La vera Cina si nasconde dietro gli ori di Pechino

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La vera Cina si nasconde dietro gli ori di Pechino

13 Settembre 2008

Dovevano rappresentare l’Eldorado. Si stanno rivelando l’esatto contrario: le Olimpiadi di Pechino “sono state un vero disastro nazionale”. Più franco di così non potrebbe essere Padre Bernardo Cervellera, giornalista e autore di Missione Cina e Il rovescio delle medaglie (appena uscito per Ancora Edizioni), per anni missionario in Cina e attualmente direttore di AsiaNews, agenzia di informazione che fa capo al Pontificio Istituto Missioni Estere. 

Da una parte il grande boom economico, con una crescita del pil annua intorno al 10%, investimenti su vasta scala e industrializzazione forzata. Dall’altra lo sradicamento del popolo dalle campagne, la distruzione dei vecchi centri storici urbani, la cementificazione di ogni spicchio di terra, l’inquinamento atmosferico e l’aumento di chi non vive con un due dollari al giorno. “E’ proprio questo il rovescio delle medaglie, di cui cerco di parlare nel mio ultimo libro – esordisce Cervellera, intervenuto alla Summer School 2008 della Fondazione Magna Carta –. A fronte dello sviluppo commerciale e tecnologico, e degli introiti milionari di cui hanno goduto gerarchie di partito, businessman e sponsor di ogni risma, la popolazione di Pechino le Olimpiadi non le ha nemmeno viste. E i milioni di migranti, che da anni vengono deportati dalle campagne, molti dei quali sono stati impegnati nei lavori di costruzione del villaggio olimpico, sono poi stati cacciati”. 

Viene il sospetto che il modello capitalistico qualche responsabilità la abbia, e che forse debba essere rivisto. “Il mondo dell’economia e del business guarda solo al proprio tornaconto, in Occidente come in Cina – prosegue Cervellera – dove chi gode della crescita in atto sono 250-300 milioni di nuovi ricchi. E’ il capitalismo selvaggio che va combattuto, perché attualmente chi fa affari a Pechino e dintorni si comporta da predatore”. I diritti umani in soffitta, insomma, alla faccia di quanti pensavano di poter favorire con le Olimpiadi un clima di apertura. “Il nodo cruciale è la pretesa della Cina di differenziare da latitudine a latitudine i diritti che invece sono universali. Altro che effetti positivi, solo nel corso della manifestazione olimpica, per esempio, ci sono stati 310 casi di violazione della libertà di stampa, con l’oscuramento di molti siti non graditi”. Ad una globalizzazione esclusivamente economica e finanziaria, quindi, non corrisponde una globalizzazione dei diritti, anche per colpa dell’Occidente, perché “non si può sperare che la Cina cambi solo in virtù dell’apertura dei commerci, i nostri imprenditori dovrebbero essi stessi introdurre nelle fabbriche delocalizzate elementi di rispetto dei basilari diritti dei lavoratori. Alcuni lo fanno già, ma non bastano”.  

Certo, da alcune parti politiche, anche la Chiesa cattolica viene spesso accusata di non fare abbastanza in materia di diritti umani e di non prendere posizione contro il regime per pura convenienza e realpolitik. Si pensi al Tibet e al mancato incontro (in realtà mai ufficialmente in programma) tra Benedetto XVI e il Dalai Lama. Ma su questo Cervellera è tranchant: “Innanzitutto la Chiesa non rivendica in Cina uno spazio di lotta politica, ma il normale esercizio della libertà di religione e la possibilità di annunciare il messaggio evangelico. E poi il Papa nel 2006 ha inviato una lettera alle comunità cattoliche ufficiali – che fanno capo alle Associazioni patriottiche, quindi al regime – e a quelle sotterranee – che in materia religiosa accettano solo l’autorità del Pontefice – chiedendo libertà per tutte le confessioni, non solo per quella cattolica. La diplomazia vaticana segue la missione, direttamente proporzionale al messaggio evangelico che la stessa deve poter dare. Fintantoché la Cina non darà spazio all’annuncio di Cristo e alla sete di giustizia che esso porta, i rapporti rimarranno come sono”. 

Peccato, perché alcune indicazioni di disgelo avevano lasciato intravedere una speranza, come il messaggio di auguri alla Cina rivolto da Benedetto XVI nel corso delle vacanze estive a Bressanone, o la ancora più importante nomina del vescovo di Pechino Giuseppe Li Shan su indicazione del Vaticano. “E’ la dimostrazione che la leadership cinese soffre di schizofrenia, perché gli atti distensivi del Pcc verso Roma sono solo una carta da giocare per sedare gli animi e le rivolte, che in tutta la Cina ammontano ormai quotidianamente a circa 300”. 

Rivolte, e conseguenti persecuzioni, che non riguardano solo Pechino (dove, oltre al buddismo tibetano e al cristianesimo, sussistono ancora problemi con la minoranza uigura nella regione a prevalenza islamica dello Xinjiang), ma ultimamente anche alcuni stati dell’India, come l’Orissa. “La matrice sembra sempre la stessa e le similitudini sono notevoli. Nei due maggiori stati d’Asia le religioni vengono viste come fattore di incubazione di destabilizzazioni politiche e rivolte sociali: le persecuzioni scattano per un istinto di conservazione, in nome della difesa del potere costituito e del nazionalismo. Gli indù temono che i cattolici convertano l’esercito dei paria, mentre le gerarchie comuniste cinesi, che fanno capo a Hu Jintao, hanno paura che il cristianesimo tolga loro il controllo della vita e delle coscienze delle persone, e il Papa possa addirittura avere tentazioni golpiste”. 

Sembra fanta-politica, ma è la realtà del paese autoritario per eccellenza sopravvissuto all’89 (assieme a Cuba e Corea del Nord), il cui regime affronta la crisi più dura dai tempi della conquista del potere: incremento esponenziale del fattore religioso, con più di un terzo dei membri del partito che si dichiarano credenti, e grave crisi di adesioni al Pcc. Tanto che alcuni suoi esponenti arrivano a pronosticarne la fine in cinque anni. Ma non è tempo di Cassandre. Certo, purtroppo anche in Occidente, è solo il dramma dell’umanesimo ateo, di cui scriveva già nel 1944 Henri de Lubac. E’ questo il vero male da combattere. Sempre che di umanesimo in Cina si possa parlare.