L’aborto e la retorica sulla libertà di scelta
08 Luglio 2011
Caro direttore,
un gruppo cyberfemminista, “SubRosa”, sostiene che il concetto di libera scelta, nato con le lotte delle donne negli anni Settanta, si è trasformato in una “retorica rubata” logora e inutilizzabile. L’idea di scelta sarebbe ormai modellata sulle diverse opzioni del “liberalismo riproduttivo” più che sull’autonomia femminile, e avrebbe perso il suo significato. Qualche ragione le cyberfemministe ce l’hanno, e me lo confermano le argomentazioni più usuali a favore di un uso domiciliare della pillola abortiva Ru486. Tutti i problemi posti dal metodo farmacologico vengono ridotti a uno: la libertà di scelta. Spetta solo alle donne, una volta deciso di abortire, stabilire come farlo, se chirurgicamente o meno, e con quale modalità, se in regime di day hospital (quindi tornando a casa) o di ricovero ordinario (rimanendo in ospedale). Sostiene questa tesi anche una lettera pubblicata sul Riformista di venerdì scorso: “la donna agisce sempre coscientemente”, quindi indirizzare la pratica medica verso il ricovero significherebbe “avvilire il senso di responsabilità femminile”.
Ma un’affermazione di questo genere ha alle spalle alcuni presupposti impliciti che è bene chiarire, il primo dei quali è che l’interruzione di gravidanza sia un trattamento sanitario come gli altri, una procedura medica come qualunque altra. Se così fosse, però, non ci sarebbe bisogno di una legge ad hoc, come la 194. Gli interventi medici richiedono una normativa apposita solo in casi particolari; per esempio quando non riguardano esclusivamente la singola persona coinvolta, ma la società nella sua interezza, perché sottintendono un quadro di riferimento valoriale condiviso e definito. Basta pensare alle leggi che regolano i trapianti, o che stabiliscono i criteri di accertamento della morte. Non servono leggi, invece, per interventi ortopedici o cardiologici, aldilà della loro eventuale complessità o delicatezza.
Se l’aborto fosse un diritto individuale, una questione privata, non si capirebbe la richiesta del certificato medico, il termine dei novanta giorni, il colloquio e l’attesa di sette giorni prima dell’intervento, il divieto di farlo in regime di libero mercato, la relazione annuale del ministro della salute al parlamento: queste sono solo alcune delle regole contenute nella 194, che hanno senso proprio perché l’interruzione volontaria di gravidanza non è, nel nostro paese, una qualunque procedura medica offerta dal Servizio sanitario nazionale su richiesta della donna. L’impianto della legge nega questa impostazione, e iscrive l’aborto all’interno di un discorso sulla maternità come questione sociale.
Per la 194 la libera scelta non è dunque un diritto orgogliosamente rivendicato, eppure anche una normativa attenta come la nostra lascia fuori qualcosa: le contraddizioni indicibili legate al potere femminile di generare, al corpo e alle sue ambivalenze, ai sentimenti profondi e talvolta ingovernabili che mette in campo la maternità. Abortire è un gesto denso di incongruenze e ragioni contrastanti, in cui si mescolano spesso desiderio e rifiuto, libertà e condizionamento. Ma anche rinunciando a guardare dentro alle contraddizioni, riducendo tutto alla limpida possibilità di scegliere, per quale motivo un’indicazione sul protocollo operativo per l’aborto chimico dovrebbe essere in contrasto con la libertà delle donne? La scelta si esercita sull’accettazione della maternità o sul suo rifiuto, e magari sulla tecnica abortiva, non sulle modalità con cui quella tecnica è applicata. La valutazione del profilo di sicurezza spetta all’autorità sanitaria, e il Consiglio superiore di sanità ha stabilito, con ben tre pareri, che il metodo chimico e quello chirurgico hanno lo stesso livello di rischio solo se l’intera procedura viene completata in ospedale. Disattendere questa indicazione è questione che riguarda la libertà delle donne? E’ più onesto riconoscere che nella stragrande maggioranza dei casi chi sceglie di firmare le dimissioni volontarie lo fa su indicazione precisa del medico: quale donna si assumerebbe questa responsabilità, se il ginecologo e l’azienda sanitaria le prospettassero una situazione rischiosa per la propria salute?
Forse la domanda va rovesciata: perché, nonostante le indicazioni del Consiglio superiore di sanità alcuni ospedali da anni indirizzano le donne verso una modalità di assunzione della Ru486 che implica l’aborto a domicilio? Credo che la retorica della scelta mascheri la volontà di scavalcare la legge 194, o sia frutto del divorzio tra diritti di libertà e diritti sociali di cui si è parlato; ma non è certamente con il day hospital per la pillola abortiva che si afferma la libertà delle donne.
© Tratto da Il Riformista del 22 Giugno 2010