tutto sommato assai breve. Mi sono iscritto nel marzo del ’53 – lo stesso giorno della morte di Stalin, ma si trattò di una pura coincidenza – perché mi ci volle del bello e del buono a vincere tutti i dubbi che nel mio animo aveva seminato l’insegnamento paterno, dubbi che – come ho già accennatto – non ero ancora riuscito a tacitare del tutto quando nel 1956 il ‘rapporto Kruscev sui crimini di Stalin intervenne in tempo a ridestare la fiamma dormiente dello spirito critico. È vero che nell’udire alla radio le spaventose rivelazioni sui crimini di Stalin contenute nel rapporto segreto del leader sovietico al XX Congresso del PCUS, rapporto reso pubblico dalla C.I.A., la primissima reazione fu di rifugiarmi nella grottesca scappatoia di pensare che si trattasse di un’altra iniziativa propagandistica della ‘solita stampa borghese’. Ma fu la debolezza, sia pure inqualificabile, di un solo attimo. Immediatamente passai a dirmi che quella era la conferma più autorevole che si potesse immaginare – veniva infatti dagli spalti stessi del Cremlino – di tutto quanto mi aveva detto mio padre per indurmi a non varcare il Rubicone, e che, dunque, non mi restava altro da fare che dimettermi dal partito. Senonché, arrivato in sezione, trovai che erano insorti tutti; sembrava che tutti volessero ‘fare la pelle’ ai dirigenti che li avevano ingannati. Dopo aver commesso nei confronti dei compagni atti che qualificare poco belli sarebbe un eufemismo, come quello di raccontare mirabilia dell’Urss, pur avendo una possibilità infinitamente superiore alla loro di informarmi su come realmente stavano le cose; o, ancora peggio, quello di incitare con tutta la sicumera di un capetto gli operai di uno stabilimento a scioperare, io che non rischiavo niente; dopo questi trascorsi, che cominciavano a bruciarmi cocentemente, ritenni che filarmela in quel frangente, quando sembrava che avrei potuto dar ‘voce’ alla generale protesta, equivalesse a ‘tradire’ me stesso e i miei compagni una seconda volta. Iniziò così una bella tempesta, che raggiunse il suo culmine nell’autunno successivo con i fatti d’Ungheria, quando mi capitò, una notte sì e l’altra pure, di tornare a casa alle cinque di mattina, dopo ore e ore di infuocate discussioni. Fu così che ebbi la chance di vivere la più significativa esperienza di tutta la mia militanza comunista: l’incontro con Togliatti – avvenuto a Roma in via delle Botteghe Oscure la mattina del 4 novembre – quale membro di una delegazione inviata a Roma dalla sezione di Pesaro per protestare contro l’impiego dell’esercito sovietico in un primo tentativo, fallito o piuttosto rientrato, di reprimere la protesta ungherese. Si trattò di un lungo colloquio, durato più di due ore, il cui succo si può però riassumere in una frase sola, quella dell’ammonimento perentorio del leader massimo: ‘State attenti a parlar male dei carri armati sovietici, un giorno potremmo averne bisogno!’. Cadeva così la mia illusione nel comunismo liberale, in un comunismo che sarebbe andato al potere e l’avrebbe esercitato nel rispetto rigoroso della Costituzione, – come pure pubblicamente Togliatti non si stancava di asserire. In verità, a liberarmi dall’errore teorico che si potessero conciliare collettivismo e libertà ci vollero ancora anni, ma finiva per sempre la fiducia che strumento di un tale miracolo avrebbe potuto essere il Pci, massime poi un Pci diretto da Togliatti o dai suoi discepoli. Al nostro rientro a Pesaro, la situazione si era chiarita su tutta la linea: l’esercito sovietico, intervenuto in forze una seconda volta proprio la mattina che noi eravamo ale Botteghe Oscure, aveva definitivamente ‘normalizzato’ la situazione in Ungheria, Togliatti aveva scritto su ‘L’Unità’: ‘li avremmo criticati, se non fossero intervenuti’, la tempesta si era completamente sedata, la vita interna del Pci era ritornata al solito tran tran burocratico. Io, in pratica, cessai di militare e un paio di anni dopo, in occasione dell’assassinio di Imre Nagy, l’ex – primo ministro ungherese catturato dai sovietici – assassinio approvato da Togliatti in Tv – mi dimisi dal PCI con una lettera feroce”.
R.C.: “Nel frattempo avevi già iniziato a scrivere?”
D.S.: “No. Le prime cose, tra le quali ci fu proprio il resoconto particolareggiato dell’incontro con Togliatti, le ho scritte tre anni dopo per ‘Passato e presente’, la rivista dell’eretico comunista Antonio Giolitti. Ho poi collaborato a ‘Problemi del socialismo’, la rivista di Lelio Basso, un dirigente del Psi che per essere caduto in disgrazia durante lo stalinismo aveva usurpato la fama di essere su posizioni di netta autonomia rispetto all’Urss e al Pci. Nel mondo della sinistra di allora era comunque un intellettuale che si poteva considerare aperto ed era indubbiamente un politico molto colto. Ma la collaborazione con lui resta importante nella mia storia soprattutto perché fu sulla sua rivista che pubblicai l’articolo che mi portò a scrivere il mio primo libro: La Chiesa nella politica italiana 1943-1964. L’articolo, che s’intitolava Stato e Chiesa nella politica delle opposizioni oggi in Italia, al quale Basso appose una postilla critica, piacque molto a Ernesto Rossi, che mi propose di ampliarlo fino a farne un libro per la collana ‘Stato- Chiesa’, da lui diretta per l’editore Parenti. Nelle intenzioni di Rossi, il mio libro avrebbe dovuto avere un’impronta nettamente ed esclusivamente anticlericale. Io però, pur assolvendo a questo impegno con una documentazione sterminata sugli interventi della Chiesa nella politica italiana, invece di dedicarmi corpo e anima alla polemica mi lasciai prendere un po’ la mano dal gusto di comprendere, se non le ragioni della Chiesa, almeno quelle di De Gasperi. Are, che fu tra i pochi ad apprezzare il libro proprio per questo, mi disse che esso poteva costituire un primo passo per ricominciare a pensare all’Università. Mi suggerì, anzi, di dedicarmi allo studio dell’età giolittiana, incominciando con la letture de L’Italia in cammino del Volpe. Trovai Volpe affascinante, feci anche una serie molto ampia di letture sull’‘età giolittiana’, ma sempre più mi concentrai – la lingua batte dove il dente duole – prima sulla guerra di Libia, poi sull’atteggiamento dei socialisti di fronte a quella guerra. Da qui alle diverse teorie marxiste dell’imperialismo e, di nuovo, a Marx , il passo fu presto fatto. A quel punto Are, disperato, mi disse: ‘Ho capito. Ti stai infognando di nuovo nelle controversie ideologiche, sei tornato a cercare in Marx la chiave corretta per capovolgere il mondo’. Così, per fortuna, non era. Ormai studiare per capire – per capire in maniera distaccata, Wertfrei – le ragioni delle stesse diatribe tra marxisti, aveva preso per me il netto sopravvento su ogni altro scopo. Fu così che feci del marxismo e delle teorie rivoluzionarie in genere l’argomento principale dei miei studi”.
R.C.: “Are lo avevi ritrovato qua a Pisa?”
D.S.: “Sì. Negli anni di Normale in fondo ci si conosceva appena. L’amicizia nacque negli anni caldi della crisi comunista. Egli era stato espulso dal PCI”.
R.C.: “Potresti ricordare quali letture facevi in quegli anni?”
D.S.: “La svolta del mio interesse dall’età giolittiana alle teorie dell’imperialismo mi portò a leggere un numero notevole di testi sull’imperialismo, marxisti e non, che non mi sembra qui il luogo di elencare, e allo studio di molti classici, tra cui basti qui citare, un po’ a caso, La teoria economica della colonizzazione di Marco Fanno, The Diplomacy of Imperialism di William Langer e i due libri di Schumpeter; Capitalism, Socialism and Democracy del 1942 e Imperialism and Social classes del 1951. Tutto andò poi a concentrarsi nello studio del Capitale, opera alla quale mi ero già accostato una prima volta da marxista, anche se non più comunista, nel periodo in cui maturava la mia uscita dal Pci. Allora vi cercavo davvero un rafforzamento nella fede anticapitalista, ma da questo punto di vista l’effetto fu disastroso: i conti, sui quali Marx pretendeva di fondare la previsione dell’ inevitabile Zusammenbruch del sistema, non tornavano. Trovavo del tutto impossibile far derivare dall’aumento della produttività la necessità di diminuire i salari (teoria della miseria crescente) per evitare che diminuisse altrimenti il saggio di profitto, o addirittura ‘la quota destinata al consumo dei capitalisti stessi’, come arrivò a sostenere ne Il crollo del capitalismo del 1929 l’austriaco Henryk Grossmann, sospinto a questa conclusione grottesca dalla logica, correttamente seguita, delle premesse marxiane. Usando gli stessi esempi numerici di Marx, feci e rifeci i calcoli, riempiendone un quaderno, che ancora conservo, ma inutilmente. Non riuscendo ancora a capire a quale errore delle premesse marxiane occorresse risalire per spiegare come mai quei conti non tornassero; dopo qualche mese mi stancai di provare e riprovare a far tornare i conti e abbandonai il Capitale , per lasciar depositare la materia. La prima illuminazione per la soluzione dell’enigma mi venne da alcune letture del tutto casuali. Tra queste, la più importante fu quella del libro di Jean Fourastier, Le grand espoir du XX° siècle , che mi fece indirettamente capire una cosa ovvia: che, a differenza di quanto sosteneva Marx, il numero di ore di lavoro non misurava il valore ma, semmai, il disvalore, perché la ricchezza consiste proprio nella diminuzione delle ore di lavoro a parità di prodotto. Ne conseguiva che l’aumento della produttività, determinando l’aumento della ricchezza, non acuiva il contrasto tra datori di lavoro e operai, ma permetteva al contrario di attenuarlo, conciliando l’aumento dei profitti con quello dei salari. Dunque l’errore risaliva alla teoria marxiana del valore-lavoro. La lettura de La società opulenta di Galbraith ebbe su di me l’effetto di contribuire a consolidare questa conclusione, che suonava piena assoluzione del capitalismo dalla condanna marxiana. Dopo che questa conclusione superò anche la prima prova cui la sottoposi: lo studio di uno dei più accreditati manuali di economia marxista scritto dal marxista americano Paul Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico , decisi che era ormai tempo di tornare a confrontarmi direttamente col Capitale, sottoponendolo questa volta a un’analisi sistematica, analisi che successivamente mi avrebbe portato alla pubblicazione del Labirinto marxista”.
R.C.: “Oltre ad Are avesti contatti con altri studiosi allontanatisi dal marxismo?”
D.S.: “No, non ebbi molti contatti. Anzi, negli anni in cui maturai le fondamenta della mia interpretazione del marxismo ebbi rapporti piuttosto scarsi in tutti i sensi, situazione che durò fino all’incontro con Renato Mieli e alla collaborazione con il Ceses, da lui fondato e diretto, ma per questo occorre arrivare al 1974, che è l’anno della pubblicazione di Le due teorie della rivoluzione in Marx ed Engels e Socialismo e rivoluzione dopo Marx”.
R.C.: “E come sono nati questi tuoi libri?”
D.S.: “Da articoli, di cui i tre fondamentali, due su Marx e uno su Lenin, apparvero, mi pare, tutti nel 1969, rispettivamente su la ‘Rivista storica italiana’, cui arrivai attraverso Valiani, amicissimo del direttore Franco Venturi e la ‘Nuova rivista storica’, cui pervenni, mi pare, per la trafila Are-Quazza. Sarà bene precisare, però, che mentre le letture di cui ho parlato prima avvennero negli stessi anni, ma non nell’ordine di successione indicato, bensì passando continuamente nel corso degli stessi giorni da un filone all’altro, non scrissi invece neppure una pagina, prima di avere portato a termine i miei conti con Marx. Desiderando ‘fare il libro’, mi rivolsi alla Einaudi, o meglio a un suo funzionario che avevo conosciuto in Normale, il quale mi incoraggiò a mandargli tutti i miei articoli di argomento marx-leninista, man mano che uscivano. dicendomi che l’articolo su Lenin era piaciuto a Vittorio Strada. Come sai, Strada curò alcuni anni dopo, per Einaudi, un’edizione commentata molto bella del Che fare?. dalla cui lettura capiì perché avesse potuto apprezzare quanto avevo scritto io. Sicché alla fine chiesi ed ottenni un colloquio risolutivo, ma quando arrivai all’Einaudi trovai a ricevermi, in luogo dell’amico come mi sarei aspettato, un volto sconosciuto e dall’aria molto autorevole…”.
R.C.: “Posso interromperti per chiederti che effetti ti fece l’invasione della Cecoslovacchia?”
D.S.: “Dall’inizio della primavera di Praga temevo come inevitabile quello sbocco cruento, che dunque non mi sorprese affatto. Sul piano della mia evoluzione intellettuale quell’evento coincise o quasi con la rottura con l’utopia – la rottura definitiva col socialismo reale, come ho detto, risaliva al trauma del 1956. Nonostante la mia simpatia andasse incondizionatamente ai fautori cecoslovacchi del cosiddetto ‘socialismo dal volto umano’, perché avevano osato sfidare l’Urss, quella formula, nell’accezione che essi gli davano, di collettivismo + libertà – molto simile al mio comunismo liberale – mi sembrava ormai che potesse essere magari tatticamente utile a smuovere le acque, dove proprietà privata e libertà erano state integralmente soppresse, ma ero sicuro che avrebbe rappresentato soltanto un pericoloso equivoco, un’indoratura per contrabbandare il collettivismo, dove proprietà privata e libertà esistevano ancora”.
R.C.: “Ma torniamo al libro. In questo periodo andasti a Torino , dove incontrasti ‘un volto sconosciuto’…”
D.S.: “Sconosciuto il volto, ma non il personaggio, che era tra i funzionari più noti dell’Einaudi. Questi si congratulò per la profondità dei miei studi, arrivando a chiedermi ‘Da quanto tempo si occupa di queste cose? In Italia non deve esserci nessuno che conosca questi argomenti così bene come lei’. Lo pensava davvero, o voleva soltanto edulcorare il diniego che sarebbe seguito? Si affrettò a precisare, infatti, che l’Einaudi non amava le raccolte di articoli, invitandomi pertanto a scrivere un libro ex-novo. Risposi che la cosa era fattibilissima, chiesi però che a quel punto mi fosse fatto un contratto. Il mio interlocutore manifestò stupore per la richiesta e disse che essa non poteva essere soddisfatta. Mi resi conto che la Einaudi mi stava prendendo in giro. Voleva controllare la situazione, ma lasciandosi le mani completamente libere: chissà, domani il libro, magari con qualche addolcimento che non sarebbe stato difficile strapparmi con la prospettiva altrimenti di non pubblicarlo, poteva riuscire utile, magari, che so?, ai fini di attenuare la fama di Editrice supinamente legata al Pci. Fu un duro colpo, tanto più che ero reduce da un’altra disavventura editoriale: un editore di Firenze, notoriamente vicino al Partito repubblicano, si era rivolto a me perché gli traducessi per uso scolastico due brevi testi francesi, rispettivamente su Anarchismo e Socialismo, corredandoli di un commento e di un’antologia di classici. Dopo la consegna del lavoro, mi fu comunicato che i miei commenti non erano pubblicabili – che diamine, mi fu detto, ‘siamo una casa editrice di sinistra!’ – a meno che non consentissi ad apportare, su un totale di 32 cartelle, la bellezza di ben 32 o 34 modifiche, non ricordo bene. Le accettai quasi tutte, perché volevo disperatamente far entrare certe idee nelle scuole. Mi impuntai, però, sul passo in cui dicevo che l’unico possibile termine di confronto col sistema sovietico era il nazismo. E su questo si arrivò alla rottura del contratto. Capirai perché, quando da parte di tanti pandit si protesta con conpunzione che non è mai esistita una mano pesante del Pci sulla cultura italiana, io trovi, oggi , la cosa tutta da ridere”.
R.C.: “Eppure, alla fine il libro venne pubblicato, e da una Casa importante come la Laterza. Come ci arrivasti?”
D.S.: “Grazie a Claudio Cesa. Personalmente lo conoscevo poco, ma di lui non mi era sfuggito il simpatico spirito ‘corporativo’ che faceva sì che – anche a distanza di tempo – nessun normalista si rivolgesse a lui invano. Era già un autore illustre della Laterza, e non ebbe difficoltà alcuna a scrivergli in mio favore. Il passo, per la verità,, sembrò non sortire a tutta prima l’esito voluto. Fu Cesa stesso, a dirmi, molto dispiaciuto, che la risposta di Laterza equivaleva ad un rifiuto. Senonché, all’improvviso, quando avevo perso ormai ogni speranza, Laterza si fece vivo con me, offrendomi un contratto per un libro, che avrei dovuto sviluppare a partire dai due articoli apparsi sulla ‘Rivista Storica Italiana’. Non solo, in seguito mi sollecitò più volte perché mi sbrigassi a portare a termine quello che era diventato ‘il nostro libro’. Alla consegna del manosciritto mi chiese se avevo pensato al titolo. Gli proposi: Marx bifronte… titolo che trovò bellissimo. A stampa ultimata, mi fece però sapere che i librai, interpellati, ritenevano che quel titolo non andasse bene, suggerendomi di ripiegare su Le due teorie della rivoluzione. Quando raccontai l’episodio a Colletti, egli commentò divertito, ma anche un po’ amaro – il suo rivoluzionarismo era entrato in una crisi profonda, ma non ancora del tutto risolta: ‘Come dire che Marx di teorie della rivoluzione ne ha a bizzeffe. Se non funziona una, funzionerà quell’altra!’”
R.C.: “Come ti spieghi la repentina svolta di Laterza?”
D.S.: “Non so. Veramente un’idea ce l’avrei, ma lasciamo stare…”
R.C.: “Nel frattempo inizia anche la tua carriera universitaria …”
D.S.: “Si. Ebbi l’incarico di storia del movimento operaio e sindacale nel corso di laurea in Scienze politiche della Facoltà di Giurisprudenza. Fu Are, come seppi più tardi, a far leggere i miei articoli a Giuliano Marini e a Giuseppe Pera, che patrocinarono la mia nomina. A novembre del 1970, quando cominciai ad insegnare, il corso si era già trasformato nella Facoltà di Scienze Politiche”.
R.C.: “Tuttavia, avevi già una certa notorietà. Mi ricordo, infatti, che quando giunsi a Pisa, nel 1971, sapevo che tra i professori che avrei potuto seguire con interesse e con profitto c’era Domenico Settembrini”.
D.S.: “Sì, vabbé. C’era la notorietà dello scandalo, che in quegli anni suscitava chiunque osasse parlare di Marx in termini che non fossero di assoluto rispetto talmudico, come in fondo dimostra anche la vicenda del pollice verso dei librai per il mio titolo. Non so se ricordi che le mie lezioni erano caratterizzate allora da ‘abbandoni a scena aperta’: parecchi studenti di Lettere, attirati dall’argomento dei miei corsi, venivano ad assistere alle lezioni ma, una volta accortisi che la ‘musica’ non era quella che essi ritenevano fosse l’unica che avesse il diritto di essere suonata, molti di loro si alzavano e se ne andavano via. Oggi tutto ciò può apparire incredibile, ma il clima era quello. Ricordo la studentessa che dopo l’esame, in cui pure mi pare le avessi dato un voto non tanto brutto, se ne andò a protestare – come mi fu riferito – per tutte le ‘enormità’ che le era toccato ascoltare: ‘Ma come?’ – pare dicesse – ‘Mi credevo che l’insegnamento di certe materie dovesse essere affidato unicamente a docenti designati dalla Direzione del Partito!’. Eppure, anche tra gli studenti, ci doveva evidentemente essere chi invece apprezzava quello spirito iconoclasta. Così lo scandalo trasportava nel suo alone anche un po’ di notorietà positiva”.
R.C.: “Possiamo tornare al libro Due ipotesi per il socialismo in Marx ed Engels,? Quale accoglienza ebbe?”
D.S.: “Come diffusione buona, anche se non eccezionale: non si parlò mai di una seconda edizione o di una ristampa. Come recensioni, mi colpì la brevissima segnalazione, priva di qualsiasi incisività, di Valiani sull’‘ Espresso’. Mi sarei aspettato di più da chi aveva seguito con partecipazione l’elaborazione dei due articoli seminali del libro, dicendosi speranzoso che potessero servire a svegliare gli intellettuali marxisti dal sonno dogmatico. Chissà, forse al dunque Valiani aveva temuto che la mia sveglia potesse risultare troppo energica! O si era reso conto che io ero ormai completamente fuoriuscito dall’orbita del marxismo. È vero, su l’‘Espresso’ intervenne anche Vittorio Saltini, che parlò molto bene del libro. Ci fu poi, su ‘Il Mondo’, la recensione molto argomentata di Are, che sottolineò l’originalità del libro rispetto alla marxologia dominante. Quello che mancò fu però un dibattito pubblico, fatto che si spiega col silenzio assoluto degli intellettuali organici del Pci, che avrebbero dovuto sentirsi i più coinvolti. Nessuno che muovesse contestazioni non dico a me, ma a Are o a Saltini, accusandoli magari di aver preso lucciole per lanterne. No, silenzio assoluto. Forse mi sbaglio, ma non ricordo neppure una recensione sulle tante riviste storiche o di varia umanità. E quest’atteggiamento non era dei soli ortodossi. Di lì a qualche anno, presentandomi a Flores d’Arcais, assistente di Colletti, Pellicani gli disse: ‘Certamente il tuo maestro ti avrà parlato di Settembrini’. ‘Sì, certo’ – fu la risposta – ma soltanto per ammonirci: ‘Settembrini non si legge!’. No, Settembrini si leggeva, magari si leggeva anche parecchio, ma non si dibatteva”.
R.C.: “Il 1974 fu anche l’anno dell’uscita del ‘Giornale’ di Indro Montanelli, come iniziò la tua collaborazione?”
D.S.: “In realtà, al ‘Giornale’ iniziai a collaborare più tardi, nel 1976. In precedenza, tra il ’73 e il ’74 avevo collaborato al ‘Mondo’, le cui colonne mi furono aperte da Alberto Aquarone. Dopo una collaborazione assai intensa – pubblicai pezzi su Turati, Serrati, Lenin, il Mussolini socialista e tanti altri ancora, l’avvento di un direttore allineato a sinistra portò alla mia defenestrazione da quella tribuna. Fu così che nel 1975, prima dell’uscita del Labirinto marxista, io mi proposi al direttore della ‘Stampa’ e a Montanelli, come recensore, dando come referenza gli articoli apparsi sul ‘Mondo’. Ebbi due netti rifiuti. Ricordo che Montanelli, quasi a mo’ di giustificazione, mi scrisse che quella de ‘Il Giornale’ era purtroppo una corporazione chiusa. Fu dopo l’uscita del Labirinto marxista che l’atteggiamento della stampa quotidiana nei miei confronti cambiò radicalmente…”
R.C.: “Un momento. Il labirinto marxista fu pubblicato dalla Rizzoli. Come pervenisti a questo traguardo?”
D.S.: “All’epoca era direttore di fresca nomina della Rizzoli Mario Spagnol, un ‘editore’ dalle larghe idee e dalla grande intraprendenza, come ha dimostrato le sua brillante carriera. Sono sicuro che senza di lui ll labirinto marxista non sarebbe stato neppure concepito. Io non conoscevo Spagnol. A farmi da tramite fu una carissima amica di mia moglie, che era stata sua compagna di studi, ma nell’immediato spalancarsi di quella porta – come capii in seguito – doveva entrarci qualcosa anche il fatto di avere al mio attivo il libro laterziano. Mi preparai all’incontro stendendo il piano dell’antologia ragionata, che era poi quello di far esprimere per quanto possibile la mia interpretazione a Marx e ai marxisti. A Spagnol piacquero subito questa idea e il titolo, anch’esso proposto da me. Così nacque ‘Il labirinto marxista’, che tra i miei è stato il libro che ha avuto più successo, almeno di diffusione. Ci fu anche una seconda edizione, che ebbe però poca fortuna perché usci nel 1982, alla vigilia dell’improvviso tracollo dell’interesse per il marxismo”.
R.C.: “Conservi il ricordo di qualche fatto ‘curioso’ legato alla vicenda di questo libro?”
D.S.: “Ricordo che il direttore della Bur, la collana in cui fu inserito Il Labirinto mi supplicò con grande cortesia, da persona compitissima qual era, di togliere l’espressione ‘plus-sudore’ – di cui mi servivo per far capire ictu oculi a cosa si riduceva, rettamente interpretato, il plusvalore marxiano – considerandola troppo irriverente. Io mi consigliai con Spagnol, che mi disse che, secondo lui, dovevo respingere la richiesta. E fu così che il ‘plussudore’ restò”.
R.C.: “Vuoi dirmi ora come fu che iniziò il tuo rapporto conflittuale con Bobbio, a proposito del quale ricordo ancora un tuo articolo su ‘Il Giornale’?”
D.S.: “In realtà, il rapporto con Bobbio cominciò sotto i migliori auspici. Ricordo che accolse molto bene l’articolo su Lenin, trovandolo distaccato e obiettivo, come – disse – era difficile mantenersi, trattando di un argomento tanto controverso. Mi offri di redigere le voci ‘Riformismo’ e ‘Revisionismo’ per il Dizionario di politica della UTET. Fu talmente contento del risultato – ‘lavorassero tutti con la sua serietà’ – che me ne assegnò altre due: ‘Socialdemocrazia’ e ‘Leninismo’. Su queste ultime scoppiò il contrasto. Non gli andavano bene. Trovava che avessero una troppo accentuata caratterizzazione ideologica – eppure, almeno nella voce ‘Leninismo’, c’era la stessa farina dell’articolo, tanto elogiato. Di fronte alla mia reazione di sorpresa, Bobbio assunse una posizione curiosa. Non contestò il contenuto dei lemmi: andrà anche bene, sostenne in sostanza, ma è una visione troppo originale, è ‘settembrinismo’ puro, mentre in un Dizionario si richiede di esporre la communis opinio prevalente tra gli studiosi. Evidentemente intendeva gli studiosi italiani marxisti o proni al marxismo, perché dei più validi studiosi internazionali avevo invece ampiamente tenuto conto. Le cose si rappattumarono grazie all’intermediazione di Matteucci, insieme a Bobbio direttore del Dizionario. Le voci anzi ci guadagnarono in completezza e rigore perché, anche per andare in qualche modo incontro a Bobbio, riconobbi – e c’era del vero – che potevo aver ecceduto nell’esprimermi, per la necessità di comprimere temi tanto vasti e cruciali in uno spazio eccessivamente breve. Grazie a Matteucci, le cartelle assegnatemi vennero cosi raddoppiate. Bobbio tuttavia, non deve aver abbandonato del tutto le sue riserve: al momento di approntare la ristampa 1983 del Dizionario, mi venne comunicato che, la voce ‘Leninismo’ sarebbe stata affidata ad altro collaboratore. Mi infuriai e posi l’aut-aut: o venivano ristampate tutte e quattro le mie voci o nessuna. La spuntai, ma non recuperai più cordialità di rapporti con Bobbio, sul quale nel frattempo il Labirinto aveva avuto l’effetto di confermare l’opinione, già trapelata dal suo giudizio su Le due teorie, che io fossi animato non dal desiderio di capire Marx, ma piuttosto arso dall’insana passione di parlarne male, anzi di ridicolizzarlo”.
R.C.: “Immagino che tutto questo avvenisse sul piano privato, nel rapporto epistolare con Bobbio. Ma io ti domandavo dei vostri scontri pubblici, del tuo attacco su ‘Il Giornale’, o di quello che gli sferrasti al Convegno di Locarno, al quale partecipò anche Popper”.
D.S.: “Per la verità, ad attaccarlo sulla stampa sono stato soltanto io, che gli ho due o tre volte rimproverato – sforzandomi di farlo nel rispetto che ritengo meriti la sua figura di studioso – la sua condiscendenza verso il Pci. Ma l’ho soprattutto criticato per la sua convinzione che l’abolizione della proprietà privata sia una conquista di civiltà, il fondamento di una vera libertà: al punto da manifestare il rimpianto, al momento del crollo del comunismo, che le rovine trascinassero con sé la speranza in una società senza proprietà privata e senza classi. A queste critiche, Bobbio non ha mai risposto. Solo due volte, che io sappia, si è espresso pubblicamente su di me, ed è stato per darmi ragione. Così è accaduto a Locarno, cui tu accennavi poco fa. Mentre Bobbio replicava ai vari interventi, accogliendo senza riserve l’osservazione che gli avevo mosso in merito alla sola democrazia possibile, – non si trattava affatto di un attacco, ma di una critica, sia pure di rilievo – ricordo, anzi, che mi trovavo tra il pubblico, potei così udire un noto cattedratico comunista esclamare tra i denti: ‘Gli dà anche ragione a quello!’ L’altra occasione, più recente, è stato nella lunga intervista a ‘Reset’ sul comunismo, in cui dice di condividere, senza esprimere riserve, l’interpretazione della storia dell’idea socialista che si trova nel mio C’è un futuro per socialismo? e quale? del 1996”.
R.C.: “Abbiamo lasciato cadere la vicenda del tuo ingresso nella attività pubblicistica sui più importanti organi d’opinione nazionali. Stavi dicendo che dopo il rifiuto da parte sia de ‘La Stampa’ che de ‘Il Giornale’, improvvisamente le porte si aprirono….
D.S.: “Sì. Il Labirinto marxista aveva appena pochi mesi di vita che ricevetti una telefonata di Enzo Siciliano, il quale mi chiedeva, da parte del direttore Arrigo Levi, che accoglienza avrei riservato ad un’offerta di collaborazione alla ‘Stampa’. Mi consultai con Spagnol, il quale mi lasciò capire di non essere del tutto estraneo a quell’offerta, e che nei suoi piani per me quello poteva essere il primo passo per arrivare un giorno al ‘Corriere’, all’epoca proprietà della Rizzoli. Avuta la certezza della mia accettazione, Levi mi invitò a Torino, per acccordarci sui termini della collaborazione, riservandomi un’accoglienza di tutto riguardo. Mi fece però capire che l’azione critica de ‘La Stampa’ nei confronti del Pci non poteva scatenarsi senza freni, alla maniera del ‘Giornale’, per intenderci. Ritenni che la cosa non comportasse per me limiti troppo pesanti, tanto più che la mia collaborazione era destinata alle sole pagine culturali. Ricordo che esordiì con un elzeviro – così si chiamavano allora i fondi della terza pagina, oggi scomparsa – dedicato all’Intervista sul fascismo di Giorgio Amendola. In quel periodo io collaboravo saltuariamente anche con l’‘Espresso’. La cosa non ti sorprenda: è vero che il settimanale era nel 1976 schierato a favore del compromesso storico, ma il direttore, Livio Zanetti, cui era stato presentato da amici comuni, temeva più di Montanelli, se possibile, che il Pci andasse al governo e trovava pertanto uno scarico di coscienza nel controbilanciare la linea uffciale del settimanale andando a pescare collaborazioni marginali di tipi come me che non chiedevano di meglio che fare i kamikaze, andando a predicare in partibus infidelium . Orbene, il giorno in cui ‘La Stampa’ pubblicò il mio articolo sul suo libro, Amendola si recò alla direzione dell’‘ Espresso’ e Zanetti glielo mostrò, provocando questa esclamazione: ‘Ah Settembrini. È bravo, molto bravo; peccato, peccato, era uno dei nostri…..!’”.
R.C.: “E come fu allora che passasti al ‘Giornale’?”.
D.S.: “Dopo le elezioni del 1976 fui invitato a partecipare a un dibattito, organizzato da ‘Panorama’, sulle metamorfosi del Partito comunista. Era presente anche Altiero Spinelli, il quale sostenne che il PCI aveva già fatto la sua Bad Godesberg e non si sognava più di abbattere il capitalismo. Gli ribattei che proprio pochi giorni prima ‘L’Unità’ aveva categoricamente asserito l’esatto contrario: che la realizzazione del socialismo esigeva l’abolizione, magari graduale, ma integrale di ogni forma di proprietà, compresa quella media e piccola. Con questo e con altri documenti analoghi lasciai di stucco i miei interlocutori, acquistandomi la fama di essere un lettore tra i più assidui della stampa comunista, quale in realtà non ero – troppo noiosa! Nell’insieme – come riconobbe in privato il giornalista di ‘Panorama’ che aveva presieduto al dibattito – gli esponenti comunisti fecero una figura barbina, che lui stesso non sapeva come attenuare nella stesura del testo per la stampa. E a questo si dovette, sono sicuro, se la direzione del rotocalco, adducendo incomprensibili scuse ‘tecniche’, annullò la pubblicazione del resoconto del forum. Mi sentii defraudato e intendevo assolutamente rivalermi rendendo pubblico sulla base dei miei appunti il resoconto del dibattito e mettendo così la controparte nella condizione di avallarlo, tacendo, o di amplificare addirittura quella pubblicizzazione dell’incontro- scontro, che voleva evitare, se avesse ribattuto. Ma dove pubblicare il mio resoconto? Sull’‘Espresso’ neanche a pensarci: l’anticomunismo di Zanetti era indiscutibile, come dimostrerà l’appoggio che successivamente darà all’autonomismo di Craxi, ma non intendeva certo compromettersi clamorosamente al solo scopo di permettere a me di difendermi. Del resto non mi aveva concesso il diritto di replica neppure contro le dure critiche di Bocca e di Valiani ad un mio pezzo satirico preelettorale contro il filocomunismo degli intellettuali: ‘Perché volete fidanzarvi tutti con Berlinguer?’; pezzo che pure era stato ben lieto di pubblicare dandogli quel titolo. Con ‘La Stampa’, formalmente almeno, le cose erano diverse: avendo chiesto l’esclusiva della mia firma per tutta la stampa quotidiana avrebbe dovuto ritenersi obbligata per cortesia ad offrirmi ospitalità. Anticipando un rifiuto, mi rivolsi tuttavia al ‘Giornale’, cui non parve vero di pubblicare il mio resoconto”.
R.C.: “Entrasti così in quella squadra di persone che fecero la ‘resistenza degli anni Settanta-Ottanta’ e che, oltre che su ‘Il Giornale’ scriveva su ‘Il Settimanale’, su ‘Prospettive nel mondo’…”.
D.S.: “Sì. Il disagio che il mio gesto creò tra me e Levi permise, infatti, a Bettiza di convincermi ad entrare al ‘Giornale’. A Levi, che mi aveva rimbrottato ma non scacciato per la pubblicazione del resoconto, inviai con le dimissioni una lettera di scuse, alla quale egli cortesemente rispose di capire benissimo come il posto più adatto per me fosse al ‘Giornale’”.
R.C.: “Nel frattempo venne pubblicato, proprio su ‘L’Espresso’, il famoso saggio, firmato Craxi, su Proudhon”.
D.S.: “Ciò avvenne in realtà due anni dopo, eper tutto il periodo in cui si svolse la polemica su quel saggio mi trovavo in America. Pellicani, che di quel saggio antileninista era stato più che l’ispiratore, mi accusò scherzosamente di ‘diserzione’: ‘Tu non c’eri!’”.
R.C.: “A proposito, come iniziò il tuo sodalizio culturale con Pellicani?”
D.S.: “Iniziò nel 1974, quandi ci incontrammo per la prima volta quali relatori ad uno dei corsi che Renato Mieli organizzava a Venezia. Fu grande la sopresa e la soddisfazione che ciascuno di noi provò nello scoprire di avere un’anima gemella che nutriva la stessa determinazione a battersi sul piano culturale contro l’infatuazione ‘rivoluzionaria’, così potente allora in Italia tra gli intellettuali. Alla fine del corso, sul vaporetto circolare che ci portava alla stazione la conversazione su Marx, Lenin ecc. ci assorbì talmente che continuammo a girare in cerchio non so quante volte, perdendo il treno. Cominciammo subito a comunicarci idee, informazioni su letture fatte o da fare, a farci recensioni reciproche. Negli anni di piombo la nostra presenza nella pubblicistica e nelle tavole rotonde fu così intensa che tra i gauchistes circolavano due storielline, entrambe gustose: che in realtà fossimo non due, ma quattro – Domenico Settembrini, Luciano Pellicani, Domenico Pellicani, e Luciano Settembrini – e che la nostra autorevolezza e popolarità negli ambienti della ‘reazione’ fossero tali – si trattava, ahinoi, di un’esagerazione bell’e buona – che bastava che i rivoluzionari avessero l’accortezza di esporre in bella evidenza nei sedili posteriori della loro macchina alcune delle nostre opere, per ottenere via libera di fronte a qualsiasi posto di blocco della polizia”.
R.C.: “Alcuni anni dopo Il labirinto marxista, uscì Il labirinto rivoluzionario, volume in cui si parlava pure degli anarcocapitalisti americani”.
D.S.: “Sì, inserii alcuni brani presi dalle loro opere nel capitolo intitolato appunto: ‘Nel solco della rivoluzione liberale: l’anarco-capitalismo’”.
R.C.: “Forse fosti il primo italiano ad occuparsi degli anarco-capitalisti. O non c’era anche un giovane, un tale Riccardo La Conca?”.
D.S.: “È vero, ma Riccardo La Conca se ne occupava – come dire? – da militante, dirigendo allo scopo la rivista ‘Claustrofobia’, dalla quale infatti attinsi un brano per la mia antologia. A indurmi a chiudere con quel capitolo Il labirinto rivoluzionario, ci fu il desiderio di far conoscere, sia pure molto sommariamente, nomi che sapevo del tutto o quasi del tutto sconosciutii in Italia: Rand, Tannehill, Tucille, Friedman, Rothbard. Ma non solo questo. Pur senza aver tempo allora di approfondire la cosa, avevo intravisto come, nonostante anarco – collettivismo e anarco – capitalismo si costituiscano in sistemi radicalmente opposti e incompatibili, l’aspirazione ad una libertà individuale illimitata, comune ad entrambi, se non rende la prima tendenza del tutto immune dalle seduzioni della libera concorrenza, non immunizza del tutto la seconda dalla tentazione rivoluzionaria, secondo la logica inesorabile di qualsiasi passione per l’illimitato e l’assoluto”.
R.C.: “Com’è che ti sei interessato della tradizione anarchica?”
D.S.: “Beh, il concetto di socialdemocrazia rimanda, sia teoricamente che storicamente, a quello di anarchia, per cui di anarchia mi trovo ad accuparmi già in sede di studio di Marx e del marxismo ne Le due teorie e – più in extenso – in diversi capitoli di Socialismo e rivoluzione dopo Marx . Poi nel 1976 Nico Berti – destinato a diventare l’amico carissimo che attualmente è, ma che mi era allora del tutto sconosciuto – mi invitò a partecipare alla celebrazione a Venezia del centenario bakuniniano, presentandomelo come una manifestazione a carattere rigorosamente scientifico. Accettai. Berti e i suoi amici si sarebbero aspettati che io mi schierassi per Bakunin il libertario contro Marx il totalitario. Nella mia relazione io invece dimostrai come ad essere veicolo di totalitarismo fosse il mito stesso di quella rivoluzione radicale, alle cui fortune avevano concorso in concordia discors sia Marx che Bakunin; dimostrai anzi come i contrasti tra i due dioscuri si fossero rivelati, al di là delle loro intenzioni, funzionali a mantenere in vita la speranza nella Rivoluzione in tempi non rivoluzionari. Al convegno, dove erano presenti quasi tutti gli anarchici d’Italia, accampati con i loro sacchi a pelo, la mia relazione, che – debbo riconoscerlo – fu seguita rispettosamente, suscitò tuttavia enorme scalpore. Nessuno, o quasi nessuno, degli studiosi di fede anarchica che si succedettero alla tribuna dopo di me rinunciò a sparare bordate, più o meno argomentate, più o meno cervellotiche, contro la mia relazione. A sera poi un nugolo di giovani mi assediarono nella hall dell’albergo fino alle quattro del mattino, contestandomi a turno con accanimento, pensando forse che se fossero riusciti a mettermi alle corde avrebbero recuperato quella piena fiducia nella rivoluzione, che in conseguenza delle mie parole aveva cominciato in loro a vacillare. Buon segno, dirai. Beh, in un certo senso sì. La cosa, tuttavia, ebbe un seguito, che avrebbe potuto essere assai meno gradevole. Nel 1979 in una libreria di Roma m’imbattei per caso in una rivista anarchica che recava una recensione de Il Labirinto rivoluzionario, allora appena uscito. Vi si diceva che il tipo di critiche che muovevo all’anarchismo meritava come unica confutazione ‘del buon piombo proletario’; gli scriventi – di cui in calce c’erano solo le iniziali – aggiungevano di averlo sostenuto fin dai tempi della mia relazione di Venezia. Peccato – aggiungevano – che già da allora ‘alcuni anarchici in doppio petto’ – evidente il riferimento e Berti e ai suoi amici – si fossero opposti drasticamente, affermando che ‘non stava bene’, che quelle erano cose ‘che non si fanno’. L’episodio non ebbe alcun seguito, è vero. Guardando alla cosa con gli occhi di oggi, riconosco anzi che è molto probabile che io non abbia mai corso alcun pericolo. Allora, tuttavia, nutrire più di un timore era legittimato dal fatto che quella rivista era l’organo dello stesso gruppo anarchico che aveva rivendicato il ferimento del medico del carcere di Pisa”.
R.C.: “Torniamo alle tue pubblicazioni. Nel 1978, l’anno prima del Labirinto rivoluzionario, uscì Fascismo: controrivoluzione imperfetta. Ricordo che Paolo Alatri fece una recensione cattiva”.
D.S.: “Sì, sentenziò che avevo scritto la ‘Bibbia del MSI’”.
R.C.: “Fascismo: controrivoluzione imperfetta fu, a mio avviso, un libro pre-revisionista, un libro caratterizzato da un approccio verso la figura di Mussolini e le problematiche del fascismo decisamente originale per quei tempi. Com’è che decidesti di scriverlo?”
D.S.: “Credo che la prima molla sia scattata con la lettura dell’‘Utopia’ mussoliniana, sulla quale, quando De Felice ne pubblicò il reprint, scrissi un articolo-recensione per ‘Il Mondo’. Nacque di lì un interesse per il Mussolini prefascista, che mi portò a mettermi in casa tutte le sue opere, di cui divorai subito gli scritti precedenti la presa del potere, dedicando particolare attenzione a quelli della fase socialista. Sono scritti di grande interesse e di notevole fascino. Con te non penso proprio di aver bisogno di mettere le mani avanti, precisando che fascino non implica in alcun modo condivisione di ciò che, per quanto lo si avversi, non si può fare a meno di ammirare, non foss’altro per l’originalità della scrittura. Del resto, un fascino, anche se di tipo diverso, l’ho provato anche per le opere di Lenin. L’indagine sul mussolinismo, in sostanza, è iniziata come un ampliamento dei miei studi sul marxismo, nel senso che la crisi che portò Mussolini dal neutralismo all’interventismo e da questo al fascismo s’inquadra e si può capire – a mio avviso – soltanto a partire dalla crisi di fine secolo del marxismo ortodosso, crisi da cui è scaturito anche il leninismo. Le considerazioni piuttosto limitative di De Felice sul marxismo di Mussolini e sul rapporto tra marxismo e fascismo risentono negativamente del fatto che lo storico reatino non aveva un solido retroterra di studi sul marxismo. Ad ardire di istituire un parallelo tra fascismo e comunismo mi confortò The Road to Serfdom di Hayek, che lessi per la prima volta nel 1970 in una traduzione francese”.
R.C.: “Il carattere innovativo del libro ti attirò tuttavia parecchie critiche”.
D.S.: “Sì. Perfino Luciano Pellicani, che pure mi difese dall’attacco di Alatri, accusandolo senza tanti complimenti di ‘terrorismo ideologico’, mi fece una recensione nell’insieme piuttosto negativa, contestando proprio la validità della mia tesi principale: l’interpretazione del fascismo come ‘una delle cinquantasette versioni del socialismo’. Io preferii allora non fare commenti, e oggi – come sai – è proprio Luciano Pellicani che ha strenuamente voluto la riedizione di quel libro, che è d’imminente uscita con una sua introduzione. Quando in questa circostanza mi sono finalmente deciso a parlargli di quella recensione di allora, Luciano ha esclamato: ‘Guarda che per me fu uno shock quel tuo libro’…”
R.C.: “Aveva perfettamente ragione”.
D.S.: “In effetti, che io ricordi, anche tra i miei amici della sinistra anticomunista furono pochi ad accogliere quel libro con incondizionato favore, come fece Nico Berti, che ne fu addirittura entusiasta. Ma non ci furono solo gli attacchi degli avversari, le critiche e le incomprensioni degli amici. Quel libro rischiò di sbarrarmi definitivamente la via alla cattedra, per la reazione che provocò in De Felice e in Spadolini. L’ostilità di quest’ultimo, che non si espresse mai pubblicamente ma che – come dire – ho potuto ‘palpare’ nell’aria nella mia sia pur scarsa frequentazione degli ambulacri dell’accademia, era dovuta a un motivo semplice semplice, anche se di una meschinità lacrimevole: in una nota del libro avevo citato il suo nome in un elenco esemplificativo di collaboratori della rivista fiorentina ‘Italia e civiltà’, uscita a Firenze nel periodo della Repubblica sociale di Mussolini. L’uomo, che, come poi seppi, aveva già provocato la rovina della carriera del collega che per primo aveva parlato di quell’episodio – io mi ero limitato a fare un nome, senza neppure avere la certezza che non si trattasse di un semplice caso di omonimia – me la giurò a morte. Guarda un po’ a cosa mai può essere legato, in Italia, il destino di uno studioso!”
R.C.: “E De Felice? l’ostilità che gli attribuisci, come la spieghi? È vero, nel libro esprimi delle critiche nei confronti della sua interpretazione del fascismo, ma si tratta di critiche scientifiche, avanzate con un tono di grande rispetto….”
D.S.: “Appunto. È quello di cui mi feci forte quando ‘Il Giornale’ mi pregò di sollecitare personalmente da lui la recensione che tardava ad inviare. Se hai da controcriticarmi – gli dissi – fallo tranquillamente: ‘non è così che si fa, o si dovrebbe fare, tra studiosi che si richiamano al liberalismo?’ Allora mi fece capire che le critiche che avrebbe dovuto muovermi erano talmente distruttive che non gli sembrava il caso di aprire una disputa tra ‘quei quattro gatti di liberali’ che ci ritrovavamo ad essere. Il che non gli impedì un anno dopo di apporre su Fascismo controrivoluzione imperfetta questa sorta di pietra tombale: ‘il libro di Settembrini riporta sostanzialmente tutto il discorso sul fascismo indietro di dieci anni e lo rigetta nel pantano delle interpretazioni ideologiche’. Salvo poi – in un testo del 1982 ma apparso solo l’anno scorso su ‘Ideazione’ – avanzare un’interpretazione che più ‘settembriniana’ non si può: ‘la prospettiva del totalitarismo fascista è una prospettiva socialistica’”.
R.C.: “Passiamo nuovamente alle tue vicende universitarie. Nel 1980, con Enrico De Mas ed Ettore Albertoni, vincesti il concorso di Storia delle dottrine politiche, bandito dalla Facoltà di Scienze Politiche pisana. Nella commissione c’erano Arduino Agnelli, Arturo Colombo, Mario Corsi, Mario D’Addio e Salvo Mastellone”.
D.S.: “Sì, ma avevo tentato prima la strada della storia contemporanea, partecipando al concorso 1974- 1976. Benché ci fossero in palio un numero impressionante di cattedre, tanto che erano state istituite ben quattro commissioni, da nessuna fui ritenuto meritevole di un posto. La storia contemporanea, specie dopo che, come ho detto, Fascismo controrivoluzione imperfetta ebbe aggiunto alla lista dei miei antipatizzanti, che già comprendeva i marxisti, fortissimi in quel settore, le altre due autorità in quel campo: De Felice e Spadolini, diventò per me una strada assolutamente bloccata. A rimettermi in carreggiata fu ancora una volta Marini, questa volta con il decisivo sostegno di Corsi, con il quale, da quando era entrato in Facoltà a ricoprire la cattedra di storia delle dottrine politiche, avevo stabilito un rapporto stretto di collaborazione e di amicizia”.
R.C.: “Divenuto professore a Pisa, ti sei trovato in una posizione invidiabile perché non hai mai fatto il Direttore di Istituto, né, poi, di Dipartimento. La vita accademica non ti ha coinvolto più di tanto. Se non sbaglio, hai fatto parte una sola volta di commissioni concorsuali e non credo sia stata un’esperienza esaltante. Come collega, posso dirti che avresti potuto impegnarti di più…”
D.S.: “Ti confesso che ora che è arrivato il tempo dei bilanci qualche volta mi sorprendo a farmi la stessa domanda, a muovermi lo stesso rimprovero, ma per trovare gli argomenti per mettermi la coscienza a posto non ho che l’imbarazzo della scelta. Diciamo solo questo, che è poi la sintesi di tutte le ragioni: oltre all’attività scientifica e a quella didattica – che fin dai tempi del liceo ho considerato di pari valore, anzi interdipendenti e sinergiche e come tali ho praticato dedicando loro pari cura – non avrei potuto portare avanti anche un serio impegno accademico, senza un radicale ridimensionamento delle mie ambizioni nel campo degli studi. Ne valeva la pena? Secondo me no. Del resto, non è che non abbia tentato, ma si è trattato, come hai anticipato tu, di un’esperienza non esaltante. Quello che non sai è quanto quell’esperienza mi sia costata in termini di tempo sottratto agli studi. E non parlo solo del tempo di orologio, di cui pure i concorsi di un tempo, con un numero di candidati che potevano andare dai 50 ai 100, richiedevano uno spropositato consumo; parlo del tempo più prezioso, quello psicologico, per cui una preoccupazione pratica, riducendo o annullando la capacità di concentrazione, ti sottrae molto più tempo di quello che materialmente ci vuole a venirne a capo. Certo, è una questione di carattere e di temperamento, di fronte alla quale non siamo perciò tutti uguali. Quanto a me, se quando mi occcupo di idee e dei loro rapporti sono capace di ‘tenere molte palle in aria’ contemporaneamente, amo anzi questo esercizio, che trovo molto più fecondo di buoni risultati dell’occuparsi di un libro alla volta, di una questione alla volta, magari quanto più possibile piccola e circoscrivibile, nei rapporti interpersonali, invece, quando mi trovo un nodo da sciogliere, anche di poca o pochissima importanza, come ad esempio fissare per telefono un appuntamento con l’idraulico, finché non l’ho risolto – anzi, a volte addirittura finché l’idraulico non è venuto a fare l’opera sua – quasi non mi riesce di pensare ad altro. Per non parlare poi della violenza che devo fare su me stesso per opporre un rifiuto, anche nei confronti di estranei o quasi, di fronte a richieste che so che poi mi costerebbe un’improba fatica soddisfare, o che addirittura ritengo non opportuno soddisfare. Con questo temperamento, se penso che c’è stato un tempo in cui mi credevo adatto per fare politica attiva, ora mi viene da ridere. Ma la conoscenza di sé, lo sappiamo, è la più lunga e la più difficile da acquistare”.
R.C.: “ Con quali colleghi pisani hai avuto dei rapporti intellettuali forti?”
D.S.: “Con Aquarone, che attraverso Are ho cominciato a frequentare già prima di avere l’incarico all’Università. E poi con Are, con il quale per molti anni, sapendo l’uno di cosa s’interessava l’altro, ci siamo telefonati anche più volte al giorno per scambiarci idee, giri di orizzonte, indicazioni bibliografiche e quant’altro”.
R.C.: “In Facoltà, eccezion fatta per la tua collaborazione con Mario Corsi, non è che abbia avuto molte sinergie intellettuali”.
D.S.: “Certo non moltissime, anche se forse più di quelle di cui tu sembra ti sia reso conto. Dimentichi del resto almeno un nome importante: Dino Cofrancesco, che ho voluto venisse chiamato in Facoltà, e con il quale nel quinquennio che è rimasto tra noi ho realizzato una collaborazione molto proficua per entrambi, collaborazione che, del resto, era cominciata prima e prosegue ancora. Eppoi perché, nel tirare le somme, escludi Aquarone e Are? Infine, non esiste solo la nostra Facoltà, o solo la filosofia politica. Ho avuto, ad esempio, un rappporto intellettuale intensissimo con Augusto Cecchini, della Facoltà di Lingue, un uomo dalla cultura prodigiosa e dall’eloquio sfolgorante, che si è confrontato con quasi tutti i principali pensatori degli ultimi cento anni. Da chi credi sia andato, se non da lui, a chiedere maggiori lumi, dopo la lettura dell’Open Society di Popper, un’opera in cui mi ero imbattuto per caso? Cecchini è stato l’unico collega di cui abbia seguito i seminari, confondendomi tra i suoi studenti, e al quale debbo, tra tante altre cose, l’introduzione a Freud, un autore del quale egli era tra i migliori conoscitori in Italia, per non dire il migliore in assoluto. Certo a legarci ha forse giocato anche il fatto che, quanto all’accademia, era anche lui un irregolare come me, forse più di me. Era giunto relativamente tardi alla cattedra dall’insegnamento nei Licei, anche perché – come mi raccontava anni più tardi, dopo la sua prematura scomparsa, Francesco Barone – malato di perfezionismo: era capace di passare a ritirare dai librai, per mandarle al macero, le copie dei suoi libri che gli amici avevano fatto pubblicare a loro spese e a sua insaputa, quando lui le giudicava ancora non degne dei torchi”.
R.C.: “Non mi hai detto ancora quale sia stato il rapporto tuo e di Pellicani col socialismo. C’è sempre stato in materia un completo accordo tra voi?”
D.S.: “Al contrario. Del resto, non mi sono mai iscritto al Psi craxiano, pur collaborando intensamente a ‘MondOperaio’, che nei confronti della cultura della resa ha esercitato anch’esso in quegli anni, particolarmente dal 1984, quando ne ha assunto la direzione Luciano, una funzione di ‘resistenza’ – per usare il termine usato da te – veramente di alta qualità”.
R.C.: “Ma in cosa consisteva allora la divergenza? che lui era socialista, e socialista in senso forte, e tu no?”
D.S.: “In un certo senso sì. In sostanza eravamo tutti e due per il mercato corretto, o se vuoi per l’economia sociale di mercato alla tedesca. Solo che per me questo era tutto il socialismo che fosse necessario, augurabile e non pericoloso realizzare. Dato il prestigio di cui era allora circondato il termine socialismo, mi sembrava – è vero – politicamente stolto rinunciarvi per lasciarne al Pci il monopolio. Ma non era solo machiavellismo: al di là della questione dei nomi – oggi troverei teoricamente più corretto definire quella mia posizione non socialdemocrazia ma capitaldemocrazia, o riformismo sociale – io in quella posizione, ovviamente mutatis mutandis, credo ancora. Pellicani, invece, allora non si accontentava dello Stato assistenziale, voleva andare oltre e proprio in polemica con la mia definizione del socialismo quale ‘correzione del capitalismo’ ribatteva – siamo sempre nel 1978 – ‘Il socialismo o rappresenta un’alternativa globale al capitalismo, o non è’. Ed è per questo che mi dava del ‘conservatore’. E anche se allora mi risentii debbo riconoscere che non aveva tutti i torti: di fronte a un riformismo caratterizzato quale via per arrivare, sia pure gradualmente, democraticamente, nel rispetto della libertà – queste erano per entrambi cose scontate – all’abolizione del capitalismo; di fronte a quello che Turati definiva appunto con un ossimoro ‘riformismo rivoluzionario’; io ero all’opposizione, ero per ‘conservare’ il massimo di capitalismo”.
R.C.: “Cosa impedì allora che la divergenza portasse a una rottura, intendo naturalmente una rottura sul piano teorico-politico?”
D.S.: “Con una battuta potrei rispondere: ‘Il fatto che Pellicani non era Turati!’”. Turati, infatti, per quanto riguardava il fine ultimo, lo intendeva secondo i canoni più utopici dell’anarchismo anticapitalista, con abolizione del mercato e della moneta, e connessa ‘presa nel mucchio’. Nulla di questa follia in Pellicani, che semmai si ricollegava a quel filone anarchico anticapitalista – di cui dicevemo prima – che l’amore per la libertà spinse verso l’altra sponda, alla riscoperta del mercato e della concorrenza, quel filone che ritenne di trovare nel mito dell’autogestione la quadratura del cerchio: la conciliazione dell’abolizione del capitalismo con la conservazione della libertà di mercato e della relativa efficienza, mediante il passaggio della direzione delle imprese dai capitalisti non alla burocrazia statale ma agli eletti dalle maestranze”.
R.C.: “Eppure, non pubblicasti, proprio su ‘MondOperaio’ mi sembra, un articolo dal titolo ‘Autogestione, ultima spiaggia del sovversivismo?’”
D.S.: “Si, è vero. Intendevo mettere in chiaro che l’autogestione era irrealizzabile, per cui rischiava di servire soltanto per indorare la pillola dell’abolizione integrale della proprietà privata e del mercato, per farla inghiottire a coloro che, pur non amando la proprietà privata, la preferivano comunque al collettivismo burocratico. Luciano, pur non volendo lasciar cadere la speranza di realizzare una qualche forma ‘democratica’ di gestione della produzione-progetto che a me appariva invece del tutto insensato: perché, allora non democratizzare la gestione delle orchestre, delle sale chirurgiche, delle scuole ecc., affidando la direzione dei concerti al consiglio degli orchestrali o a un direttore eletto dagli stessi, e così via? – si rendeva perfettamente conto che si trattava di un obiettivo comunque difficile, un obiettivo la cui realizzazione non andava precipitata e andava soprattutto subordinata alla comprovata compatibilità con la libertà di concorrenza tra le imprese autogestite. Si trattava insomma di una divergenza che dal punto di vista pratico, con l’incombere del pericolo comunista, mi appariva, doveva apparire ad entrambi, trascurabile, comunque rinviabile”.
R.C.: “Agli inizi degli anni Ottanta, Pellicani, Dario Antiseri e Marcello Pera iniziano ad utilizzare Popper in funzione anti-marxista e a presentarlo quasi come un socialdemocratico. Io e Angelo M. Petroni, allora due giovanotti, la pensavamo diversamente. Ma, nonostante il fatto che Antiseri e Lorenzo Infantino ci abbiano poi seguito, sono disposto a dire che forse avevamo torto. Nel tuo caso, ad esempio, che influenza hai ricevuto da Popper?”
D.S.: “Nel ritenere che Popper fosse un avversario radicale della socialdemocrazia, almeno se per socialdemocrazia si intende quella che sopra abbiamo chiamato capitaldemocrazia, avevate certamente torto voi. Se invece si intende ‘alternativa globale al capitalismo’, come l’intendeva allora Pellicani, allora aveva torto anche lui. Quanto all’influenza di Popper su di me, ebbene per quanto abbia ammirato l’Open Society, per quanto Popper abbia arricchito e rafforzato la mia avversione allo storicismo oracolare, quando mi sono imbattuto in lui, il mio assedio a Marx era già sostanzialmente completato, come pure il mio approdo a posizioni di ‘capitaldemocrazia’. Sicché si può dire che la maggiore influenza su di me Popper l’abbia avuta stimolando e orientando meglio quella che era – e purtroppo è rimasta e non poteva non rimanere – una passione da dilettante: la filosofia della scienza. Mi indirizzò a ‘sfruttare’ Popper in questo senso anche il consiglio di Cecchini, che nella materia era invece versatissimo”.
R.C.: “Io volevo però dire un’altra cosa. Mentre da parte di alcuni socialisti c’è stata una ricezione stru- mentale di Popper, per altri, invece, Popper è stato un punto di passaggio verso altre teorie politico-economiche. Penso alla parabola intellettuale mia, di Antiseri, di Infantino che siamo partiti da Popper per arrivare ad Hayek. Altri, invece, come Pellicani e tu stesso, vi siete confrontati con Popper ma mi riesce difficile definirvi liberali. Non ti sembra che il vostro atteggiamento nasconda residue resistenze nei confronti dell’economia di mercato?”
D.S.: “Se si ritiene che il mercato o è completamente autoregolato non è più mercato; se si ritiene che non si diano termini intermedi, che non comportino, prima o poi, o la discesa agli inferi del collettivismo totale o la risalita alle plaghe radiose della più sfrenata concorrenza, hai ragione senz’altro: sia Pellicani che io oggi riteniamo che il mercato possa e debba essere in qualche misura regolato. Ma allora la definizione di liberale andrebbe negata non solo a noi – che è poca cosa – non solo ai liberale classici, non solo a Popper, ma praticamente a tutti, all’infuori degli anarco-capitalisti o libertari estremi, i quali però, con quella consequenzialità che è propria dei cercatori di assoluto, trovano che persino ad Hayek si possa muovere il rimprovero di opporre ‘resistenza’ al pieno trionfo dell’economia di mercato, in quanto Hayek ammette l’esistenza di ‘beni pubblici’, e quindi la liceità della tassazione da parte dello Stato, e perfino l’opportunità di finanziare con il cespite delle tasse ‘un reddito minimo’ garantito per tutti. La nostra posizione, di Pellicani e mia, parlando rigorosamente dovrebbe chiamarsi ‘capitaldemocrazia’, ma si può chiamare come diavolo si vuole, anche socialismo, purché sia chiaro che si tratta non di ‘fuoriuscita’ dal – di cui parlava anche Enrico Berlinguer – ma di ‘correzione del capitalismo’”.
R.C.: “Torno all’attacco: non pensi che alla fin fine l’equilibrio tra scelte individuali e scelte collettive, che è l’anima portante del liberalismo classico e che, in proporzioni diverse ed invertite, si ritrova anche nella socialdemocrazia, o capitaldemocrazia come preferisci dire tu, non regga? Non pensi, insomma, che tra le ragioni della crisi sia quella che è diventata insostenibile la proporzione istituita dalla socialdemocrazia tra scelte pubbliche e scelte private?”
D.S.: “Ho capito, tu vorresti tutte scelte private e niente scelte collettive. Tuttavia dovresti anche dirmi come è possibile affrontare certi problemi – quello ecologico, ad esempio – facendo completamente a meno di scelte collettive”.
R.C.: “È vero, ma adesso l’intervista la sto facendo io. Ti risponderò a questa domanda quando, tra vent’anni, mi intervisterai tu!”
D.S.: “Più che giusto, ma allora occorre che tu ti limiti a far domande a me su quel che penso io, evitando di contrappormi quello che pensi tu. Vorrà dire che avrai modo di esporre con agio le tue tesi appunto tra vent’anni, quando i ruoli saranno invertiti”.
R.C.: “D’accordo! Ti chiedo allora cosa pensi della opportunità di fare a meno delle scelte pubbliche”.
D.S.: “Non vedo come ciò sia possibile. In fondo, anche gli anarcocapitalisti che pure in teoria negano sia le scelte pubbliche che lo Stato, che ne è l’attore, finiscono poi per reintrodurre dalla finestra sia le une che l’altro”.
R.C.: “Ma come? Non ti sembra di distorcere il loro pensiero?”
D.S.: “Ma no. Prendiamo Rothbard. Non solo ammette che, non essendo l’uomo buono per natura, occorre provvedere in altro modo alla funzione della sicurezza sia interna che esterna della società – bene pubblico, se altri mai ve ne sia – sicurezza che i liberali classici, come è noto, affidano allo Stato. E cosa propone in sostituzione? Il ricorso ad organizzazioni fondate sul principio dell’associazione volontaria: le privatopie. Di fronte all’ipotesi – da lui stesso avanzata, e che altri, compreso il sottoscritto, considerano una certezza – che questa situazione possa degenerare in una guerra generalizzata di tutti contro tutti, come se la cava Rothbard? Ebbene, affermando: cosa importa? nel caso peggiore, riavremo lo Stato, cioè quello schifo che abbiamo già. Non vedo come queste possano considerarsi premesse solide per una teoria alternativa al liberalismo classico e alla socialdemocrazia. Il problema resta perciò a mio avviso quello di saggiare delle tecniche, se così si può dire, che permettano di giungere a una distribuzione un po’ meno diseguale non solo dei beni materiali ma più in generale dei vantaggi del vivere sociale, senza che ciò inceppi il meccanismo della crescita”.
R.C.: “Ma non ti sembra che questo sia un ideale del tutto irrealizzabile?”
D.S.: “In assoluto, hai ragione. C’è sempre un legame tra produzione e distribuzione. Il problema di rendere più equa la distribuzione senza che ciò comporti il blocco della crescita è quindi un problema indubbio, e di non facile soluzione. In passato, tuttavia è stato risolto, sia pure alla bell’e meglio. Non vedo perché, in linea di principio, non lo possa essere anche in futuro, per quanto a questo proposito nutra effettivamente dei timori”.
R.C.: “Ma il campione delle scelte pubbliche non è proprio il socialismo? e non ti sembra, per parafrasare un tuo recente libro C’è un futuro per il socialismo?, che del socialismo resti ormai solo il passato?”
D.S.: “Se intendi il socialismo in senso forte, in senso proprio,con me sfondi una porta aperta. Quanto Pellicani, lo sai come, richiesto di un consiglio, mi suggeriva di intitolare quel mio libro: L’agonia del socialismo? In un saggio recente, intitolato Scusi, sa indicarmi la terza via? ho appunto sostenuto che c’è una ‘terza via’ in senso forte, che nega la proprietà privata e che è stata sconfitta dalla storia; di contro, c’è un’altra ‘terza via’, quella di cui parlava Röpke, di cui parlava Einaudi, che parte invece dalla proprietà privata e dal mercato per regolarli, ma che, però, nessuno sa oggi, di fronte a quello scombussolamento chiamato globalizzazione, dove esattamente si trovi, in quali precise misure possa concretizzarsi …”
R.C.: “Ma non ritieni che questo avvenga perché i presupposti teorici della terza via sono fragili? e che lo siano proprio perché è venuta meno la credenza che esistano dei beni pubblici che possano essere prodotti solo dallo Stato?”
D.S.: “È possibile, in effetti, che al livello dell’attuale sviluppo tecnologico si riveli impossibile conciliare la velocità della crescita con un accorciamento delle distanze sociali. Ritengo tuttavia che se l’attuale allargamento delle distanze dovesse accentuarsi sempre più, si creerebbero problemi seri di convivenza sociale. Quanto alla fragilità delle premesse, non mi sembra che l’unica alternativa radicale ipotizzabile, l’anarcocapitalismo, poggi su premesse tanto solide. Certo ci sarà una ragione, se un simile progetto non è stato mai messo alla prova”
R.C.: “Ma non pensi che come un tempo chi parlava della possibilità di andare sulla luna era preso per pazzo, così in un domani più o meno lontano l’anarcocapitalismo divenga realizzabile, smentendo chi, come te, oggi lo considera una follia?”
D.S.: “Sarei tentato di rispondere che in questa ipotesi, del resto del tutto improbabile, mi troverei almeno in ottima compagnia. Come sai uno dei massimi teorici del conservatorismo americano, Russell Kirk, ha scritto: ‘I veri libertari sono pazzi, metafisicamente pazzi. La follia è repellente, e la follia politica lo è in particolar modo’. Ma non voglio sprecare con questa battuta l’esempio della luna, che mi offre un’ottima opportunità di chiarire il mio pensiero. Sono il primo a riconoscere che ciò che è impossibile oggi, al punto che tentarlo porterebbe al disastro, può non esserlo più domani. Ma ritengo che non tutte le cose immaginabili come possibili, perché desiderabili, rientrino nella stessa categoria. Vogliamo o no riconoscere che esistono dei possibili che, mi si scusi il bisticcio, è teoricamente impossibile pensare che possano un giorno diventare realtà verificabile, dei ‘possibili’, insomma, che sono, per loro stessa costituzione, destinati a restare puramente immaginari?. Per fare un esempio, crederemo magari alla nostra immortalità, ma se lo faremo, lo faremo come lo fa appunto l’amico Antiseri, ci crederemo cioè per fede, non perché pensiamo si tratti di una ipotesi per sua natura scientifica, e pertanto in attesa di verifica. Ritengo anzi che ad usare un criterio esclusivamente scientifico si dovrebbe escludere l’immortalità dal novero dei possibili, si dovrebbe parlare di impossibilità assoluta, almeno se – come nel caso dell’andata sulla luna – ci si attendesse la sua realizzazione dall’uomo, dalle sue sole forze. Ebbene, l’anarcocapitalismo rientra per me nell’ordine delle ‘possibilità’ assolutamente impossibili, nella stessa categoria in cui colloco l’indiarsi dell’uomo”.
R.C.: “E perché mai, scusa?”
D.S.: “Ma perché l’uomo, secondo scienza ed esperienza, non è né un Dio né un angelo,né potrà mai diventarlo, ma un essere – nel migliore dei casi, per dirla con Kant – dalla socievole insocievolezza, portato magari a collaborare con gli altri per combattere contro la natura, ma intento poi a sottrarre agli altri con tutti i mezzi una parte quanto più grande possibile del frutto dello sforzo comune. Di qui l’alternativa: o si crede fermamente nella bontà naturale dell’uomo, e si va a sinistra; o si spera nelle privatopie, e si va a destra. In entrambi i casi si va nell’utopia, nel sogno umano troppo umano di uscire dai panni della propria imperfezione e finitezza. Inoltre va detto che, anche dato e non concesso che l’anarcocapitalismo possa realizzarsi al meglio, secondo i voti dei suoi fautori, ciò rappresenterebbe paradossalmente la prova migliore che sia dato immaginare contro i sostenitori della tesi che il bene pubblico non esiste. O come vorremo chiamare il fatto che la società funzioni ordinatamente, senza violenza o con il minimo di violenza mai conosciuto, grazie al coincidere dell’interesse individuale di ognuno con quello di tutti?”
R.C.: “No, questa coincidenza degli interessi non è possibile, perché gli individui hanno tempi diversi in cui vogliono realizzare le loro aspettative. Quindi, gli interessi di ogni individuo non sono gli interessi di tutti. Ovverosia il tempo in cui le regole producono buoni risultati non è uguale per tutti. I buoni risultati dipendono dal tempo che i singoli individui credono di avere a loro disposizione e dalle loro conoscenze. Nessun sistema politico può modificare questi ultimi due elementi, e la politica non può incidere né sul tempo, né sulle conoscenze individuali. Perciò ti chiedo: non sei colto anche tu dal dubbio che la politica abbia finito per essere un’attività quasi parassitaria, che non serve a nulla?”
D.S.: “Ma senza politica – cioè senza Stato – la composizione degli interessi non coincidenti degli individui resta affidata soltanto alla forza dei singoli. Senza contare che esistono le passioni, dalle buone alle pessime, dalle tiepide alle sfrenate: lo scoglio su cui sono andate ad infrangersi tutte le teorie che hanno preteso che l’interesse bene inteso basti a regolare il traffico tra gli individui. Ecco perché io, che pure ho dubbi su tutto, di una cosa non dubito: che il problema della sicurezza dalla inaffidabilità altrui è la quintessenza del problema politico. Ecco perché ritengo che il pensiero di Hobbes resti di perenne attualità, per ricordarci che non si può sfuggire alla necessità del potere. L’elemento di forza della riflessione di Hayek lo sai dove sta? Sta nel fatto che, se io devo concretizzare le correzioni dei meccanismi spontanei, debbo attribuire a certi uomini il potere di farlo, uomini che sono però degli uomini uguali agli altri, e che ci si deve quindi aspettare che usino il potere non per regolare al meglio il traffico tra gli individui e tra le generazioni – penso ai problemi ambientali – ma per i propri fini individuali o di gruppo”.
R.C.: L’argomento è stimolante e ci ha dato altre volte l’occasione di discutere con amichevole animosità. Suggerirei di abbandonarlo e di porre termine all’intervista. Qual è il tuo libro che ricordi con più piacere? Forse Storia dell’idea antiborghese in Italia ?”
D.S.: “Non saprei; è forse quello che mi ha dato più soddisfazioni. Tra l’altro nella presentazione a Roma si è raccolto un pubblico molto esiguo ma, quanto a qualità, un vero parterre de rois: c’erano, se non vado errato, Antiseri, Berti, Colletti, Corsi, De Felice, Vito Laterza, Pellicani… Anche se, probabilmente, il più organico e compiuto resta il Marx bifronte”.
R.C.: “E quale libro pensi abbia avuto più influenza su di te?”
D.S.: “Difficile indicare un unico libro, difficile distinguere tra il piacere intellettuale, il fascino di una lettura – per questo la palma va al Socialismo di Mises – e l’influenza ricevuta, di cui spesso migliori giudici non siamo noi, ma gli altri. Più che di singole opere preferirei parlare di autori, e tra questi metterei Ulam, Pipes – cui si deve, tra l’altro, una fondamentale biografia di Peter Struve, fondatore del liberalismo russo – Aron, Besançon. Tra gli italiani non vanno certo taciuti Croce, Salvemini…”
R.C.: “Nella tua avventura intellettuale con chi ti sei sentito maggiormente in consonanza e chi rimpiangi di non aver conosciuto o di non aver conosciuto abbastanza?”
D.S.: “In cima alla lista degli studiosi con cui mi sono sentito e mi sento tuttora in maggiore consonanza intellettuale restano Pellicani e Are, nonostante le divergenze, divergenze che, quando restino sul piano dell’‘ amichevole animosità’ di cui tu parlavi, non possono che avere effetti benefici su di una collaborazione intellettuale. Il personaggio più notevole che ho avuto la fortuna di conoscere è stato sicuramente Ernesto Rossi. Tuttavia è stato soltanto leggendo, dopo la sua morte avvenuta nel 1967, l’Elogio della galera , (Laterza 1968) – raccolta di molte delle sue lettere dal carcere – che ho avuto modo di scoprirne la straordinaria ricchezza umana ed intellettuale, cosa che mi ha fatto rimpiangere amaramente di non aver avuto la possibilità – o di non aver saputo farlo – di ‘sfruttare’ maggiormente, ai fini della mia formazione spirituale, quel fortunato incontro con una personalità, che mi si era rivelata d’improvviso così poliedrica ed affascinante. Con lui, che abitava a Roma, ebbi in realtà un rapporto cordialissimo, ma quasi esclusivamente epistolare (ho provveduto di recente a versare all’archivio Rossi in Firenze fotocopia delle Sue lettere), ed esclusivamente vertente su temi anticlericali, o comunque legati alla redazione e pubblicazione del mio primo libro che, come ho avuto occasione di dire, mi era stato commissionato proprio da lui. Se poi dovessi parlare degli incontri occasionali che ho tutte le ragioni di rimpiangere che non siano maturati in una conoscenza durevole, i nomi sarebbero tanti, troppi. Uno per tutti: George Mosse. Con lui – presenti anche Ernst Nolte e Juan Linz – ho partecipato ad un Convegno sul fascismo, organizzato a Berkeley da James Gregor – un altro incontro iniziato sotto i migliori auspici, ma poi sfilacciatosi. A Mosse resto assai grato per aver egli incluso nella raccolta International Fascism: New Thoughts and New Approaches , da lui curata per la Sage Publications, il mio saggio Mussolini and the Legacy of Revolutionary Socialism. Passando poi ad un piano più privato e personale, ad un piano, per così dire, esistenziale, chi dai tempi di Normale ad oggi ha seguito di più il mio sviluppo intellettuale ed umano, chi è stato maggiormente partecipe, in modo insieme affettuoso ed intelligente, della mia tormentata ricerca di me stesso, è stato Raffaello Baldini, uomo di grande cultura letteraria ed artistica e di straordinaria sensibilità umana, divenuto uno dei nostri maggiori poeti dialettali viventi. Ci siamo conosciuti in Normale, in cui Baldini entrò come perfezionando. Originario di Sant’Arcangelo di Romagna, Baldini veniva dall’Università di Bologna, dove si era laureato con Battaglia su Pascal. Successivamente, decise di trasferirsi a Milano per intraprendere la strada del giornalismo. Fu lui a farmi per ‘Panorama’, dopo l’uscita del Labirinto marxista, una lunga e bella intervista, di gran lunga la migliore e la più completa tra quelle che apparvero in quell’occasione”.