L’Afghanistan è uscito dal Medioevo talebano e ha scoperto la modernità

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L’Afghanistan è uscito dal Medioevo talebano e ha scoperto la modernità

10 Maggio 2010

“Posso dirlo con certezza: l’Afghanistan di oggi è un Paese pieno di opportunità. In appena dieci anni è passato da non avere nulla a condividere molti dei tratti che qualificano la vita nei Paesi più avanzati del mondo”. Hamid parla della sua patria con trasporto. Si guarda intorno nella stanza all’ultimo piano della sede dell’International Development Law Organization, sbircia la cupola di san Pietro sullo sfondo, cerca continuamente lo sguardo dei suoi due compagni di viaggio. Ho appena finito di dirgli che sono un giovane giornalista con la passione dell’Afghanistan, che vorrei fare un’intervista atipica, quasi una chiacchierata tra amici, che vorrei sapere cosa pensano, o piuttosto cosa sentono, riguardo al loro Paese.

Hamid, Mohammad e Wahid (motivi di sicurezza consigliano di ometterne il cognome) non sono Afghani qualunque. A nemmeno quarant’anni lavorano per l’IDLO da quasi dieci, da quando l’organizzazione intergovernativa, specializzata nel riassetto del sistema giudiziario dei Paesi in fase di transizione postbellica, opera in Afghanistan. Hamid comanda un’unità che svolge corsi di preparazione per giovani professionisti del diritto, Wahid è funzionario nel settore legale, mentre Mohammad si occupa di amministrazione. Sono in Italia per un viaggio d’istruzione, per lavorare fianco a fianco ai loro omologhi nel quartier generale dell’IDLO e vivere l’esperienza del primo contatto col “mondo occidentale”. Sembrano un po’ imbarazzati ma felici.

Gli chiedo com’è l’Afghanistan di oggi, quanto è cambiato negli ultimi anni. Mohammad si fa serio. Pensa un po’ prima di rispondere. “Quando mi fanno questa domanda porto un esempio emblematico. Prima, al tempo dei Talebani, per telefonare all’estero bisognava attraversare il confine e andarlo a fare in Pakistan. Oggi ogni famiglia ha almeno un telefono cellulare, la televisione via cavo, un mezzo di trasporto proprio e può muoversi liberamente dentro e fuori dal Paese”.

Wahid si illumina. “Questa è la mia prima volta a Roma, la prima volta in una città occidentale. Un sogno… Dieci anni fa non avrei mai pensato che potesse realizzarsi. E invece eccomi qua: otto ore di volo e il gioco è fatto… Le cose sono davvero cambiate”.

Riprende Mohammad: “Abbiamo vissuto tempi bui, che ci hanno ferito, formato, insegnato una lezione. Io ho dovuto lasciare il mio Paese, sono stato in giro per il Medioriente, in Iran, in Turchia, e poi nell’Europa dell’est: Ungheria, Bulgaria, ex Jugoslavia. Ho visto, ho girato. Sono tornato solo nel 2004, quando ho avuto la certezza che l’Afghanistan fosse un posto sicuro per far vivere la mia famiglia, per darle un futuro. Sono tornato perché amo il mio Paese e volevo contribuire alla sua rinascita”.

Alla fine Hamid prova a fare un riassunto: “Oggi l’Afghanistan è un Paese con una costituzione, con diritti costituzionalmente fissati, un Paese in cui la proprietà è rispettata e la sicurezza garantita. C’è libertà di parola, competizione politica, possibilità di contestare apertamente l’operato del governo e del presidente Karzai. C’è sviluppo tecnologico, c’è la televisione satellitare e quella via cavo, ci sono ventiquattro canali e trasmissioni di ogni tipo. E dietro a tutto questo c’è un’esplosione di gioia, un moto di liberazione, di gratitudine alla vita”.

Il Paese delle Meraviglie, insomma?

M. : “Non sono solo rose, è chiaro… Ci sono, nessuno escluso, tutti i problemi che affronta un Paese in transizione. C’è la corruzione e il particolarismo, c’è una politica che stenta a fare gli interessi della nazione e ha ancora bisogno di contare sull’aiuto, e la protezione, della comunità internazionale. C’è ancora tanto da fare, ma anche le forze e la capacità per farlo. E c’è fiducia nel futuro”.

Ancora oggi i media rappresentano un Paese diviso, in cui il governo centrale controlla la zona della capitale Kabul e il nord – mentre i Talebani imperversano nel sud. Quanto è diversa la realtà?

M.: “Il quadro è vero solo in parte. Anche nel sud esistono e operano ufficiali di governo. Solo la loro azione è disturbata, a volte resa vana, dalle rappresaglie dei Talebani. Si tratta di veri e propri attacchi terroristici: colpiscono e poi si rintanano nei loro nascondigli. E’ difficile anticiparne le mosse oppure inseguirli e catturarli. Ma non controllano stabilmente il territorio, non più degli ufficiali di governo”.

W.: “Oggi l’Afghanistan è un Paese abbastanza sicuro. Posso portarti a far visita alla mia famiglia, possiamo andarcene in giro e divertirci senza che tu ti accorga di stare in un Paese che esce da trent’anni di guerre. Certo in alcune regioni la situazione è ancora precaria. Ma tutto sta lentamente migliorando. Con fatica, magari, ma i segnali sono inequivocabili”.

Resta qualcosa del regime talebano?

M.: “Il carattere proprio del regime talebano era l’oppressione, la violenza, la costrizione. Tutto il resto era preso altrove, da tradizioni preesistenti e culture più o meno condivise, e arbitrariamente imposto a tutti. Si pensi al burqa. Le donne lo portavano al tempo dei Talebani e lo portano oggi, semplicemente perché lo hanno sempre portato, per tradizione secolare. Solo che oggi nessuno glielo impone, e quelle donne – la maggioranza, probabilmente – che non vogliono portarlo non sono costrette a farlo. Scomparsa la violenza, del regime dei Talebani non resta niente”.

Inutile dire che l’aiuto della comunità internazionale è stato indispensabile per voltare pagina.

M.: “All’epoca della lotta di liberazione condotta dai mujaheddin contro l’esercito sovietico, la comunità internazionale era molto presente in Afghanistan. Poi ha mollato la presa, si è tirata indietro e questo ha permesso ai terroristi di infiltrarsi nel Paese, di farne con la complicità dei Talebani la base del terrorismo mondiale. Ma dal 2001 la presenza internazionale è ripresa e ha svolto un ruolo fondamentale per riscattare l’Afghanistan dalle ‘tenebre’. Le operazioni militari, i bombardamenti sono stati un fatto drammatico: non esiste una guerra pulita, chirurgica; ma col senno di poi è stato un male necessario. Da quel momento è nato un Afghanistan nuovo, ricco di opportunità prima impensabili”.

Non potrebbe essere che la vostra sia una prospettiva distorta? Dopotutto siete giovani, istruiti, vivete in condizioni abbastanza agiate. Il discorso sulle opportunità vale anche per i più poveri?

M.: “Senza dubbio in Afghanistan esistono grandi differenze tra le aree geografiche e le classi sociali. Ma lo sviluppo tende a ridurle, non ad esasperarle. Ti faccio un esempio: io vengo dal sud del Paese, il famigerato teatro della guerriglia talebana, e ci torno di tanto in tanto a salutare i miei parenti. Ebbene, nel sud villaggi poverissimi e sperduti oggi hanno acqua corrente ed energia elettrica grazie agli sforzi dell’amministrazione afghana e delle organizzazioni internazionali. Il governo attribuisce grande importanza alle politiche sociali: nelle città ma non solo, ha creato parchi, teatri, luoghi di ritrovo e di divertimento, mercati in cui commercianti pashtun, tagiki e hazara vendono fianco a fianco. Ogni comunità può scegliere i progetti che ritiene più importanti e le ditte, o le organizzazioni, che li realizzeranno. In un certo senso ogni comunità dirige il suo sviluppo”.

H.: “Non è solo una questione di intervento pubblico. Anche i privati cittadini si muovono di loro spontanea iniziativa. Negli ultimi anni il Paese è stato investito da un’ondata di solidarietà che ha coinvolto attivamente anche la popolazione. Il volontariato è una realtà: esistono numerose associazioni e gruppi di soccorso che si prodigano nell’assistenza delle vittime della guerra e del terrorismo. Insieme alla libertà, in Afghanistan è rinata anche la coscienza civile. Oggi praticamente tutti i cittadini afghani sono in grado di argomentare una teoria politica, di comprenderla e di contrastarla, e riconoscono, a fianco e talvolta al di sopra dei legami etnici, un senso di appartenenza alla nazione”.

Alla Repubblica Islamica dell’Afghanistan, per la precisione.

H.: “Il fatto che l’Afghanistan si proclami nella sua costituzione ‘Repubblica Islamica’ è una scelta precisa ma non ideologica, che presuppone il rispetto delle altre confessioni religiose. L’Islam rappresenta le nostre radici, la nostra cultura di secoli: inutile negarla o mascherarla. Al contrario, se la parola ‘islamica’ non fosse stata inserita nella costituzione, qualcuno avrebbe potuto lamentare la sua assenza, gridare allo scandalo, in nome di una malintesa visione dell’Islam delegittimare lo Stato. In un Paese diviso tra decine di etnie l’Islam è il tratto comune, l’elemento che unisce. Prima, ai tempi della monarchia, l’elemento unificante erano il re e la casa reale, adesso è l’Islam. Era logico che la nuova Repubblica dell’Afghanistan si fondasse su questo collante”.

M.: “L’Islam che io conosco e professo è una religione che predica la comprensione e la tolleranza. Che comanda di non offendere i non musulmani e proteggere gli innocenti. Che concepisce il mondo come un corpo unico, in cui lo stato di ogni singola parte si riflette sul tutto, il dolore di un dito si propaga in tutto l’organismo. L’idea di una comunità internazionale forte, coesa e solidale è connessa all’essenza stessa dell’Islam”.

Quanto ha influito questa concezione sulla vostra scelta di entrare nell’IDLO?

W.: “Non so come sono entrato nell’IDLO, ma so che non ne uscirei. (Ride) Scherzi a parte, ho fatto domanda per entrare nell’IDLO per necessità economiche, semplicemente. Sono un medico; dopo la laurea ho lavorato da medico per sei mesi e poi mi è capitata questa opportunità. Adesso mi considero un piccolo giurista, non per titolo di studio ma per esperienza sul campo. Ho imparato sul diritto più cose che se lo avessi studiato all’università. Dopo la guerra del 2001 il sistema giudiziario è stata la prima cosa a rinascere in Afghanistan, ma all’inizio era solo facciata. Palazzi di giustizia freschi di calce e basta: un involucro sfarzoso e vuoto”.

“L’IDLO – continua Wahid – ha fatto quello che c’era da fare, ha colmato le lacune del sistema. La costituzione afghana, per esempio, prevede per tutti gli imputati il diritto ad essere difesi da un avvocato, ma fino a qualche tempo fa in Afghanistan non c’erano avvocati difensori. L’IDLO ha formato avvocati, giudici, pubblici ministeri, docenti di diritto e funzionari amministrativi: tutto quello che serviva, in concreto, per far funzionare il sistema giudiziario. Ci sono altre organizzazioni internazionali che operano in Afghanistan e alcune, assai prestigiose, proprio nel settore giudiziario; ma l’IDLO è la più popolare tra gli addetti ai lavori. Tutti gli studenti di diritto e i giovani laureati fanno a gara per frequentare i corsi di preparazione dell’IDLO. Per gestirli è stato creato un organismo apposito, di cui il governo italiano è il primo finanziatore. L’IDLO lo ha tenuto a battesimo, lo ha accompagnato nella crescita e adesso cammina sulle sue gambe”.

H.: “Nel contribuire alla ricostruzione del sistema giudiziario l’IDLO ha dimostrato una sensibilità speciale. Ha saputo rispettare i tempi naturali del processo. Certo ha accelerato il tutto, ma senza forzature. Quando in Afghanistan non c’era niente, fin dal momento della costituzione della ‘Commissione per le riforme giudiziarie’, l’IDLO era lì. Ha offerto il suo supporto, la sua consulenza, si è guadagnata un credito straordinario. Ha agito in silenzio, concretamente, facendo parlare i fatti. E adesso che molte cose sono cambiate, che il Paese ha una sua strategia per la giustizia, la collaborazione dell’IDLO è ancora fondamentale e tenuta in gran conto. La sua forza sta nella capacità di lavorare in perfetta sinergia con le principali istituzioni giudiziarie del Paese – la Corte Suprema, il Procuratore Generale, il Ministero della Giustizia – e le rappresentanze dei gruppi sociali. E’ sempre coinvolta perché sa coinvolgere”.

M.: “L’IDLO ci ha fornito gli strumenti pratici per far funzionare il sistema giudiziario. Ci ha spiegato che cosa siano il diritto civile, il diritto penale e le regole di procedura e come usarle nella pratica; ci ha permesso di coniugare la Shari’a con la tradizione del diritto romano-germanico e col rispetto degli standard internazionali. E soprattutto ha contribuito in maniera decisiva alla riforma del processo in Afghanistan. In passato il processo era a porte chiuse, oggi è pubblico, aperto agli ‘spettatori’, nei casi più eclatanti ripreso dalle telecamere e trasmesso in televisione. In passato, poi, gli imputati non avevano diritto all’assistenza legale, oggi invece questo diritto non solo è sancito dalla costituzione, ma garantito dalla presenza di avvocati esperti e istruiti e associazioni che offrono assistenza gratuita ai poveri”.

H.: “Negli ultimi anni in Afghanistan la domanda di giustizia è cresciuta in termini esponenziali. Il numero dei casi in discussione presso i tribunali si moltiplica costantemente. La libertà ha fatto cadere i freni: la gente agisce, intraprende, vuole guadagnare e commette infrazioni. Ma non è solo questo… Ricchi o poveri, umili o istruiti, gli Afghani sono più consapevoli dei loro diritti e si affidano alla legge per risolvere le loro controversie. E’ un successo enorme per tutto il sistema”.

L’attenzione degli ospiti afghani si trasforma sempre più in impazienza di muoversi, osservare, tornare al lavoro. Un rapido scambio di sguardi e ci troviamo d’accordo: può bastare così. L’intervista è finita.
Scherziamo un po’, ormai c’è una certa confidenza, Hamid vuole sapere che cosa mi ha trasmesso questo incontro. Mi muovo sul filo della banalità per pescare qualche pensiero profondo. Gli dico che è bello guardarsi negli occhi e riconoscersi, capire che al di là delle culture e delle distanze contano le persone. Fa di sì col capo e dà un colpo di gomito al medico.

“A volte guardo mio figlio al computer e faccio come quei vecchi padri che borbottano dei loro tempi. ‘E pensare’, gli dico, ‘che io studiavo di notte, al lume di una lampada a petrolio, e trasportavo da fuori le taniche di carburante per mantenerla accesa tutto il tempo. E la mattina dovevo pulirmi le mani unte di olio e le narici otturate dalle esalazioni’. Lui sbuffa e continua pigiare sul joypad, come a dire ‘Non rompere’. (Ride) Forse dovrei offendermi, e invece sono felice”.