L’acqua di Silvestro che trasformava i sogni in realtà

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L’acqua di Silvestro che trasformava i sogni in realtà

19 Agosto 2010

Silvestro aveva coronato il suo sogno. Quel plico arrivato di mattina presto, come solo le notizie importanti sanno fare, conteneva la comunicazione che aspettava da tempo. "Gentile signor Gatti le comunichiamo l’esito positivo della domanda n. 3861bis. Cordiali saluti. Il Sindaco di Roma".

Dietro quei quattro numeri c’erano cinque anni di sogni, lavoro duro e tante ore consumate in fila agli sportelli della Circoscrizione. Tanta l’attesa di quella lettera che Silvestro non si accorse nemmeno di averla aperta sul tavolo della cucina ancora in disordine per la cena della sera. Pazienza. Lui quel foglio con il logo del Comune, anche se sporco di unto, l’avrebbe incorniciato e affisso alla parete principale lo stesso. Una macchia d’olio non avrebbe macchiato il suo sogno oramai realizzato: aprire un ristorante a piazza Mincio. Nel cuore del quartiere Coppedè, dove era nato, vissuto e cresciuto.

Il suo non sarebbe stato un ristorante qualsiasi, questo Silvestro lo aveva ben chiaro in mente. Ma un ristorante a chilometro zero: solo prodotti coltivati e provenienti dal territorio di Roma. D’altronde dopo anni a lavorare e cucinare per altri ristoranti pensava che prima di andare in pensione avesse il diritto di gestire una attività tutta sua. La verdura l’avrebbe presa dalla signora Pina, vanto di Pietralata per via del suo orto ben curato nella valle dell’Aniene. La frutta gliel’avrebbe portata Lello da La Storta. La carne direttamente Bruno, storico macellaio di piazza Alessandria, il quale dopo molto ricerche aveva finalmente trovato un macello in provincia di Roma, poco distante dallo svincolo della Roma Civitavecchia. Le fragole invece le avrebbe prese da Nicoletta, un nobile signora che recentemente aveva trasformato i suoi cinquecento metri quadri di terrazzo in Prati in una serra cittadina. Tutto a chilometro zero, compreso il vino, prodotto da Flaminia e Marco Caldani nelle loro vigne sulla via Formellese.

Anche l’acqua nel suo ristorante sarebbe stata speciale. Il vanto del suo locale. Perché ai suoi clienti Silvestro avrebbe servito solo acqua della fontane delle Rane. E questo era stato un altro ostacolo difficile da sormontare. Silvestro, nella sua idea originale, aveva un progetto preciso: far sgorgare dalla fontana di piazza Mincio acqua minerale frizzante. In maniera tale che tutti, turisti, passanti, gli studenti dell’Avogadro, curiosi e assetati fossero quasi obbligati, nel chinarsi per bere, ad osservare i quattro mascheroni a coronamento della vasca o le figure inginocchiate che sorreggevano i vasconi di cui si ignorava l’identificazione certa.

Non gli andava proprio giù che fontane come quella delle Tartarughe di piazza Mattei o quella delle Api di piazza Barberini fossero più famose. Da oggi chi si fosse avvicinato allo zampillar dell’acqua avrebbe notato le decorazioni e le api poggiate sulle conchiglie. L’idea era piaciuta così tanto al sindaco Alemanno che gli uffici comunali si mossero subito per far arrivare le bollicine a piazza Mincio. Silvestro scoprì solo con il tempo che confrontarsi con la pubblica amministrazione era davvero come chiedere ad un grosso pachiderma pigro di correre veloce. Alla fine riuscì nel suo intento. Ma che fatica! Più di una volta fu a un passo dal mollare tutto e mandare al diavolo baracca e burattini.

Ma l’amore per il Coppedè, unito alla sua passione per la cucina, furono sempre più forti. Ardeva in lui un desiderio: far arrivare frotte di persone tra queste strade per assaggiare i suoi piatti. Già se li immaginava i suoi clienti oltrepassare l’arco del palazzo degli Ambasciatori con il naso all’insù e lo stomaco vuoto. Voleva a tutti costi far giungere da ogni parte di Roma e d’Italia le persone tra questi palazzi magici. Ardeva dal desiderio di far conoscere a tutti i segreti di quelle vie. Ed era convinto che osservare il villino delle Fate a stomaco pieno avrebbe regalato sensazioni diverse. E poi che gli ingredienti dei suoi piatti arrivassero da varie parti della città e trovassero come meta finale il Coppedè lo vedeva come un giusto riconoscimento a questo quartiere.

Un vecchio locale in disuso su via Brenta avrebbe ospitato, "L’acqua di Silvestro", l’unico ristorante di Roma con prodotti a chilometro zero. Nel caso dell’acqua, scherzava Silvestro, sarebbe stata a "metri zero". L’unico piccolo cruccio rimasto nel cuore di Silvestro fu legato al fatto di non poter installare l’insegna fuori dal locale. La Sovrintendenza dei Beni Culturali gli aveva negato il permesso. Una cosa che a Silvestro parve davvero ingiusta. Aveva fatto realizzare una bellissima insegna in ferro battuto da uno degli ultimi artigiani romani rimasti attivi.

Peppino il ferraiolo, nella sua bottega in un vicoletto di Trastevere, impiegò una settimana di tempo per realizzare l’insegna bella come solo una cosa amata può essere. Silvestro l’avrebbe affissa dentro il locale. Con accanto un cartello con la scritta: "Sovrintendenza, ma dove stavi quando quell’architetto americano ha deturpato l’Ara Pacis? Evidentemente dormivi. Per fortuna ti sei svegliata ora per impedire a me di attaccare questa insegna così innocua". Da quel giorno Silvestro aveva coniato un motto tutto suo: non di sole insegne vive l’uomo.

Quel divieto spinse Silvestro ad una nuova sfida: far arrivare i clienti grazie al passaparola e al profumo dei suoi manicaretti. Finalmente dopo mesi di lavori il ristorante fu pronto ad aprire. Aveva deciso per un arredamento minimale, sobrio ed elegante al tempo stesso. Le tovaglie a tinta unita, le pareti color avorio, foto in bianco e nero degli angoli più nascosti del quartiere ad ornare il tutto. Per scattare quelle foto si era fatto aiutare da Giovanna Pimpinella e Luca Sorrentino, gli autori dell’unico libro serio dedicato al quartiere: Il fantastico quartiere Coppedè. Li avrebbe pagati offrendo loro delle cene. E arrivò il giorno dell’apertura.

Per l’occasione l’aiuto cuoco, i due camerieri e il lavapiatti avrebbero indossato delle divise linde e pinte. Tutto doveva essere perfetto, come l’atmosfera che solo quelle vie erano in grado di offrire. Un bel mazzo di fiori colorati venne sistemato all’ingresso. I menù, stampati e rilegati, poggiati delicatamente su ogni tavolo. Silvestro era curioso di vedere chi sarebbe stato il primo cliente a varcare la soglia del locale. Un giornalista del Gambero Rosso? Una famiglia numerosa? Un attore americano? La porta si aprì. Silvestro trattenne il fiato. Entrò un signore anziano. "Salve mi chiamo Franco abito al Portuense, ho letto la pubblicità sul giornale, è qui che si mangia er chilometro zero?", chiese togliendosi il cappello.

Silvestro annuì, si presentò e fece accomodare il cliente. Era il suo primo cliente. Il primo che avrebbe cenato nel suo ristorante. Per questo volle prendere lui la comanda. Franco guardò il menù, lo studiò per qualche minuto poi ordinò. "Mezze maniche cacio e pepe su letto di crema al basilico e tagliata al rosmarino", Silvestro registrò l’ordine e strizzò l’occhio al suo aiuto cuoco che lesto si mise ai fornelli. "Da bere?", chiese Silvestro.

"Vino rosso, una bottiglia di Gelso della Valchetta, leggo che lo producono a Formello, voglio provarlo", rispose l’anziano signore. "Acqua frizzante o liscia?". "Niente acqua per carità!". "Come niente acqua? Ma lo sa che è il vanto di questo ristorante?", rispose Silvestro in tono cordiale, ma piuttosto dispiaciuto che proprio il primo cliente rifiutasse l’acqua delle Rane. "Ragazzo sa quanti anni ho io?", disse il vecchietto. "No", rispose Silvestro.

"Ottantotto e sto in gran forma. Sa perché sto così bene?". Silvestro alzò le spalle e rimase in silenzio, in attesa che Franco svelasse il suo segreto. "Perché da quando ho quindici anni a pranzo e cena bevo solo vino. Se avessi bevuto acqua, dal quel dì che sarei arrugginito e rincoglionito". Silvestro rimase a bocca aperta. Ma non ebbe nemmeno un momento per rimanerci male. La porta del locale si aprì di nuovo. Erano altri clienti. Il sogno di Silvestro era diventato realtà.