La Vispa Maria Elena, gentil farfalletta ben ben infilzata

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La Vispa Maria Elena, gentil farfalletta ben ben infilzata

22 Dicembre 2017

La Vispa Maria Elena: da politica promettente che gridava sull’erbetta, a gentil farfalletta ben ben infilzata. Se fossi stata un uomo Travaglio non mi avrebbe dedicato tanta attenzione”. Così il Corriere della Sera del 15 dicembre riporta una frase di una Maria Elena Boschi sempre più svanita, tanto da dimenticare quanta attenzione il Saint Just alla bagna cauda abbia dedicato a quel comprovato maschietto di Silvio Berlusconi. Però la tentazione di fare l’Asia Argento è troppo forte per l’ex promessa di Montevarchi che cerca addirittura di far passare un gentiluomo sabaudo come Giuseppe Vegas per un lumacone: “Mi chiese in modo inusuale di andare a casa sua alle otto del mattino” dice Maria Elena sempre sul Corriere del 15.

Ma la vispa deputata che sino qualche mese fa correva così giuliva sull’erbetta è, come si diceva, stordita: “Le opposizioni utilizzano la commissione per regolare i conti in prossimità della campagna elettorale” dice al Corriere del 19 dicembre. Le opposizioni? In realtà il colpo mortale alla “vispa” arriva da Pier Carlo Padoan che magari può essere considerato un oppositore in quanto scriveva sulla dalemiana rivista Italianieuropei, ma è pilastro del governo “amico” di Paolo Gentiloni: “Padoan, nell’audizione alla Commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario. Nel corso del suo intervento, rispondendo al senatore Andrea Augello che gli chiedeva dei colloqui tenuti dai ministro Maria Elena Boschi e Graziano Delrio sulla vicenda Banca Etruria, Padoan ha precisato che nessun membro del governo era stato incaricato di interessarsi della questione: «Io non ho autorizzato nessuno e nessuno mi ha chiesto un’autorizzazione. La responsabilità del settore bancario è in capo al ministro delle Finanze che d’abitudine ne parla con il presidente del Consiglio». «Ho appreso di specifici incontri dalla stampa»”. Così scrive sul Corriere del 19 dicembre Franco Stefanoni. E questa dichiarazione del ministro disintegra tutta la linea di difesa successiva della Boschi: “Non sono stata io a chiedere di acquisire. Io mi sono informata sul se, non ho chiesto di … É una informazione, non una pressione. C’è una differenza abissale. Rivendico invece il fatto di aver chiesto informazioni. Sarebbe stato assurdo il contrario. Parlare con gli amministratori delegati e ascoltare gli amministratori delegati è una delle attività di chi sta al governo: chi non lo capisce o è in malafede o è totalmente vittima della demagogia qualunquista” dice alla Stampa del 20 dicembre. “Ghizzoni dice una cosa. I siti di informazione ne raccontano un’altra” dice ancora al Corriere della Sera del 21 dicembre. Né le servono le minacce alla Robert Mueller che ogni tanto lancia: “Non cancello spesso gli sms”, dice al Messaggero del 18 dicembre. Padoan sarà anche in malafede o vittima totale della demagogia qualunquista, in ogni caso l’ha infilzata per benino quando ha sostenuto come un governo non possa essere una compagnia di sbandati in cui tutti fanno quel che vogliono e se una ha il papà negli impicci, non può, magari non facendo “pressioni”, comunque “interrogare” un amministratore delegato di una banca senza informare il ministro competente.

L’ex “vispa” comunque ha messo nei guai tutta la cricchetta renziana. L’ex premier dice anche di ignorare l’email di Marco Carrai a Federico Ghizzoni: “Non ne sapevo assolutamente niente” così dichiara Matteuccio al Tgcom 24. Ma per quanto si possa volere bene (non è il mio caso) a Renzino, per quanto si possa far finta di dar retta a Ettore Rosato che sulla Repubblica del 21 dicembre dice: “Marco Carrai è un imprenditore. Che poi sia un amico di Matteo non ne fa una voce del Pd o un rappresentante del partito o del governo “, è difficile dissentire dall’analisi di Stefano Folli sulla Repubblica del 21 dicembre che spiega come la discussione nella commissione parlamentare sulle banche “non solo ha confermato il famoso passo del libro di de Bortoli, ma ha descritto con scarne pennellate il quadro di un piccolo gruppo di potere piuttosto provinciale eppure proteso verso i propri obiettivi con spregiudicata determinazione. Questo gruppo di potere rappresenta oggi il vertice del principale partito italiano, l’asse del centrosinistra”.

In questo quadro fa particolarmente pena Matteo Orfini quando si mette a minacciare: “E allora dovremmo ascoltare anche Mario Draghi e tutti gli altri esclusi” così su Huffington Post Italia  del 19 dicembre. O quando sempre Orfini rivendica la portata strategica della “commissione” perché le “perdite lorde cumulate delle banche italiane che hanno registrato criticità nel periodo 2011-2016 ammontano a circa 44 miliardi di euro. A tale cifra vanno aggiunti i miliardi persi da decine di migliaia di piccoli azionisti e detentori di obbligazioni subordinate, in primo luogo delle due popolari venete non quotate, le cui azioni erano state fissate arbitrariamente a prezzi non di mercato, del tutto irrealistici, che poi sono stati brutalmente azzerati”. Dal 2011 al 2016 sono gli anni in cui il Pd ha appoggiato o diretto i governi nazionali: pensare di scaricare le colpe solo su Ignazio Visco, che pure ha le sue responsabilità, era abbastanza autolesionistico ma è diventato gigantescamente autolesionistico avendo una mina innescata come quella di Banca Etruria & Maria Elena Boschi.

Non credo proprio, come spera Matteo Renzi, che il Pd possa nel medio periodo uscire dalla gestione catastrofica di questa partita, come dicono i suoi a Maria Teresa Meli sul Corriere del 22 dicembre: “In campagna elettorale aumenteremo sicuramente i nostri consensi”. Basta vedere quel che succede sul caso Ilva, per capire come il Pd sia ormai un partito allo sbando. “Parla di «vuota retorica dei no» il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda” scrive Carmine Fotina sul Sole 24 ore del 22 dicembre: ma Calenda da perfetto seguace di Luca Cordero di Montezemolo è fino dentro il collo nell’imbroglio renziano, non può dare lezioni a nessuno, e tanto meno risolvere contraddizioni politiche gigantesche.

Resta il problema di spiegarsi – lo nota Massimo Franco sul Corriere del 21 dicembre- come mai non si sia previsto che “la Commissione parlamentare d’inchiesta potesse diventare una lente d’ingrandimento della cerchia toscana del Pd”. Per cercare le ragioni di una strategia che sembra quella del conte di Cardigan a Balaclava quando mandò a schiantare la cavalleria inglese contro l’artiglieria russa. Per capire quel che è avvenuto credo si debba andare alle fondamenta dell’avventura renzista cioè di quella che è stata un’operazione dall’”alto” e “da fuori”, essenzialmente promossa dall’amministrazione Obama con l’ausilio all’inizio anche di due eccellenti personalità legate a istituzioni e ambienti statunitensi come Mario Draghi e Raffaele Cantone. Come tutte le operazioni politiche gestite dall’alto (si pensi al regno napoletano di Gioacchino Murat,  peraltro personalità di ben altro spessore) finché le condizioni “dall’alto” reggono, tutto marcia speditamente e i protagonisti sembrano semidei. Appena sorge un intoppo “dall’alto” (per esempio la sconfitta di Hillary Clinton), tutto crolla rapidamente e i “semidei” si rivelano quella piccola cricchetta strapaesana che erano.

Chissà da dove nascono tutto questo rancore e sentimenti relativi. “Veniamo da una lunga stagione di mobilitazione di massa sul rancore e sui sentimenti relativi ( la rabbia, l’indignazione, l’invidia, la richiesta di livellamento)” scrive Giuseppe de Rita il 19 dicembre sul Corriere della Sera. Qualche pagina più in là, peraltro, dopo aver letto questa magistrali parole deritiane, ci si può godere la prosa di Gian Antonio Stella, giornalista particolarmente esperto di lunghe stagioni di mobilitazione di massa sul rancore e sui sentimenti relativi (la rabbia, l’indignazione, l’invidia, la richiesta di livellamento).

Quali sono i veri pericoli di autoritarismo (pur solo burocratico-benpensante) oggi in Europa. Las elecciones más anómalas de la historia de Cataluña arrojaron este jueves un escenario de difícil gobernación para esta comunidad que amenaza con afectar a toda la política española. Ciudadanos ganó por primera vez las elecciones catalanas pero la suma de formaciones independentistas sigue conservando una ajustada mayoría absoluta el Parlament, lo que abre la puerta a que se mantenga la inestabilidad política de los últimos cinco años. Los pactos serán imprescindibles para tejer cualquier gobierno y los antisistema de la CUP seguirán teniendo la llave de la gobernabilidad del bloque secesionista. Otra dificultad añadida es que hasta ocho diputados electos independentistas se encuentran en prisión o con una orden de detención, lo que les puede dejar en la práctica fuera del Parlament”. Miquel Noguer scrive sul El Paìs del 22 dicembre che sì gli indipendentisti hanno vinto, ma i Ciudadanos unionisti sono il primo partito. In realtà la vittoria dei tre partiti indipendentisti (quello moderato, quello di sinistra e quello estremista) con una partecipazione al voto dell’82 per cento, con otto leader in galera e uno “in esilio”, è molto significativa. Magari darà spazio per compromessi meno drammatici ma logora un Mariano Rajoy ridotto ai minimi termini in Catalogna. I metodi alla Angela Merkel di rimandare le scelte, di travestire un sostanziale autoritarismo sotto la pelle dei “diritti” e della “bontà” paiono proprio arrivati a un loro limite. Persino la Repubblica che scriveva il 19 dicembre con Massimo Giannini come la Spagna cresca “serenamente due o tre volte l’Italia” si rendono conto con il (quasi ex) euro entusiasta Andrea Bonnani (la Repubblica del 22 dicembre) che “in Europa non si governa a colpi di sentenze, di manette, di decreti e di manganellate”. E così sorprende come una filosofa di valore come Agnes Heller quando sempre sulla Repubblica del 22 scrive che: “In Europa crescono nuove tendenze autoritarie” se la pigli esclusivamente con gli Stati del gruppo di Visegrád, senza comprendere l’ottuso autoritarismo di fatto dell’asse bruxellese-berlinese (con ruota di scorta parigina marginalmente e disordinatamente attenta alle questioni della sovranità popolare). In questa situazione quando MyFt, l’area di notizie-flash del Financial Times del 22 dicembre, sottolinea  con una qualche contrarietà come: “Mrs May’s long-planned trip to Poland on Thursday, which coincides with the EU’s understandable decision to rebuke the Warsaw government over its illiberal actions” il viaggio di Theresa May in Polonia (con una delegazione assai folta per ministri degli Esteri, della Difesa, del Tesoro e degli Interni, come nota Enrico Franceschini sulla Repubblica del 22 dicembre) coincida con i comprensibili rimproveri agli atteggiamenti illiberali di Varsavia, non si può di converso dimenticare come l’asse berlinese-burxellese non si distingua per particolare attenzione ai principi “liberali” a iniziare dall’idea di nominare come coordinatore dei governi  (governi sic!) degli Stati membri dell’Unione, un ex (ex sic!) presidente del Consiglio polacco come Donald Tusk bocciato dal voto popolare.