La violenza politica da Tocqueville al pugno a Capezzone

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La violenza politica da Tocqueville al pugno a Capezzone

La violenza politica da Tocqueville al pugno a Capezzone

01 Novembre 2010

Nella sua magistrale analisi della ‘Violenza politica’, ripresa ne Le forme del potere (Ed. Guida 1974), Mario Stoppino, il prestigioso scienziato politico dell’Università di Pavia, prematuramente scomparso nel 2001, scriveva che l’insorgenza dell’agire violento: «ha di solito come matrice una situazione soggettiva di svantaggio e di ingiustizia, ma la sua causa immediata sembra risiedere soprattutto nella percezione, da parte del gruppo che la usa, che la situazione generale di potere può essere modificata, e la propria posizione contrattuale nei rispetti degli altri gruppi sensibilmente migliorata, con il ricorso all’azione violenta. La violenza interna, e la sua minaccia, è perciò il metodo ultimativo per saggiare le energie e la determinazione delle altre forze sociali, per provare la vitalità delle istituzioni e dei valori dominanti, o per dimostrare la necessità e la legittimità del cambiamento. In tale quadro, due importanti condizioni che favoriscono lo scoppio della violenza ribelle o rivoluzionaria sono, da un lato, il fatto che il gruppo che vi ricorre non ha altre risorse positive: canali pacifici per conseguire i beni materiali o ideali ai quali crede di avere diritto, e che altri gruppi ottengono pacificamente con mezzi normali e non distruttivi; e, dall’altro, il fatto che il gruppo ha poco nulla da perdere con il conflitto aperto, perché i beni materiali e ideali di cui dispone sono poca cosa, in senso assoluto e/o in rapporto a quelli che conta spera di ottenere per mezzo della violenza».

 

E aggiungeva che se «lo scopo più ovvio e diretto dell’impiego della violenza è di distruggere gli avversari politici e metterli nell’impossibilità fisica di agire con efficacia» va rilevato che «molto più comune è l’uso della violenza non per distruggere gli avversari politici ma per piegarne la resistenza e la volontà».

 

Tra le funzioni cruciali della violenza di un gruppo ribelle o rivoluzionario, nei riguardi dell’ambiente esterno, Stoppino sottolineava quella di carattere simbolico. «Il ricorso al mezzo estremo della violenza esprime la gravità di una situazione di ingiustizia e la legittimità delle rivendicazioni del gruppo ribelle. La violenza sospende le regole dell’ordine sociale costituito: con l’arma drammatica e terribile della violenza gli uomini che la impiegano spezzano la legge e si fanno essi stessi legislatori nel nome della giustizia.» Ma ancor più rilevante, era per lui, il fatto «che questo tipo di violenza, mentre afferma la legittimità delle richieste del gruppo ribelle, nello stesso tempo contesta davanti all’ambiente esterno la legittimità dei privilegi o della situazione di vantaggio del gruppo antagonistico. Per questo la violenza dei gruppi ribelli o rivoluzionari ha tanto spesso lo scopo di provocare la reazione dell’avversario, per strappare dal suo volto la maschera dell’ipocrisia, mettere alla luce gli inganni e le macchinazioni (veri o presunti) che gli permettono di dominare senza mezzi violenti (o con un minimo di violenza), e minare così alla radice la legittimità della sua posizione di potere».

 

In conclusione, sintetizzava magistralmente l’autore de Le forme del potere, «la violenza richiama l’attenzione del pubblico, fa conoscere la rivendicazione, ne esprime – a certe condizioni – la legittimità, e, una volta intensificata in modo adeguato, restringe la libertà di scelta dei gruppi esterni, forzando i non impegnati a prendere partito; ma, di per sé, la violenza non può determinare la direzione che prenderà il sostegno esterno. Non è un fatto insolito che le violenze di un gruppo ribelle o rivoluzionario generino un maggior sostegno esterno a favore del gruppo aggredito: sostegno che opera nel senso della conservazione dell’ordine esistente, o addirittura in quello di una sua alterazione nella direzione opposta a quella desiderata dal gruppo ribelle o rivoluzionario. Parimenti, non è un caso raro che la repressione violenta esercitata dal governo abbia l’effetto di suscitare l’indignazione dei gruppi esterni, e di spostare parte del loro sostegno verso il gruppo ribelle o rivoluzionario: il che può spingere quest’ultimo gruppo verso un maggiore attivismo, una maggiore organizzazione e una maggiore violenza ".

 

L’analisi implacabilmente avalutativa, com’era nello stile di questo studioso tanto geniale quanto poco noto al grosso pubblico (è assai più conosciuto, sia pure solo da qualche anno, il nome del suo Maestro, Bruno Leoni), coglie, tra le tante dimensioni che mette in luce, un aspetto rilevante della violenza, la percezione di chi la scatena, ma lascia in ombra la percezione del ‘destinatario’, sia esso costituito dalla classe dominante, oggetto degli attacchi dei ‘dannati della terra’, sia esso costituito dal gruppo in rivolta, spietatamente represso dall’elite del potere fermamente decisa a reagire a qualunque minaccia al sacro binomio «legge e ordine». (Esempio classico, la dittatura di Eugene Cavaignac nel giugno 1848).

 

In effetti, la violenza fisica, a differenza di quella verbale e di quella psicologica, sembra prestarsi, con la sua presenza o assenza, a una misurazione obiettiva delle forme e degli stili della politica. Karl R. Popper se ne serviva come discrimine tra le due sole «forme di governo» che gli sembrava sensato distinguere, la democrazia e la dittatura. Nello scritto Sulla teoria della democrazia (1987) – come in molti altri, del resto – teorizzava che «ci sono, in realtà, solo due forme di Stato: quella in cui è possibile liberarsi dal governo senza spargimenti di sangue, con una votazione; e quella in cui questo non è possibile. Questo è ciò che conta, e non come viene chiamata una forma di governo. Generalmente si designa come ‘democrazia’ la prima forma e le seconda come ‘dittatura’ o ‘tirannide’. Qui non si tratta, comunque, di discutere sulle parole. |…| Il punto decisivo è unicamente la destituibilità del governo, senza spargimenti di sangue.».

 

Tornando a Stoppino, la partita sembra giocarsi tra l’attore che eroga violenza e l’attore assalito – o semplicemente minacciato – che si muovono sulla scena politica, da una parte, e il pubblico in platea, dall’altra: un pubblico che, a seconda dei casi, prende le parti del primo o del secondo (ma in qualche caso, resta a guardare: «né con lo Stato, né con le BR»). L’attivazione dello «spettatore», in questo modello, quindi, risulta decisiva per l’esito finale del confronto.

 

Il quadro teorico è ineccepibile purché l’approccio non sia, per così dire, troppo ‘positivistico’. In parole semplici, un calcio negli stinchi è un fatto «oggettivo» per chi lo subisce: esso duole tanto al gentleman londinese quanto al taliban afgano; ma per chi lo sferra o per chi lo sta a vedere, quell’«oggettività» rimane tale nell’effetto finale – collocata lungo un continuum che può portare alla morte – ma può avere risonanze emotive, etiche e sentimentali nonché «significati» completamente diversi, che dipendono dal tipo di «cultura» e, nella fattispecie, di «cultura politica» che accompagna la visione dell’uomo sottoposto a trattamento violento e il giudizio in virtù del quale l’atto appare esecrabile o, al contrario, del tutto ‘normale’ e naturale.

 

Insomma l’aggressione è «oggettiva», è la fotografia del movimento di corpi che vengono a collisione ma il suo significato, il disvalore o anche il valore che può assumere, lo fornisce il contesto istituzionale: dipende, in definitiva, da quelle che Stoppino chiamava le ‘istituzioni della mente’. Nella seconda Democrazia in America (1840) Tocqueville ricordava con quanta gioia poco cristiana Madame de Sévigné, in una lettera alla figlia,’governatrice’ in Provenza, descriveva la spietata repressione che si era abbattuta in Bretagna nel 1675 sulle classi inferiori insorte contro una nuova tassa. «Si avrebbe torto a credere – faceva rilevare l’aristocratico normanno rassegnato per tempo alla democrazia – che Madame de Sévigné, che vergava queste righe, fosse una creatura egoista e barbara: essa amava ardentemente i figli e si mostrava molto sensibile ai dolori degli amici; e ci si accorge anche, leggendola, che trattava con indulgenza e bontà vassalli e servitori. Ma Madame de Sévigné non si faceva un’idea chiara di che cosa fosse soffrire, quando non si era gentiluomini.» Non erano certo cambiati gli uomini, per il «princeps» del liberalismo francese dell’800, ma le istituzioni –  il mutamento di ‘état social’ dall’Ancien Regime all’’eguaglianza dei moderni’ – e con esse era mutato profondamente il modo di assistere al dolore altrui.

 

«Ai nostri giorni l’uomo più duro, scrivendo alla persona più insensibile, non ardirebbe riferire a sangue freddo le facezie crudeli che ho citato; e, quand’anche la sua mentalità particolare gli permettesse di farlo, i costumi generali della nazione glielo vieterebbero. Di dove viene questo? forse che abbiamo più sensibilità dei nostri padri? Non lo so, ma so per certo che la nostra sensibilità si estende su un numero maggiore di cose. Quando i ceti sono pressoché uguali e tutti gli uomini pensano e sentono nello stesso modo o quasi, ognuno può giudicare immediatamente delle sensazioni di tutti gli altri: basta che getti una rapida occhiata a sé stesso. Non esiste miseria, allora, che non gli susciti pena, e di cui un istinto segreto non gli faccia sentire la gravità. Invano si tratterà di stranieri o di nemici: l’immaginazione lo pone immediatamente al loro posto. Essa introduce qualcosa di personale nella sua pietà e lo fa soffrire nel suo corpo, mentre viene lacerato il corpo del suo simile».

 

Le pagine di Stoppino e quelle di Tocqueville mi sono tornate in mente leggendo il coraggioso editoriale scritto da Giampaolo Pansa su ‘Libero’ del 28 ottobre u.s., Il pugno a Capezzone fa godere la sinistra ma colpirà anche lei. Citando il bellissimo verso di John Donne: «Non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te», lo storico-giornalista avverte la sinistra a non esultare troppo per il pugno inferto a Capezzone da mano ‘antagonista’. «In una parte dell’opinione pubblica di sinistra, scrive, spero minoritaria, sta crescendo una nevrosi», sarebbe meglio dire una political culture, «molto più rischiosa» di quanto non pensino gli analisti e gli uomini comuni che l’attribuiscono a una deliberata strategia. E’ una nevrosi «fondata su un principio autoritario: chi non la pensa come me, è un nemico da colpire. In qualsiasi modo e in ogni circostanza». Di questo passo, ammonisce Pansa, si va verso la guerra civile ovvero si rischia «un’altra eventualità»: che «da un certo momento in poi, lo stesso servizio da carogne venga riservato a eccellenze di centro-sinistra. La storia ci insegna che a ogni azione segue una reazione. I baroni rossi non crederanno mica che a destra non esistano tipi pronti a restituire colpo su colpo. In base alla vecchia legge del taglione».

 

E’ il discorso di un «uomo civile» ma pecca di ingenuità, sul piano storico e sociologico. Se la ‘violenza nera’ si scatenasse, infatti, lungi dal risolversi in un boomerang per la rossa, ne potrebbe addirittura costituire una ‘legittimazione’, diventando un esempio da manuale di quella «violenza dei gruppi ribelli o rivoluzionari» che, nel brano citato di Stoppino, «ha tanto spesso lo scopo di provocare la reazione dell’avversario, per strappare dal suo volto la maschera dell’ipocrisia, mettere alla luce gli inganni e le macchinazioni (veri o presunti) che gli permettono di dominare senza mezzi violenti (o con un minimo di violenza), e minare così alla radice la legittimità della sua posizione di potere».

 

Il discorso di Pansa è quantistico e meccanicistico: ipotizzare che alla violenza di A possa seguire la reazione anche doppia di B, significa non tener conto che se sotto il profilo della «legalità» il pugno sul naso di Capezzone equivale a quello ipotetico sul naso di Franceschini, sotto il profilo della «legittimità» (e per le ragioni stesse da lui richiamate nell’articolo su ‘Libero’) i pugni sono resi diversi dal contesto istituzionale e dalle percezioni che ne derivano.

 

Nel primo dopoguerra, rossi e neri se le davano di santa ragione ma l’incendio delle sedi delle cooperative, dei giornali socialisti, comunisti e repubblicani, delle associazioni sindacali veniva vissuto dall’opinione pubblica borghese come un ‘eccesso’ motivato, però, da una ‘buona causa’. La political culture del tempo, a parità di violenza, non assumeva affatto lo stesso atteggiamento di condanna. Che gli scioperi dovessero bloccare le imprese, la circolazione stradale, quella ferroviaria, sospendere i servizi sanitari, scolastici etc. era per essa inconcepibile, sicché dinanzi alle denunce dei crimini commessi dalle camice nere, i ‘benpensanti’ allargavano le braccia invocando il primum vivere (quando una comunità politica si trova sull’orlo di una guerra civile possono salvarla solo le medicine forti e amare). Una parte rilevante delle classi superiori, delle classi medie, della stessa intellighenzia acconsentì, in tal modo, alla dittatura, a livello di sistema politico, per far rispettare la legalità a livello di società civile.

 

Oggi, con buona pace dell’amico Pansa, «non è più quel tempo e quell’età». La political culture egemone nelle nostre università, nelle case editrici, nelle redazioni, nei luoghi in cui si produce arte di ogni tipo, dal teatro al cinema, non è disposta a mettere sui due piatti della bilancia l’attentato che distrusse la famiglia Mattei e analoghi episodi di violenza ad opera delle BR. I violenti sono i ‘fondamentalisti’ della causa buona, sono esecrabili quanto si vuole – anche per il supposto effetto controproducente delle loro azioni – e, pertanto, vanno fermati in nome della ‘legalità’ (repubblicana), ma rimangono (almeno per molti) ‘i compagni che sbagliano’. (Uno storico, mio collega, non riuscì a reprimere la sua indignazione nei confronti di Guido Rossa: anche se vanno condannati politicamente, sosteneva, i brigatisti erano compagni che non potevano essere denunciati alle procure dello stato borghese…).

 

Se qualcuno gettasse una bomba nell’atrio di casa del presidente del Consiglio e qualcun altro la gettasse nell’atrio del segretario della FIOM, sarebbe davvero ingenuo aspettarsi, da parte degli organi d’informazione, lo stesso risalto dato ai due attentati. Ritenere identici i due crimini ed esigerne una ferma, eguale, condanna, da parte delle autorità civili, religiose, accademiche etc. significherebbe, per quasi metà degli Italiani, attestarsi su una concezione astratta e proceduralistica della democrazia.

 

Tutto lascia prevedere, pertanto, che una eventuale riemersione dalla ‘fogna’ (per richiamare il titolo di un vivace periodico culturale della Nuova Destra d’antan, ‘La voce della fogna’) dell’estremismo nero rappresenti, per ampie fasce di opinione pubblica, la riprova che il ‘pericolo fascista’ non è mai stato scongiurato definitivamente, che, per usare una metafora abusata, ci troviamo dinanzi a un fiume carsico più impetuoso che mai sicché la violenza rossa, lungi dall’essere la causa dell’altra, ne è stata la difesa preventiva, il segnale d’allarme.

 

Se «le cose stanno così», Bersani avrebbe davvero ragione a guardarsi le spalle, come lo invita a fare Pansa, a temere una ritorsione contro la sua persona ad opera di fantasmi tramutati in zombies armati di manganello ma lo schieramento politico e culturale, che a lui e ai suoi alleati, fa capo, ne uscirebbe rafforzato e legittimato.

 

In una trasmissione televisiva, il Figlio Diletto di Vladimir Luxuria e di Fausto Bertinotti, Nicki Vendola, rivolgendosi a un esponente della maggioranza che ricordava i meriti del governo nella lotta alla criminalità organizzata, ha obiettato che la prima mafia da combattere, in Italia, è quella insediata a Palazzo Chigi. Un governo così pesantemente delegittimato da un leader candidato alla guida della coalizione di centro-sinistra alle prossime elezioni, non solo non attiva simpatie e solidarietà (se non generiche e verbali) quando i suoi sostenitori in parlamento e fuori vengono malmenati, ma, quel ch’è peggio, rischia di essere considerato complice e mandante di eventuali violenze ai danni dei suoi oppositori.

 

Insomma nella quadriglia storica nazionale, le parti si sono invertite e con esse la tolleranza dell’illegalità e della violenza: ieri erano i ‘neri’ le generose ‘teste calde’, ai quali poteva scappare qualche morto ammazzato di troppo (Matteotti e non solo lui); oggi quel ruolo lo hanno assunto i ‘rossi’ le cui intemperanze vengono certo condannate ma, altresì riguardate come un modo per tener vive la coscienza e l’indignazione morale contro la banda di criminali al governo. Corsi e ricorsi storici. In tutto questo, un dato appare inconfutabile: l’assenza di un’autentica cultura liberale ‘delle istituzioni’ — il vecchio ‘senso dello Stato’ — che riporti, come vorrebbe Pansa, il discorso della violenza sul piano «quantitativo» stingendole addosso i panni colorati di cui si riveste.

 

Va detto a nostra parziale discolpa, che la pianta del liberalismo è una pianta assai rara e se da noi stenta a crescere possiamo chiedere qualche attenuante. In fondo, una cultura politica che faccia percepire l’agire violento, da qualunque parte provenga, come un vulnus intollerabile per la convivenza democratica presuppone tradizioni civiche e istituzioni politiche che forse si stanno logorando anche nei paesi che più si erano avvicinati alle rive della ‘società aperta’.