La via cattolica alla modernità politica

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La via cattolica alla modernità politica

25 Maggio 2008

Modernità è termine ambiguo: difficile definirla e ancor più assegnarle un significato valoriale a priori positivo. In politica poi spesso accade che ciò che è giudicato ontologicamente “moderno”, improvvisamente si trovi a essere superato. E, di contro, che quel che sembra essere definitivamente condannato dalla storia, trovi inaspettatamente una nuova attualità. Alcuni esempi serviranno a chiarire l’assunto.
Nel campo delle dottrine politiche questa sorte è toccata al liberalismo. Nell’età delle ideologie forti, esso è apparso come il residuo di un secolo contraddistinto da un elitarismo di fondo inadatto all’età delle masse. Improvvisamente, con la fine del comunismo, la scena è cambiata al punto che si è persino potuto ritenere che l’approdo al liberalismo politico rappresentasse una sorta di fine della storia.
Nel campo dell’organizzazione della politica è accaduto qualcosa di simile. I vecchi partiti leggeri nei quali la componente istituzionale rivestiva una indiscussa centralità, parevano a tal punto superati da giustificare una teoria darwiniana che individuava nel modello di partito d’integrazione sociale una sorta di arrivo obbligato. Al punto che nella seconda parte del secolo scorso assai pochi avrebbero previsto che proprio la modernità sociale e tecnologica avrebbe riportato in auge forme d’organizzazione che apparivano ormai relegate nel dimenticatoio della storia.
Questi esempi debbono indurre alla prudenza. Per questo, chi come me ha il compito d’analizzare il rapporto controverso tra il cattolicesimo politico e la modernità, ha il dovere di specificare preventivamente a quale modernità si riferisca. Per l’argomento del nostro convegno il riferimento appare obbligatorio: si tratta di quella difficile e problematica modernità del sistema politico, che a lungo è stata il problema italiano e che solo di recente appare, finalmente, avviarsi a compimento. Le ragioni storiche di questo travaglio sono così note che qui possono essere riassunte in poche espressioni. Il fatto è che l’Italia, a causa della sua posizione geopolitica e della presenza del più forte Partito Comunista occidentale, è stato il Paese del mondo nel quale l’alternanza tra schieramenti contrapposti all’interno di un quadro di regole condivise, è rimasto più a lungo “bloccato”: solo nel 2001 è accaduto che un cambio di maggioranza governativa avvenisse come conseguenza del responso degli elettori. Quel che ai nostri fini è più interessante notare è che questo prolungato blocco del sistema si è per molto tempo determinato sfruttando la indiscussa centralità elettorale e politica della Democrazia Cristiana, che si presentava come il partito unico dei cattolici. Sicché, analizzare il rapporto tra il cattolicesimo e la modernità politica in Italia significa innanzi tutto dipanare un nodo: come il mondo politico cattolico si è rapportato con quella che è stata la specificità del nostro sistema politico e scoprire quale è stato il contributo – in positivo o in negativo – che da esso è venuto al suo superamento.

La D.C., i vecchi e i giovani.

E’ necessario, a tal fine, specificare innanzi tutto come nella storia repubblicana il rapporto tra la Democrazia Cristiana e il sistema politico non sia stato sempre lo stesso. E ciò sia perché un sistema in apparenza immobile ha subito dei mutamenti interni che hanno ridisegnato in modi differenti il suo blocco interno sia – e ancor di più – perché, con il succedersi delle generazioni, la cultura di riferimento del personale politico democristiano si è modificata.
Un libro di Maria Romana De Gasperi, che a lungo è stato anche un riferimento storiografico, s’intitola eloquentemente De Gasperi un uomo solo. Recenti contributi storiografici – mi riferisco in particolare alla biografia di Piero Craveri e allo studio sugli anni di formazione di Paolo Pombeni – hanno sostanziato quel titolo, spiegando come l’esperienza originaria di De Gasperi nel Trentino imperiale abbia fatto della sua vicenda politica un unicum. Si è così stabilito il paradosso per cui colui il quale negli anni della rifondazione del sistema politico è stato il leader conclamato della Democrazia Cristiana, era in realtà portatore di una cultura politica e di un’esperienza sui generis, che non trovava riscontri nei suoi seguaci.
Ciò non significa, però, che De Gasperi abbia stabilito una sorta di equidistanza tra le differenti generazioni cattoliche che, per dirla con Renato Moro, alla ripresa della vita politica dopo la caduta del regime fascista s’incontrarono ma non si riconobbero.
Per comprendere questo snodo ci vengono in soccorso le riflessioni che De Gasperi svolgeva nel secondo opuscolo dedicato alla rinascita della Democrazia Cristiana, datato 2 febbraio 1944. A giudizio del leader trentino, le antiche cautele che avevano sconsigliato nel 1919 l’esplicito richiamo al cristianesimo nel nome prescelto dal nuovo partito non erano  più attuali:
Ormai non sarà più lontano il tempo in cui si potrà stabilire con metodi democratici quale sia il nome più conveniente per un partito che è strumento di lotta politica e parlamentare; ma, comunque, è già chiaro fin d’ora che certi riguardi che si imposero nel passato,  hanno perduto importanza.  La questione dell’aconfessionalità, ad esempio, intesa come tendenza a non impegnare in rivendicazioni di politica concreta l’autorità ecclesiastica, non ha più risonanza dopo che i nuovi statuti di Pio XII circoscrivono esattamente la sfera di attività dell’ Azione Cattolica e i Trattati lateranensi, riconoscendo in pieno l’Italia unificata, hanno tolto per sempre ogni riserva richiesta in passato dal mancato accordo fra l’Italia e la Santa Sede.  I Trattati lateranensi vanno  difesi  soprattutto perché rappresentano la pace fra la Chiesa e lo Stato; ma tra le felici conseguenze di essi non è la minore quella di assicurare alla ricostruzione nazionale il libero e prezioso apporto  delle coscienze religiose .
Nel testo compaiono già, seppure articolate schematicamente, le posizioni che la DC avrebbe assunto negli anni successivi sulla necessità che la democrazia sia animata da una forte ispirazione religiosa: libertà piena per tutte le confessioni religiose presenti nella società italiana, ma, al tempo stesso, riconoscimento di un ruolo centrale per la Chiesa cattolica. Da quest’impostazione si faceva poi discendere il valore permanente degli accordi che nel 1929 avevano chiuso il suo dissidio con lo Stato italiano. La Conciliazione del 1929 avrebbe costituito una grande novità anche per l’impegno politico dei cattolici: più in consonanza con il periodo imperiale di De Gasperi, il partito che si accingevano a costruire non sarebbe più stato di «opposizione», ma potenzialmente nazionale e di governo. Così esso avrebbe potuto individuare e tutelare  gli interessi della Chiesa in Italia coniugandoli con i propri e, al tempo stesso, aprirsi all’apporto di forze sociali di matrice non esclusivamente cattolica; non avrebbe accettato supinamente le spinte provenienti dal campo ecclesiastico, ma le avrebbe filtrate e integrate all’interno di un disegno più complessivo e non meramente confessionale. Si stabiliva così, insomma, il superamento dell’aconfessionalità che aveva caratterizzato l’esperienza del popolarismo, senza che ciò conducesse a un mero confessionalismo.
De Gasperi in quelle stesse settimane presentava un promemoria alla segreteria di Stato vaticana, nel quale cercava di accreditare se stesso e il gruppo dirigente del nuovo partito come una garanzia essenziale per il futuro della presenza cattolica nella società italiana. La politica dell’immediato dopoguerra sarebbe stata inevitabilmente segnata da un orizzonte antifascista e dalla tendenza democratica: per questo, «nell’interesse della buona causa», sarà necessario che «i difensori di parte cattolica […] siano immuni da qualsiasi responsabilità del fascismo» e presentabili sotto il profilo democratico; per questo sarebbe stato preferibile che non fossero, sulle prime, giovani cresciuti sotto il regime, ma uomini dal passato nettamente antifascista (cioè, sostanzialmente, ex-popolari). Inoltre, «ammesso anche in teoria che i cattolici abbiano libertà di costituire diversi partiti politici, è necessario per l’eventuale necessità della Chiesa cattolica che almeno uno dei partiti sia forte e decisivo» . 
De Gasperi avvertì da subito e nettamente il distacco culturale fra la generazione degli ex popolari e quella dei giovani cattolici cresciuti durante il fascismo, quelli che saranno poi i “professorini”: Dossetti, Moro, Fanfani. I giovani – affermava –  che «in gran parte non erano legati  al dilemma fascismo-antifascismo» . Quei giovani cioè, per quanto non fossero giunti alle conseguenze auspicate, erano appartenuti alla “generazione integralmente fascista”. Per ragioni anagrafiche non avevano potuto vivere la fase dell’alternativa e della lotta, ma solo quella in cui il regime costituiva l’unica realtà, con la quale –  bene o male – si dovevano fare i conti, trincerandosi al più in un afascismo.
Le differenze con la generazione dei politici cattolici precedente furono di diversa natura. Ma ce n’è una che, vista retrospettivamente, appare fondamentale. Essa consiste nel rapporto con l’esperienza liberale. Questa esperienza era stata vissuta, sebbene criticamente, dai popolari; era invece assente dal bagaglio dei cattolici di seconda generazione, provenienti sia dall’Azione cattolica, sia dai movimenti intellettuali a essa collegati, sia dall’Università cattolica plasmata all’opera di padre Gemelli.
Il punto è stato già colto da Augusto Del Noce nel 1960, mentre febbrilmente si lavorava per l’apertura a sinistra. In quelle temperie, l’avversario vero del “degasperismo” appariva a Del Noce colui che era stato per un lustro il nuovo padrone della Dc, Amintore Fanfani e che anche la storiografia più recente induce a presentare come una sorta di successore designato, omettendo di ricordare quanto di obbligato vi fosse, in realtà, in quel passaggio di consegne.
Come sua abitudine, il filosofo torinese non si fermava alle prese di posizione, ma cercava di rinvenirne le radici culturali e – in senso lato – “filosofiche”. Così l’ostilità di Fanfani al mondo liberale chiamava in causa ai suoi occhi la linea culturale dell’Università Cattolica, dove il politico aretino si era formato fra le due guerre. Anzi, in questa linea, Del Noce giungeva a chiedersi se “il fanfanismo non fosse altro che la forma necessaria in cui la linea culturale promossa dall’Università Cattolica ha raggiunto la realtà politica italiana”. Seguiamo le scansioni principali del suo ragionamento.
Il padre Gemelli e i suoi collaboratori avevano individuato il loro avversario fondamentale nell’idealismo, soprattutto nella forma gentiliana. Ma come di frequente accade in questi rapporti simbiotico-conflittuali, essi avevano finito per “mutuare qualcosa dall’avversario pur nell’opposizione”: l’idealismo italiano si presentava allora come la più alta consapevolezza filosofica del liberalismo? Ebbene Gemelli e i suoi avevano fatto propria questa identificazione e la loro lotta contro l’idealismo si era convertita, sul piano politico, in polemica anti-liberale. Per un uomo come Fanfani, che si era nutrito di quella cultura, il mondo liberale restava qualcosa di completamente superato sul piano della cultura politica e delle prospettive storiche. Da qui anche la sua estraneità rispetto alla tradizione del “popolarismo” prefascista di Sturzo. Questa impostazione aveva in comune con la cultura vociana e poi attualistica e col fascismo – che la derivò da esse – la svalutazione dell’Italia liberale. Giudizio che nel caso dell’Università Cattolica si esprimeva nella svalutazione anche del cattolicesimo liberale, responsabile di ridurre la religione a fatto di coscienza personale e privato e, per questo, portatore di una politica priva di afflato religioso, puramente clientelistica, incarnata principalmente da quelli che Weber avrebbe designato come “i notabili”.
Per Del Noce questa polemica anti-liberale aveva dettato e continuava a dettare le alleanze politiche: dopo il 1929 un fascismo “dissociato così dalle ricomprensioni laicistiche (Gentile e gentiliani) come dall’involuzione nel neopaganesimo nazista”, e poi, fallita la speranza nel fascismo, un socialismo dissociato dal marxismo: “Dopo questa dissociazione, tale socialismo non potrebbe non diventare l’alleato naturale di una posizione politica non più legata a una parte conservatrice, oggi fatalmente ridotta a essere conservatrice di un mondo liberale e borghese che si è formato in antitesi col cattolicesimo” . Negli anni Trenta Fanfani era passato attraverso il primo momento, agli inizi degli anni Sessanta si stava avviando ad inaugurare il secondo.
Da quest’analisi si può desumere una prima conclusione: la distanza tra De Gasperi e i giovani che gli sarebbero succeduti alla guida del partito si sconta innanzitutto nel deficit originario di cultura liberale dei democristiani di seconda generazione che, per questo, non fecero mai loro il liberalismo di ispirazione cristiana proprio del leader trentino. Quando poi la vita all’interno del nuovo partito cattolico si organizzò per correnti, la provenienza generazionale, per forza di cose, si diluì in raggruppamenti trasversali. Ma non di meno rimase come cifra culturale che all’interno di un medesimo gruppo organizzato distingueva quanti provenivano dal popolarismo da quanti, per età, si candidavano a prendere il testimone dalle loro mani. Questa distanza culturale ebbe anche una sua declinazione politica. Ed è questo l’altro aspetto sul quale si dovrà ora riflettere.

La D.C., il 1948 e il suo superamento.

In questa prospettiva non si può fare a meno di tornare al 18 aprile 1948, quando la strategia degasperiana conobbe la sua prima fondamentale verifica. Ai fini della nostra analisi va sottolineata una caratteristica fondamentale di quella scadenza: allora l’elettorato si trovò di fronte a una scelta dirimente di civiltà, ma per altro verso poté esprimersi “naturalmente”, senza vincoli di sistema come poi non fu più possibile. In altri termini: il voto del 1948 segnò la fine della contesa sulla parte del mondo nella quale l’Italia avrebbe dovuto collocarsi. Da allora iniziò a mettersi in moto quel sistema di precauzioni e di regole non scritte che ha reso storicamente possibile la durevole appartenenza del nostro Paese al mondo atlantico, pur in presenza del Partito Comunista più forte dell’Occidente.
La storiografia e la memorialistica hanno dovutamente evidenziato l’importanza che nell’occasione ebbe la mobilitazione cattolica che si espresse, sin dagli anni precedenti, non solo attraverso il partito e le organizzazioni tradizionali del laicato cattolico, ma anche tramite organizzazioni nuove come i Comitati civici di Luigi Gedda e Alleanza italica di mons. Ronca. Queste analisi non debbono però far dimenticare che  nel voto democristiano del 18 aprile ci fu anche altro: un voto sociologicamente "di destra", espressione di un anti-comunismo avvertito a livello esistenziale ancor prima che a livello ideologico, confluisce allora nella DC, anche grazie all’abilissima politica condotta da De Gasperi dalla fine del 1946: quella che aveva determinato l’apertura al c.d. “quarto partito”, l’esclusione dei comunisti dal governo e quindi la conquista del monopolio dell’anticomunismo anche attraverso il progressivo assorbimento del qualunquismo che, su questo terreno, rappresentava il più pericoloso concorrente.
Questa più articolata realtà elettorale trovava traduzione nella politica di De Gasperi, in prospettiva più strategica che tattica, nella collocazione del partito e, più ancora, nella politica delle alleanze. Per dipanare il nodo ci viene in aiuto, una volta di più, una riflessione di Del Noce. Scriveva Del Noce nel 1957: «De Gasperi, cioè, sentì, e fu l’unico, il quadripartito in una forma sostanzialmente simile a quella in cui l’azionismo aveva visto il CLN: come un’unità ideale, non come una semplice unità di fatto che raggruppasse forze eterogenee in opposizione a un determinato avversario. Esso gli appariva come una specie di CLN ristretto, in cui meglio si ritrovava il senso originario della lotta della libertà contro i totalitarismi, dopo aver denunciata l’alleanza, che si era accettata per ragioni belliche, con uno di questi» .
Nell’accordo con liberali e socialdemocratici, dunque, il De Gasperi dei primi anni Cinquanta non scorgeva solo una necessità imposta dalle cose, ma un ideale politico. Non casualmente, in uno dei suoi ultimi discorsi indicava così il compito comune al liberalismo, al socialismo democratico e al cristianesimo politico:
Se con Toynbee io affermo che all’origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo, non intendo con ciò introdurre alcun criterio confessionale esclusivo nell’apprezzamento della nostra storia. Soltanto voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica […] Dunque, nessuna delle tendenze che prevalgono nell’una o nell’altra zona della nostra civiltà può pretendere di trasformarsi da sola in un’idea dominante ed unica dell’architettura e della vitalità della nuova Europa, ma queste tre tendenze opposte debbono insieme contribuire a creare questa idea ed alimentarne il libero e progressivo sviluppo .
La «nostra storia», la «nostra civiltà»: ad esse, a giudizio di De Gasperi, non appartenevano il comunismo bolscevico e i partiti occidentali di osservanza sovietica, con cui era stata necessaria una collaborazione temporanea dettata una «necessità di salute pubblica», come aveva scritto in una lettera a Sturzo del 12 novembre 1944, ma risultava impossibile un rapporto organico di collaborazione governativa.  Ma De Gasperi era sostanzialmente solo a concepire il centrismo in questo modo. E’ probabile che qualcuno dei suoi più diretti collaboratori – cattolici e laici – l’avvertissero in quel modo. Ma in molti degli ambienti che contavano non era così. La cultura laica (si pensi al gruppo del «Mondo»)  lo aveva lealmente sostenuto, ma il centrismo era stato dai più considerato come una situazione di emergenza: un risentito laicismo aveva per lo più impedito di avvertire un qualche comune denominatore col vario cattolicesimo italiano. Analogamente la più vivace cultura democristiana – innanzi tutto quella dossettiana -, aveva vissuto con disagio la collaborazione con liberali e repubblicani, identificati con quella “civiltà occidentale” a cui guardava con grande diffidenza. Insomma: il centrismo non fu capace di presentarsi come “una soluzione di principio”, ma come una sorta di miscela in cui le componenti mantennero sempre una loro irriducibile diversità.
Si può aggiungere un’osservazione finale: è ipotesi plausibile che il successo della legge maggioritaria nelle elezioni del 1953 avrebbe  trasformato l’alleanza rendendola “strategica” e avrebbe, quindi, contribuito ad amalgamare anche culturalmente le sue componenti. La sconfitta, di contro, sortì un differente effetto di lungo periodo: non riuscita la blindatura della maggioranza, diventò essenziale il voto alla DC in difesa del sistema. Così  l’elettorato non ebbe più la possibilità di esprimersi liberamente né di determinare più di tanto l’indirizzo politico della nazione. A lungo per una gran parte degli italiani "voto utile" ha significato il suffragio a favore della Democrazia Cristiana, come garanzia e conferma di ciò che si era fissato nel 1948. Col paradosso che un voto “sociologicamente” di destra ha sostenuto un partito che si stava avviando a una politica progressista e programmaticamente (e non storicamente) antifascista.

Il divorzio tra cattolicesimo politico e liberalismo.

E’ dopo il 1953, dunque, che lo iato fra il mondo politico cattolico e la cultura laico-liberale si fa incolmabile. E le responsabilità di quest’esito, sullo sfondo di un’apertura a sinistra avvertita sempre più darwinianamente come necessità, vanno ricercate su entrambi i versanti.
La fase dell’apertura a sinistra, infatti, imponeva alla cultura laica, che aveva appoggiato il centrismo e che ora propugnava la nuova formula di governo, alcune correzioni di tiro: l’avversario principale ora non era più il comunismo (e, infatti, le loro reazioni alla crisi comunista del 1956 furono piuttosto caute, preoccupati com’erano di non confondersi alla campagna delle destre e della Dc), ma quei settori della Dc e della Chiesa italiana che si opponevano all’apertura verso i socialisti. Da qui derivava un’esasperazione del loro laicismo, che diede vita nella seconda metà degli anni Cinquanta a una serie di grandi campagne anticlericali, e determinò il recupero deciso dell’antifascismo: bisognava opporsi a una possibile alternativa sulla destra al progettato centro-sinistra e quindi accentuare l’antagonismo fra i partiti dell’arco costituzionale e la destra monarchica e missina. Non che l’antifascismo non fosse presente nel pedigree di questi ambienti, ma esso era stato declinato per anni in prospettiva più storica che programmatica e in simbiosi con l’anticomunismo. Ora, invece, l’antitotalitarismo declinava e esso assumeva sempre più una rilevanza autonoma, mentre il “pericolo” comunista cominciava ad essere sistematicamente ridimensionato.
Questa deriva si combina, nei suoi effetti politico-culturali, con l’emersione del “progressismo cattolico”. Non che si trattasse di una novità assoluta. Il progressismo cattolico, infatti, affonda le sue radici nella cultura francese degli anni Trenta, in quel grande bouleversement politico-culturale che seguì alla condanna dell’Action française da parte di Pio XI dal quale derivò prima una nuova lettura della storia moderna e poi la stessa fedeltà alla tradizione antifascista.
Ma il cattolico progressista del 1960 come comincia a leggere Maritain? Innanzitutto ne accetta ed enfatizza  la liquidazione del  «cattolicesimo sociale», cioè di un movimento sociale cristiano che realizzi quella che si chiama la dottrina sociale della Chiesa.   Nella concezione maritainiana, il ruolo politico della Chiesa viene lasciato in ombra e sostituito con l’impegno temporale dei cristiani, ma come singoli e al più come gruppi e come formazioni politiche, non come comunità di credenti. Alla Chiesa rimane solo lo spazio della liturgia, dell’ascetica e della contemplazione. Ne deriva che per il cattolico progressista nella storia possano agire solo forze umane, con le quali la realtà cristiana può collaborare,  ma non in quanto tale, bensì solo come elemento di progresso civile e sociale. Tutto l’impegno temporale del cristiano è così proteso all’attuazione dell’ideale democratico, incentrato sul rispetto della persona umana e dei suoi diritti. E la democrazia, purificata da interpretazioni erronee, diviene l’attuazione del cristianesimo sul piano storico, la sua unica possibile visibilità. Ciò, contro le intenzioni dello stesso Maritain, è alla base di quella socializzazione del messaggio evangelico della quale parla Joseph Ratzinger, alla quale avremmo assistito negli anni Sessanta: il temporale diviene una prospettiva d’impegno esclusiva e, rispetto ad esso, lo spirituale si trova così a rivestire una posizione puramente accessoria e subordinata. In questa prospettiva, al cattolico progressista avviene ciò che Padre Gemelli e i suoi discepoli rimproveravano al cristianesimo liberale: la fede viene rinchiusa nel ghetto della coscienza. E l’unico modo “legittimo” che essa ha di manifestarsi diviene l’impegno politico “democratico”. In tale impegno, il cattolico democratico si incontra naturalmente con altri non credenti che però condividono con lui le medesime aspirazioni. Per questo, a partire dagli anni Sessanta, l’orizzonte politico dei cattolici democratici fu, in Italia, la cultura dell’antifascismo, l’idealizzazione dell’esperienza resistenziale, il bisogno di riprendere lo spirito del CLN, il culto del momento costituente e della Costituzione, la mitizzazione oltre la verità storica dell’accordo sull’articolo 7: insomma, il dialogo con il PCI.
Da questo punto di vista, il progressismo cattolico si inserì a pieno titolo nel clima generale degli anni Sessanta, rivelandosi, anche allora, un corpo meno “separato” di quello che talora si continua a pensare. Al suo interno, negli stessi anni, si svolsero una serie di processi culturali in qualche modo paralleli a quelli che avevano luogo nella cultura “laica”, e con esiti non dissimili.  Anche per il progressismo cattolico italiano, che aveva la sua punta di diamante nella cultura dossettiana, il problema fondamentale era costituito dal favore che la Chiesa  aveva accordato ai movimenti fascisti: esso non poteva essere considerato – si sosteneva –  come un fatto accidentale, che non avesse ragioni lontane. Da qui derivò una visione critica della storia della Chiesa in età moderna, nella quale si cominciava a vedere essenzialmente un limite: l’istituzione ecclesiastica si sarebbe posta generalmente dalla parte della “reazione”, per cui le sue illusioni rispetto al fascismo altro non erano che la conclusione di una sorta d’autobiografia dell’istituzione. Questo errore sarebbe corrisposto, nelle sue radici ultime, a un difetto teologico che risaliva alla Controriforma e al concilio di Trento: da qui la necessità di una complessiva riforma della Chiesa -teologica, pastorale, strutturale – e le speranze riposte nel Concilio Vaticano II.
Tutto ciò aiuta a capire perché, per una parte di questo mondo, ben oltre le sue pur rilevantissime decisioni, il Concilio divenne una sorta di mito collettivo, carico di “ottimismo” (contro i “profeti di sventura” che avevano sempre condannato il mondo moderno), di contestazione “dal basso” della gerarchia e di aspirazioni a un diffuso rinnovamento. Il Concilio si trasformò così nel mito di un nuovo inizio. E tale interpretazione si inserì perfettamente nel clima degli anni Sessanta, aprendo una spirale vorticosa fra il nuovo progressismo cattolico e il rivoluzionarismo emergente nella cultura laica e marxista. Come, in quegli anni, le chiese si liberarono di altari, balaustre, crocifissi, statue di santi, arredi sacri, quadri finiti nei magazzini di antiquari, così si riteneva che tutta la tradizione della Chiesa del secondo millennio – dall’età gregoriana, in cui più nettamente era emerso il primato petrino ed era cominciata la sua contaminazione-scontro col potere politico, fino a Pio XII – andasse messa in discussione e in qualche modo liquidata.
Sono noti gli atteggiamenti diffusi che scaturivano da questi presupposti: un confronto ravvicinato con la “modernità” e un pieno inserimento nel secolo, che ne accettasse le forme mentali e i risultati;  l’insofferenza crescente per il moderatismo politico, la scelta degli ultimi (socialmente parlando) e il confronto ravvicinato col marxismo, nel quale si individuava lo sbocco della cultura “moderna” .
Queste “evoluzioni parallele”, che si compiono sia sul versante laico sia su quello cattolico, portano a trarre ulteriori conclusioni. Come si è visto, sul versante laico la prospettiva del centro-sinistra veicola in ambito politico-culturale il recupero dell’antifascismo come visione del mondo e della storia e, di conseguenza, un orizzonte intrinsecamente “progressista” e  una concezione tecnocratica e neo-illuministica della società. Il mondo democristiano contrappone a tale visione qualcosa di significativo sul piano economico ma, per il resto, resta piuttosto afono, consegnando l’egemonia a quel cattolicesimo progressista che, per la maggior parte, si oppone al suo ruolo politico e che, al più, vede nell’esperienza di centro-sinistra un momento di transizione verso il ritorno alla collaborazione con i comunisti. Deriva proprio da qui un paradosso. Si può oggi affermare che, per molti versi, la presunta “modernizzazione religiosa” che si esprime attraverso la mitizzazione del Vaticano II, contribuisce a rallentare e a ritardare la “modernizzazione politica”: lo strutturarsi – pur in vigenza di guerra fredda -, come in Francia, di un sistema politico tendenzialmente bipolare. E quindi dell’emergere di una sinistra, ma anche di una destra di governo. Di una necessaria riforma  costituzionale, funzionale a offrire all’elettorato la possibilità di tornare a esprimersi liberamente e di tornare a determinare l’indirizzo politico della nazione. Da un punto di vista della cultura politica, il progressismo cattolico, dunque, produce effetti consociativi ed è ultra-conservatore in materia costituzionale.

Il superamento del “papato italiano”

Prima di giungere alle conclusioni sulle opportunità e i limiti del rapporto tra Chiesa e politica nel nuovo Secolo, va ripreso un ultimo aspetto del tema che ci è stato assegnato: come evolve il rapporto tra Chiesa e Democrazia Cristiana nella seconda metà del Novecento. E qui, per forza di cose, l’analisi non potrà che essere schematica e paurosamente approssimativa, limitandosi a segnalare quelli che a nostro avviso rappresentano gli snodi sui quali la ricerca storica dovrà soffermarsi.
Avevamo richiamato all’inizio dell’intervento l’impostazione degasperiana: superamento dell’aconfessionalismo in favore di una visione crisitiano-liberale; immissione di quegli elementi che, interagendo con le condizioni storiche, avrebbero determinato la realtà del “partito unico dei cattolici”. Con la prima segreteria Fanfani  che va dal 1954 al 1959, qualcosa però comincia a mutare nei rapporti fra DC, mondo cattolico e Chiesa italiana.
Fanfani da un canto non esita a spendere la carta strumentale della disciplina cattolica per conquistare un pieno controllo del partito, dall’altro cerca di poggiare le fondamenta della DC anche su basi diverse. In particolare muove alla conquista di vaste aree dell’industria pubblica, del parastato e del terziario.
Per alcuni versi si può anche dire che in questa fase si determini un’asimmetria: la DC comincia ad avere meno bisogno della Chiesa ma non esita a “strumentalizzarla” al fine del consenso elettorale, mentre per  la Chiesa la DC resta interlocutore privilegiato e l’unica sponda valida per la tutela dei suoi interessi in Italia. Anche per questo essa, dopo un lungo braccio di ferro e nonostante contrasti non irrilevanti al suo interno, finisce per accettare il centro-sinistra e deve puntare ancora sul “partito cattolico” per la gestione dei primi passi della revisione concordataria che s’inaugura dopo il 1967.
I costi che la Chiesa deve pagare per il determinarsi di questa nuova situazione possono apprezzarsi, in particolare nella vicenda del divorzio. Se, infatti, dal 1969 al 1971 è soprattutto la Santa Sede che si muove di fronte a una DC esitante anche per i pesanti contraccolpi che sulle sue alleanze e sui governi la questione sta provocando, dopo il ritorno di Fanfani alla segreteria del partito nel giugno del 1973 è la DC che punta a una estremizzazione dello scontro, per ricompattare il partito e rilanciare la sua “autosufficienza”. La Chiesa, nella circostanza, resta in fondo subalterna alla “ragion di partito”. E, come se non bastasse, paga anche il fio d’essere indicata da Fanfani come la prima responsabile dell’insuccesso, a causa delle divisioni interne provocate dal radicarsi del “progressismo cattolico”. Forse anche per questo il travaglio che si apre al suo interno dopo il 1974 sulle derive della secolarizzazione inevitabile e sui suoi possibili effetti politici, descritti in chiave metaforico-romanzesca nel Todo Modo di Leonardo Sciascia, si compiono in uno spazio separato, investendo solo marginalmente la riflessione del partito cattolico. In altri termini: non sembra proprio che le vicende interne ad Azione cattolica che avrebbero contribuito alla nascita di Comunione e Liberazione e, più in generale, l’ultima drammatica fase del pontificato di Paolo VI della quale ci resta immagine viva nella testimonianza di Don Giussani, abbiano trovato corrispettivi altrettanto intensi nel dibattito che si inaugurò allora all’interno della DC.
Un ultimo drammatico esempio di questo intreccio complesso fra Santa Sede, DC e politica italiana ci è dato dalle tragiche vicende del caso Moro.  Com’è noto, lo statista democristiano prigioniero delle Brigate Rosse, non esita a  coinvolgere il suo antico maestro, Paolo VI, che era stato assistente spirituale della Fuci quando lui era Presidente. Ed è anche nota la sofferenza del Papa nell’appoggiare la linea della “fermezza” del governo presieduto da Giulio Andreotti, che di Moro in quella stessa Fuci era stato prima vice-presidente e poi successore.
Non è improbabile che anche tale vicenda dalle tinte shakespeariane abbia fatto avvertire al Collegio cardinalizio l’esigenza di guardare oltre l’orizzonte italiano nella scelta del successore di Montini. E dopo l’elezione di Luciani – che metaforicamente e a posteriori diviene quasi un emblema del breve respiro di cui ormai gode “l’ipotesi “italiana” -, si giunge così all’elezione di Karol Wojtyla.

Il nuovo secolo.

Da questo momento in poi nel rapporto tra la Chiesa e il mondo politico italiano si mette in moto un processo che lentamente, ma inesorabilmente, avrebbe determinato il passaggio da una logica di relazioni in prevalenza bilaterali a un inedito multipolarismo. Paradossalmente, è proprio la complessiva perdita di peso della Chiesa nella società italiana a produrre, già nel corso degli anni Ottanta, un moltiplicarsi dei suoi punti di riferimento in partiti anche diversi dalla DC, facendo intravedere un diverso orizzonte strategico. Si consideri, a proposito, l’interesse e la lungimiranza con la quale da un punto d’osservazione solitamente assai prudente come La Civiltà Cattolica guardò alla Lega Nord quando questa era ancora agli albori. E, si può più generalmente affermare, queste dinamiche si rafforzarono a  mano a mano che la crisi del tradizionale sistema dei partiti andò approfondendosi. Tutto ciò non significa affatto che la Chiesa abbia rinunziato spontaneamente a difendere l’unità politica dei cattolici in un partito solo. Nondimeno, si può affermare che già nel corso degli anni Ottanta furono attive le dinamiche che avrebbero caratterizzato il rapporto fra religione e lotta politica nel decennio successivo.
Il vero punto di svolta si ebbe con la caduta del Muro e la conseguente crisi del sistema politico italiano. Nonostante l’influenza di un Papa che aveva vissuto la Chiesa del silenzio e che per questo era del tutto estraneo al rapporto di mediazione che si era stabilito tra la Chiesa e la DC, per la Chiesa italiana l’illusione che l’unità dei cattolici in un unico partito potesse continuare a garantire la mediazione necessaria ad assicurarle un più alto grado d’influenza sociopolitica, durò a lungo. Essa subì più che assecondare il cambiamento. E questa renitenza, come si vedrà, ha prodotto conseguenze che giungono fino a oggi.
Solo a partire dalla scissione consumatasi in seno al PPI nel 1995, la Chiesa prende definitivamente atto della situazione; ma è da questo momento che si genera un conflitto sotterraneo fra due tendenze contrapposte. Da una lato si enuclea la linea, egemone nelle alte gerarchie ecclesiastiche, che è rappresentata dal Cardinale Camillo Ruini, decisa a procedere lunga la strada del  “progetto culturale” varata in occasione del convegno ecclesiale di Loreto attraverso l’instaurazione, sulle questioni di fondo della fede, di un rapporto più diretto con la società civile. Per conseguire questo obiettivo ad ampio spettro, quanti sostengono tale propensione non vorrebbero perdere il contatto con quei cattolici che si sono politicamente riconosciuti nello schieramento di centrodestra, e in particolare nelle nuove formazioni che le elezioni politiche dell’anno precedente avevano portato alla ribalta. Sull’altro versante si contrappone la linea impersonata anzitutto dall’arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, maggioritaria nella Chiesa diffusa. Essa riunisce quanti sono invece convinti che la fine del comunismo avrebbe consentito ai cattolici di prendere la testa dello schieramento progressista, sviluppando finalmente quel rapporto privilegiato con la sinistra insito nelle intenzioni del cattolicesimo sociale del dopoguerra, e in seguito frustrato dall’avvento della guerra fredda. Di qui l’appoggio alla nascita dell’Ulivo sotto la leadership di Romano Prodi.
Questa tensione sotterranea si è prolungata fino ai giorni d’oggi. Essa, però, ha interagito con un processo più di fondo anch’esso attivato dal nuovo secolo, per il quale lo schieramento progressista – non solo in Italia ma da noi con contraddizioni meno celabili – è stato interessato dall’assunzione del “laicismo” inteso come ideologia sostitutiva di quelle sconfitte, che porta con sé la presunzione fatale di concedere all’individuo, attraverso il diritto, la possibilità di determinare ogni fase del suo ciclo vitale, dal concepimento fino alla morte. E’ questa, mi sembra, ridotta alla sua essenza, la “sfida antropologica” della quale parla il Cardinal Ruini.
Il fallimento del tentativo di governare questa dinamica attraverso il vecchio schema “separatista” – praticato con la più ampia consapevolezza da Rosy Bindi al momento del varo dei “Dico” – ha prodotto una evidente crisi nel rapporto tra l’elettorato cattolico e la sinistra. E ha portato, alla vigilia delle ultime elezioni, al confronto tra tre differenti modelli per gestire il rapporto tra cattolici e politica, tutti e tre ancora in gran parte irriflessi.
Quello della sinistra si colloca nel solco del relativismo culturale, sorretto dalla convinzione che sui temi c.d. “biopolitici” esistano differenti verità tutte degne di rappresentanza tra le quali, al più, il partito deve limitarsi a esercitare una mediazione. Quella dell’Udc ripropone, sebbene in versione minoritaria e ridotta, l’ambizione a un partito che sia il rappresentante privilegiato dell’elemento cattolico. Quella del PdL, infine, oscilla tra l’aspirazione a interpretare la tradizione del popolarismo europeo attraverso l’assunzione di precisi impegni programmatici che valgano per tutti i suoi membri credenti o non credenti che essi siano e la illusione, presente in alcuni suoi ambiti, di poter anestetizzare il problema rifugiandosi nella “libertà di coscienza”.
Questo quadro rende comprensibile la prudenza e persino l’apprensione della Chiesa italiana. E’ necessario, però, che essa trovi la forza di non voltarsi indietro, confortata in ciò da una nuova classe politica consapevole dell’occasione storica alla sua portata. La fine del prodismo e il fatto che l’elettorato cattolico si sia schierato in buona parte col centro-destra – nella sua base, non certo nelle sue strutture organizzate – ha segnato il fallimento del disegno martiniano e, più in generale, della linea politica del cattolicesimo progressista dell’ultimo sessantennio. La Chiesa italiana, però, ha ancora difficoltà a rinunziare del tutto a un partito che la rappresenti in temporalibus. Valga, a tal proposito, la polemica sollevata da alcuni suoi ambienti, tendente a rappresentare il Berlusconi IV come il primo governo della Repubblica senza cattolici. Sarebbe più attinente alla verità storica  affermare che si tratta in realtà – con l’eccezione di Gianfranco Rotondi – del primo governo senza democristiani o senza ex democristiani. La vera questione, però, non è questa. Quanto quella di verificare se un ministero in cui vi sono molti uomini e donne “culturalmente” cattolici saprà rispettare gli impegni programmatici assunti e interpretare una fedeltà ai principi del cristianesimo su molte questioni c. d. “eticamente sensibili”, anche a prescindere dall’esistenza di rapporti organici col cattolicesimo organizzato.