La vicenda Murdoch dimostra che sulle intercettazioni Travaglio ha torto

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La vicenda Murdoch dimostra che sulle intercettazioni Travaglio ha torto

20 Luglio 2011

“If you have nothing to hide you have nothing to fear”. Se non hai niente da nascondere, non hai nulla da temere. L’abbiamo cercata su tutta la stampa inglese l’espressione principe di Marco Travaglio e dei suoi emuli, ma non l’abbiamo trovata in nessun commento pubblicato in questi quindici giorni, nei quali lo scandalo delle intercettazioni illegali e dell’uso illegale di intercettazioni di polizia è la notizia di cui si occupa tutta l’informazione britannica.

Non solo, non abbiamo trovato neppure un giornalista che agitasse il sillogismo principe invocato dai direttori dei quotidiani italiani per giustificare le pagine di intercettazioni gratuite (perché almeno il settimanale di Murdoch doveva spendere) con cui si spubblicano vite intere. E cioè quel sillogismo ipocrita e codino secondo il quale (premessa maior) una intercettazione comunque è una notizia, i giornalisti se hanno una notizia devono pubblicarla (premessa minor) e dunque tutte le intercettazioni vanno pubblicate (conclusione). Dove le premesse sono false entrambe e la conclusione è stupida e un po’ vile.

Naturalmente qualcuno argomenterà che non si possono fare confronti. Che un conto sono le intercettazioni legali, disposte dal magistrato e rese pubbliche al momento in cui gli atti giudiziari sono a disposizione delle parti processuali e un altro le intercettazioni illegali, realizzate da investigatori privati su commissione di ricchi settimanali del magnate dei media Rupert Murdoch. E che, se qualcuno in Italia mettesse in atto un sistema di intercettazioni illegali, sarebbe duramente perseguito proprio dai magistrati.

Il che non è per nulla vero, come dimostra platealmente il caso di Gioacchino Genchi, il consulente informatico di molte procure che ha realizzato un archivio privato di tabulati telefonici e di accessi illeciti al sistema informativo dell’Agenzia delle Entrate, radiato dalla polizia di Stato per i suoi comportamenti considerati incompatibili con la lealtà allo Stato repubblicano e invece scagionato per aver conservato i tabulati assunti attraverso lo svolgimento del suo lavoro di consulente, come se un perito del tribunale potesse tenere a casa le armi usate per i delitti di sangue e su quelle svolgere privatamente altre indagini. E per chi avesse perduto una delle ultime puntate della storia di Genchi, ricordiamo che il suo ultimo libro è aperto da una prefazione di Marco Travaglio.

Ma non è soltanto la paradigmatica storia di Giocchino Genchi a falsificare la tesi degli adoratori delle intercettazioni telefoniche.

Il fatto è che per un uso illegale delle intercettazioni anche legali, in Inghilterra si sente costretto a chiudere un settimanale in edicola da 168 anni, il suo editore deve dare spiegazioni al Parlamento, il direttore editoriale viene arrestato, i vertici dei Scotland Yard sono costretti alle dimissioni, il primo ministro viene messo in discussione per i suoi rapporti con i giornalisti e l’editore.

Come ha scritto oggi Bill Emmott su La Stampa: “La polizia è sotto inchiesta, come istituzione, sia per non aver applicato correttamente la legge sulle intercettazioni telefoniche, sia perché accusata di essere stata pagata da giornalisti e investigatori privati per avere informazioni, cosa che è illegale. Queste indagini sono scioccanti ma non del tutto nuove. La Gran Bretagna ha già avuto in passato scandali e indagini sulla corruzione nella polizia. Quelli precedenti riguardavano tangenti versate da bande criminali. Lo shock di queste accuse è l’idea che la polizia possa aver venduto informazioni private su gente comune, persone che dovrebbe proteggere”. Non è un caso, purtroppo, che queste parole su un giornale italiano le debba scrivere un giornalista britannico.