La tragedia giapponese ci insegna a non mettere da parte la “verità delle cose”

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La tragedia giapponese ci insegna a non mettere da parte la “verità delle cose”

27 Marzo 2011

Facendo un po’ di ordine tra i miei libri, mi è capitato tra le mani, quasi per caso, “Il tramonto dell’Occidente” di Umberto Galimberti, e non ho potuto fare a meno di rileggere quelle parole alla luce della tragedia giapponese.

Alle origini della scienza moderna, germoglia il seme del declino intellettuale dell’Occidente, quando alla “verità delle cose” viene sostituita la “verificabilità delle cose”. In questo modo si impone l’etica della ragione, che con la sua leggerezza intellettuale, rallegra la coscienza infelice dell’Hegel della Fenomenologa dello Spirito. Etica della ragione che si esprime nel semplice principio che recita : “ciò che è reale è razionale”. E instilla il dogma della casualità necessaria: tutti gli eventi accadono, perché sono necessari.

Dice il professore brianzolo : “la generale necessità delle cose è l’alibi che il sistema offre ai suoi membri perché assolvano la loro coscienza e così la razionalità dell’apparato assume il ruolo di agente morale”. Ancora: “un uomo è capace di premere il tasto che annienta centinaia di migliaia di persone e poi dichiarare di non sentirsi oppresso da nessun senso di colpa, perché il suo compito non era di natura morale, ma semplicemente tecnico”. La scienza moderna riduce la libertà a scelta dei mezzi più idonei per raggiungere fini predeterminati, il pensiero si riduce ad un metodo tecnico “chiamato a tutti i livelli a collaborare all’efficienza e funzionalità del sistema”.

Così la verità viene immanentizzata, stretta com’è tra ipotesi e fatti: nel mondo positivista contano l’efficienza dei mezzi, il metodo, l’ordine. In questo senso, il metodo scientista va oltre la mondanità kantiana, che perlomeno si sforzava di trovare una giustificazione teorica del valore limitato delle scienze. E’ così che muore la filosofia dell’Occidente, nel tentativo di immanentizzare la metafisica, nell’assoggettare la verità a questa logica di tipo tecnico: la razionalità scientifica non dice mai cosa si può e cosa non si può fare, “ma ciò che con i mezzi a disposizione si può o non si può raggiungere”.
E’ questo distacco tra ipotesi del discorso scientifico e verità il presupposto  che sta alla base della disgrazia giapponese? Quando è stato esattamente che abbiamo sacrificato la ricerca della verità con la verificabilità delle cose, in tributo all’efficienza dei mezzi?

Non c’è dubbio che oggi la scienza debba sforzarsi di compiere un atto di umiltà intellettuale, ancor più profondo, alla luce di quanto sta accadendo in Giappone. Il limite “del terribile già accaduto”, abisso che Heiddegger fissava come limite alla razionalità umana, è oggi davanti a noi, nelle facce angosciate dei giapponesi, nei vani tentativi vani di predire il futuro.
In questo senso ha ragione Galimberti: non sono le affermazioni verificabili induttivamente ad essere proposizioni scientifiche, perchè tali proposizioni sono schiave di fini eterodiretti, che spesso si allontanano, in ossequio all’efficienza, dalla verità.

Tuttavia la sperimentazione scientifica è la base del progresso delle nostre società. Difendersi all’ombra di un’indeterminismo metafisico, vorrebbe dire troncare sul nascere la possibilità di sviluppo intellettuale ed economico della nostra civiltà. I presupposti della ricerca scientifica, non possono essere fondati sulla ricerca della verità come concetto assoluto, perché essa, una volta “portata fuori dal mondo”, si libera dalla schiavitù imposta dal “sistema scientifico” ,ma non può più essere colta.  
Ciò  che rimane alla ricerca intellettuale è l’epistemologia della falsificazione, l’unica metodologia di indagine filosofica che permette di limitare l’assolutismo scientifico, e di ristabilire l’equilibrio tra immanentizzazione della verità e trascendenza dei concetti filosofici.

Non si deve quindi sostituire la “verità delle cose” con la “verificabilità delle cose”, ma indirizzare la ricerca verso la verità, attraverso la falsificabilità delle ipotesi. In questo modo si orienta l’opera intellettuale verso la crescita razionale.