La Turchia prova a fare rima con democrazia
01 Luglio 2011
di Sam Reeve
L’establishment laico in Turchia è diffidente, già da lungo tempo, nei confronti del partito "Giustizia e Sviluppo" (AkP), guidato da Recep Tayyip Erdogan. Generalmente l’opinione che prevale fra i critici è che il fine ultimo del potente partito islamico sia l’imposizione della sharia: citati spesso come esempi i tentativi di criminalizzare l’adulterio e di facilitare l’indosso del velo islamico.
Tuttavia, dopo quasi nove anni di governo di AkP, viene riconosciuta l’infondatezza di tali accuse; l’aver fallito da una parte nell’inclusione di organizzazioni politiche di matrice religiosa in un contesto rigorosamente laicista, e l’aver costretto i militari nelle caserme dall’altra, costituisce un passo cruciale nell’epifania democratica di Ankara. Durante i preparativi per le elezioni parlamentari del 12 giugno, le polemiche relative all’instaurazione di una versione turca della teocrazia, sono state notevolmente meno accese rispetto alle due votazioni precedenti, mentre la riforma costituzionale e i risultati economici sono stati i temi al centro dei dibattiti. L’AkP ha avuto il grande merito di aver favorito una stabile crescita economica e un miglioramento degli standard di vita che, dalla crisi del 2001, hanno visto il reddito medio pro capite quasi triplicato, con un passaggio dai 3500 dollari pro capite del 2002 ai 10000 dollari pro capite attuali. Risultati particolarmente rilevanti specialmente se confrontati con la grave crisi economica dei vicini paesi europei e mediterranei. Parallelamente l’AkP ha promosso l’apertura di negoziati per l’ingresso della Turchia in UE, anche se finora con scarsi risultati, e ha seguito una politica estera votata alle dottrine della "profondità strategica" e del "zero problemi".
Non sorprende, quindi, che i sondaggi pre-elettorali indicassero una quota di consenso popolare fra il 40% ed il 45%. Nonostante questo dato fosse leggermente inferiore al 47% raggiunto nel 2007, ha comunque rappresentato un miglioramento rispetto al 39% ottenuto nelle elezioni comunali del 2009 e un vantaggio sostanziale sui repubblicani laici del CHP. Mentre il risultato dell’elezione non è mai stato in discussione – Erdogan è destinato a diventare il primo leader turco a vincere tre elezioni consecutive – gli unici dubbi hanno invece riguardato la portata della maggioranza dell’AkP. Nonostante i buoni risultati di governo e la conseguente approvazione dell’opinione pubblica, il consenso del AkP prima delle elezioni di domenica era stato causa di grandi preoccupazioni. La peculiarità del sistema elettorale turco, il quale prevede una soglia di sbarramento del 10% del voto popolare prima di ottenere seggi in parlamento, avrebbe agevolmente consentito al AkP di ottenere una super maggioranza di 367 parlamentari, un dato che avrebbero permesso a Erdogan di riscrivere unilateralmente la Costituzione e, come temevano in molti, "Kremlinizzare" la politica turca.
Parallelamente, una maggioranza del 60% (330 parlamentari), avrebbe permesso al partito di presentare proposte costituzionali direttamente al pubblico, senza consultare il parere dell’opposizione. Il rischio che venisse sfruttuata in modo machiavellico la mancanza di garanzie istituzionali, l’avverarsi di un tale scenario avrebbe fatto venir meno qualsiasi ideale di democrazia; nonostante il raggiungimento di una maggioranza semplice legittimi l’approvazione e l’attuazione di politiche specifiche, la riforma dei meccanismi di funzionamento della democrazia dovrebbe richiedere regole più severe. Di conseguenza, il tema della riforma costituzionale ha acquisito grande rilievo nel dibattito pre-elettorale. L’attuale costituzione è il frutto del colpo di stato militare del 1980. Figlia del tentativo di revoca di molte delle liberalizzazioni introdotte dalla precedente costituzione militare del 1961 – che aveva avuto lo scopo di arginare l’infiltrazione comunista – il documento del 1982 ha consegnato un enorme potere nelle mani della macchina statale, creando una situazione di deficit democratico.
Così, nonostante numerosi emendamenti, molti dei quali appoggiati dal AkP, c’è ampio consenso sulla necessità di una nuova costituzione, in grado di venire incontro alle esigenze di crescita e modernizzazione di uno Stato del ventunesimo secolo. Le elezioni del 2007 hanno messo in evidenza come Ankara possa effettivamente consolidare il processo di democratizzazione interno, una volta rimosso dalla costituzione il ruolo istituzionale dei militari, favorendo così l’agognato ingresso in UE.
In campagna elettorale tanto il AkP che il CHP hanno formalmente assunto l’impegno di riformare la Costituzione in caso di vittoria, reso esplicito dal leader Chp Kemal Kilicdaroglu il quale si era dato come obiettivo quello "di portare democrazia e libertà nel Paese". Tuttavia, mentre Kilicdaroglu prometteva cambiamenti significativi, tra i quali maggiori diritti per curdi e gli aleviti, l’allargamento delle libertà di stampa (in un momento in cui la Turchia aveva più giornalisti in carcere di ogni altra nazione), e una riduzione della soglia di sbarramento elettorale al 10%, Erdogan è rimasto molto abbottonato quanto ai suoi orientamenti sulla nuova costituzione, manifestando soltanto il desiderio di una "Costituzione del popolo, breve, compatta ed aperta", spiccatamente presidenzialista.
Fuori dai giochi per un quarto mandato come primo ministro, Erdogan ha manifestato la sua intenzione di conservare un proprio ruolo politico, varando una campagna elettorale con lo slogan "obiettivo 2023", nel tentativo apparente di evidenziare un confronto con Ataturk in vista del centenario della repubblica, e alimentando il sospetto che Erdogan intendesse esaltare i poteri del ruolo presidenziale, varando così un sistema politico d’ispirazione francese, e adoperandosi per ricoprirne in prima persona la suprema carica.
Le dichiarazioni pre-elettorali rilasciate da Erdogan hanno mostrato la riluttanza del AkP a far varare emendamenti costituzionali che avrebbero impedito al partito di ottenere i 330 seggi e la preventiva rinuncia a ogni potenziale collaborazione trasversale con gli altri partiti; il tutto immerso in un’aria da eccesso di sicurezza derivante dal successo nel referendum 2010 su una serie di emendamenti costituzionali, che ha impedito che quel certo scetticismo fosse ridimensionato. Un forte mandato parlamentare potrebbe dunque sortire l’effetto nefasto di snaturare i tratti democratici della politica AkP. I risultati parziali indicano un’ennesima vittoria AkP, che ottiene quasi il 50% dei consensi, mentre il CHP si attesta al 26% e il partito di estrema destra Mhp al 13%. Ridotti a 326 i seggi parlamentari (quindici in meno rispetto al 2007, nonostante un aumento di circa cinque milioni di voti), le paure di un AkP in grado di istituzionalizzare unilateralmente l’egemonia politica di Erdogan sono state sopite, anche a seguito del superamento della soglia del 10% ottenuta dal Mhp e al lusinghiero risultato di 36 seggi ottenuto dagli indipendenti.
Un Erdogan un po’ dimesso ha dichiarato nel suo discorso post-vittoria che "la gente ci ha chiesto di scrivere la nuova costituzione attraverso il dialogo e la trattativa", dichiarando che l’AkP avrebbe "discusso della nuova costituzione con i partiti di opposizione". Anche se l’AkP sarà in grado di agire liberamente, visto il mandato concessogli dall’elettorato, sarà necessaria comunque una maggiore collaborazione con i partiti di opposizione, usciti rafforzati dalle urne, in vista delle future modifiche costituzionali, particolarmente quando si pensa al partito Pace e Democrazie, alleato degli indipendenti per riequilibrare la questione curda; disattendere le promesse potrebbe seriamente ostacolare ogni futuro sforzo da parte di Erdogan per conquistare la presidenza. Questa ricerca di dialogo rafforzerebbe senza dubbio le fondamenta democratiche di Ankara, con la possibilità di dare nuovo slancio ai negoziati con l’UE, in un momento in cui le relazioni con i vicini Paesi musulmani sono assai tese. In quest’ottica, una ridotta maggioranza può servire a rafforzare tanto Erdogan quanto la democrazia.
(Tratto The Commentator)