La tortuosa strada verso la santità di Madre Teresa
01 Settembre 2007
di Valdegamas
Uno dei caratteri più evidenti e più irritanti del sistema mediatico del nostro tempo – lo si ripete spesso – è quella specie di “pensiero unico” che lo pervade: sono giunti ai suoi vertici gli esponenti di una generazione, che è passata attraverso molteplici esperienze, ha subìto cocenti disillusioni, ma, negli anni, si è sempre tenuta a galla. Di tanta speme oggi le resta un geloso senso dell’establishment di cui è entrata a far parte e un non dissimulato fastidio, per non dire disprezzo, per tutto ciò che è estraneo alla “cultura”, di cui si fa portatrice: sottilmente corrosiva, priva di vere convinzioni, ma tutta basata su grandi ovvietà continuamente sbandierate. Si tratta dell’ultima incarnazione di quella “clase discutidora” di cui parlava a metà Ottocento Juan Donoso Cortés: solo che oggi, più che discussione, produce chiacchiericcio e gossip mediatico.
Colpisce nei suoi esponenti, fra le altre cose, l’assenza di un qualche interesse per la problematica religiosa: nella loro formazione marxista o neo-illuministica, non c’è stato posto per la religione, ma soltanto per la sua “critica”. Da qui anche la totale mancanza di quella cultura di cose religiose, che (fino a circa mezzo secolo fa) era più o meno comune a tutte le cosiddette “persone colte”, credenti e non credenti. Da qui anche l’evidente inadeguatezza (parlo del giornalista medio, ovviamente, non degli specialisti) che mostrano tutte le volte che devono trattarne: durante l’ultima sede vacante, certi inviati di importanti reti televisive parlavano del “cardinale camerlengo” come avrebbero potuto parlare del “magistrato di parte guelfa” della Firenze medievale!
A muovermi a queste considerazioni deprecatorie (e forse – lo ammetto – un po’ troppo aspre) è stata l’ennesima sceneggiata mediatica, stavolta a proposito di madre Teresa di Calcutta e delle stagioni di “aridità”, di “silenzio di Dio”, che ella ha attraversato nella sua lunga vita. Anche i santi non credono? Allora la fede è soltanto “volontà di credere”? Chissà quanti vivono un’analoga doppiezza fra ciò che dicono in pubblico e l’intimo delle loro coscienze! A tutto ciò ha risposto con grande dottrina e umanità il padre Raniero Cantalamessa sull’«Avvenire» di domenica 26 agosto e ci sarebbe veramente poco da aggiungere a quanto ha scritto: egli ha parlato diffusamente dei “grandi mistici” (alla cui schiera anche madre Teresa appartiene) e ha ricordato come tali dolorose “assenze di Dio” siano tipiche della loro esperienza.
Mi limito a fare un esempio, che, in questo caso, risulta particolarmente significativo: nel 1928, la ragazza albanese Agnes Gonxa Bojaxhiu, facendosi suora a diciotto anni, prendeva il nome di Teresa, con cui sarebbe poi stata conosciuta in tutto il mondo, in onore di S. Teresa di Lisieux: «Vi sono stati molti santi – avrebbe confessato – che ci hanno preceduto per mostrarci la strada, ma a me piacciono quelli semplici, come santa Teresa di Lisieux, il Piccolo Fiore di Gesù. Ho scelto di prendere il suo nome perché ha fatto cose ordinarie con straordinario amore». Erano gli anni della grande popolarità della piccola carmelitana francese, prediletta da papa Pio XI, che l’aveva canonizzata nell’anno giubilare 1925, a soli ventotto anni dalla sua morte (Giovanni Paolo II l’avrebbe proclamata dottore della Chiesa nel 1997).
Ma nella scelta di quel nome sembra esserci quasi uno stesso destino di sofferenza. L’ultima fase della straordinaria (e, al tempo stesso, – come ricordava madre Teresa – assolutamente ordinaria), breve esistenza di Thérèse Martin, nel Carmelo suor Maria Francesca Teresa del Bambin Gesù e del Volto Santo, fu percorsa da dolorosissime “intermittenze” della fede, che le fecero provare un’angoscia mortale. Questo «buco nero» (così lo chiamava) si manifestò a partire dall’aprile del 1896, ma era già apparso almeno dal 1890 (Thérèse era nata nel 1873): «Non capisco il ritiro che faccio, – scriveva alla sorella nel settembre di quell’anno – non penso a nulla, in una parola sono in un sotterraneo pieno d’oscurità!… Oh! domandate a Gesù, voi che siete la mia luce, di non permettere che le anime siano private, per causa mia, della luce di cui hanno bisogno, ma che le mie tenebre servano a rischiararle. Chiedetegli pure che faccia un buon ritiro e che egli sia contento di me quanto lo può essere. Allora anch’io sarò contenta e accetterò, se questa è la sua volontà, di camminare tutta la mia vita per la via oscura che sto percorrendo, pur di arrivare un giorno al termine della montagna dell’amore. Ma credo che questo non avverrà mai quaggiù».
Ma – lo ripeto – fu dalla Pasqua del 1896 e fino alla morte (30 settembre 1897) che la sua battaglia interiore fu particolarmente aspra: «Se sapeste in quali tenebre sono immersa! – confidava a una consorella – Non credo alla vita eterna. Mi sembra che dopo questa vita mortale non ci sia più niente: tutto è sparito per me, non mi resta che l’amore». E ancora: «Quando voglio riposare il mio cuore stanco delle tenebre che lo circondano, con il ricordo del paese luminoso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori, mi dicano facendosi beffa di me: “Tu sogni la luce, una patria dai profumi più soavi, tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie, credi di uscire un giorno dalle nebbie che ti circondano. Vai avanti, vai avanti, rallegrati della morte che ti darà non già ciò che speri, ma una notte ancora più profonda, la notte del nulla”». A madre Agnese (la sorella Pauline) ripeteva: «Sapeste quali pensieri spaventosi m’ossessionano! Va imponendosi al mio spirito il ragionamento dei peggiori materialisti. Più tardi, in virtù dei nuovi continui progressi, la scienza spiegherà tutto naturalmente; si darà allora una ragione di evidenza a tutto quello che esiste e che ancora costituisce un problema. Quante cose infatti sono ancora da scoprire! ecc.».
Nelle grandi sofferenze con cui la tubercolosi prostrava il suo fisico, Thérèse fu talvolta assalita con tale violenza da uno spirito di blasfemia, che fu vista mordersi le labbra con forza per non pronunciare le parole empie che le venivano, suo malgrado, alla bocca. Dovette provare anche la tentazione suprema, quella del suicidio: a una settimana dalla morte, pregò le sorelle di allontanare dalla sua portata i medicinali, che in alcuni momenti cominciavano a sembrarle una possibile scorciatoia. Il giorno della morte fu quello della vittoria: verso le sette di sera, Teresa guardando il suo Crocifisso esclamò: «Oh! … l’amo!…Dio mio… Vi amo!…». La sorella Céline avrebbe ricordato che, nell’ultima agonia, ebbe il tempo di recitare lentamente un Credo.
Si rammenta tutto questo unicamente per ribadire un fatto che dovrebbe essere ovvio: la santità non consiste nell’assenza di tentazioni, di debolezze o di cadute, ma nel modo in cui si reagisce, si risponde ad esse. Militia est vita hominis super terram, afferma il libro di Giobbe, in un versetto che – per il cristiano – ha sempre indicato la realtà del combattimento spirituale. Ma, da quest’orecchio, la “clase discutidora” non ci sente: risponderà magari che la soluzione dei problemi di Thérèse Martin sarebbe stata una buona terapia psicanalitica, che la liberasse dal trauma della perdita precoce della madre e dal rapporto complicato che intratteneva col padre; e poi… tutto quel gusto della sofferenza, com’è “tipicamente cattolico”! Di già – lo sanno tutti – che i fenomeni mistici sono solo stati di allucinazione…