La truffa del Governo sul 5 per mille
21 Dicembre 2007
Una
settimana e mezzo fa una notizia apparentemente “buona”: con un emendamento alla
Finanziaria, per l’anno 2008 è stato alzato da 100 a 380 milioni di euro il
“tetto” previsto per i fondi del cinque per mille, quella quota dell’Irpef che
i contribuenti possono destinare al sostegno di soggetti – enti, associazioni,
fondazioni – che svolgono attività
socialmente rilevanti, dalla ricerca al volontariato. La notizia sembra
positiva (e in un’ottica di breve periodo lo è) ma è di quelle che lasciano
l’amaro in bocca. Per capire perché, facciamo un passo indietro.
Il
meccanismo del cinque per mille è stato introdotto in via sperimentale dalla
Finanziaria 2006, l’ultima del governo Berlusconi. E’ una forma – abbozzata ma
politicamente significativa – del principio di sovranità
fiscale, vale a dire l’attribuzione al contribuente
di una sfera di autodeterminazione grazie alla quale egli stesso può decidere a
quale attività, meritevole dell’interesse pubblico, destinare parte delle
proprie tasse.
Allo
stesso tempo, il cinque per mille rappresenta un’applicazione del principio di
sussidiarietà orizzontale, perché promuove la libera iniziativa dei privati –
organizzazioni no profit, enti di ricerca, università, associazioni di
volontariato – nello svolgimento di attività di interesse generale. Quando lo
Stato “arretra” e lascia spazio alla libera scelta e alla libera iniziativa, si
realizza in pieno un principio di autonomia e di responsabilità personale, che trova
la sua origine sia nel pensiero liberale sia nella dottrina sociale della
Chiesa. “L’oggetto naturale di qualsiasi
intervento nella società stessa – scrisse Pio XI nella Quadragesimo Anno – è quello di aiutare in maniera suppletiva
(subsidium) le membra del corpo sociale, non già di distruggerle e assorbirle.”
In
uno Stato che tassa molto, spende male (poca ricerca e poca spesa sociale) e
non rende trasparente l’utilizzo delle imposte versate dal contribuente, non è sorprendente scoprire che il cinque per
mille ha raccolto il favore degli italiani. Poter scegliere la finalità di una
parte delle imposte versate, sottrarli all’inefficiente e famelica burocrazia
pubblica per destinarli al volontariato, alla ricerca scientifica, alle
università, è una opportunità apprezzata.
Nel solo 2006, circa il 61% dei
contribuenti (quasi 16 milioni) ha scelto di assegnare il proprio cinque per
mille ad uno dei trentamila soggetti beneficiari, per un ammontare complessivo
di quasi 329 milioni di euro. Che la misura sia molto popolare è dimostrato
dall’elevato tasso di fidelizzazione che la accompagna: il 98,4% dei donors del 2007 ha già affermato, in
un’indagine conoscitiva delle ACLI riportata da Il Sole 24 Ore, di voler
rinnovare la scelta anche nella prossima stagione fiscale. E c’è da scommettere
che tanti tra coloro che non hanno devoluto quest’anno il loro cinque per
mille, saranno disponibili a farlo nel 2008.
Le
note positive finiscono qui, purtroppo. Il principio di sussidiarietà fiscale è
stato svilito dall’applicazione concreta del cinque per mille. Una prima
doglianza va rivolta al governo di centrodestra, che non ha avuto il coraggio sufficiente
per rendere strutturale la misura, limitandosi a finanziarla per il primo anno.
Una seconda critica, ben più profonda, è da sollevare nei confronti
dell’attuale maggioranza di governo. La Finanziaria 2007, la prima di Prodi, verrà
presumibilmente ricordata come una manovra “di tasse” e di “avanzamento” dello
Stato ai danni del cittadino: il 5 per mille non ha purtroppo fatto eccezione.
Il governo Prodi ha infatti posto un tetto alle risorse complessive da
trasferire ai beneficiari. Diffidenza del concetto di sussidiarietà o timore contabile
di un “eccessivo” successo (se i donatori aumentano, cresce il minor gettito
per l’Erario)?
Probabilmente entrambe le cose, sintetizzate nella scelta di
voler “controllare” lo strumento del cinque per mille. Di fatto, snaturandone
il contenuto, legato nella sua essenza ad una libera e incondizionata
espressione di volontà. Il tetto per il 2007 (tecnicamente per il 2008, quando
si pagheranno le imposte dell’anno in corso) era stato originariamente fissato
a 250 milioni, meno delle donazioni stimate per il 2006 (stima poi confermata
dal dato ufficiale dei 329 milioni, di cui dicevamo sopra). Il che voleva dire
che se le donazioni fossero rimaste stabili tra un anno e un altro, lo stato
avrebbe trattenuto quasi 80 milioni e trasformato il 5 mille in un effettivo
3,1 per mille. Insomma, un boom delle donazioni non avrebbe comportato che una
riduzione dell’effettiva donazione individuale.
La levata di scudi dei soggetti
beneficiari e dei sostenitori giustamente interessati – in primis gli
autorevoli firmatari, nello scorso ottobre, di un appello al Governo (tra i promotori Renato Dulbecco, Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Carlo
Rubbia, Umberto Veronesi) – ha poi convinto l’esecutivo a concedere nel decreto
fiscale di novembre ulteriori 150 milioni, alzando il tetto a 400 milioni.
Vicissitudini simili, anzi peggiori, sono quelle cui abbiamo assistito durante
i passaggi parlamentari della Finanziaria 2008. Il 5 per mille è stato
introdotto solo in extremis, con un tetto di appena 100 milioni, tale da
tramutarlo di fatto in un misero 1 per mille, ingannando i contribuenti e svilendo
le aspettative dei mondi della ricerca e del volontariato. Solo l’approvazione
di un emendamento alla Finanziaria, fortemente sostenuto da esponenti di
entrambi gli schieramenti, ha permesso che il tetto fosse reso più “dignitoso”,
380 milioni. Questa la “buona” notizia di cui abbiamo parlato, preso atto della
quale continuiamo a sentire l’amaro in bocca.
E’
difficilmente riconducibile al principio di sussidiarietà fiscale una misura
non strutturale, condizionata al reperimento annuale della copertura
finanziaria, soggetta ad un tetto massimo, subordinata – per l’accesso al
beneficio – a continue modifiche normative e circolari ministeriali e gestita
obiettivamente male (estenuante lentezza nell’assegnazione e nell’erogazione
dei fondi, confusione sui soggetti beneficiari). Se si crede che i contribuenti
abbiano “premiato” il 5 per mille perché ne riconoscono la finalità e
apprezzano la libertà di scelta, difficilmente si può condividere l’approccio
dirigista del Governo. Come hanno scritto i firmatari dell’appello di ottobre,
“siamo convinti che le risorse destinate
dal 5 per mille alla ricerca e al volontariato siano importanti non per il
volume finanziario in sé ma per l’intenzionalità espressa dai cittadini.”
Se l’intenzione dei contribuenti è quella di assegnare il 5 per mille della
propria imposta ad una data associazione o a un certo ente di ricerca, è poco
sostenibile la tesi di uno Stato che trattiene parte di queste donazioni per un
problema di copertura finanziaria o le “concede” solo in extremis, dirigisticamente
con un aumento eventuale del tetto.
La
questione principale è la visione che lo Stato ha nei confronti delle membra del corpo sociale, per dirla alla
Pio XI. Lo Stato dovrebbe porsi
l’obbietivo primario di favorire una libera e benefica concorrenza tra soggetti
e tra finalità, stimolando la qualità, la trasparenza e la responsabilità dei
soggetti cui demanda obiettivi socialmente rilevanti. Promuovere l’azione
privata nell’erogazione di servizi pubblici e nello svolgimento di attività di
interesse generale significa anzitutto favorirne una organizzazione
imprenditoriale, strutturabile sul medio lungo periodo e non provvisoria e
condizionata ai favori graziosamente elargiti di anno in anno dal sovrano.
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Vi è una differenza sostanziale tra il riconoscimento di una vera
libertà di scelta e di iniziativa e la mera concessione di risorse pubbliche.
Un cinque per mille “precario” e limitato assomiglia troppo alla seconda.