L’agenda asiatica è guidata da Pechino o da Washington?

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L’agenda asiatica è guidata da Pechino o da Washington?

22 Novembre 2017

Il Trump asiatico, bene in teoria, deve allenarsi sulla pratica. Chi accetta il punto di vista di Pechino come nuovo difensore della libertà di commerciare, in quest’ottica giudica negativo il recente viaggio di Trump. “Mr Trump ‘s mixed messages left allies unsure of America’s stayingh power and fed a growing sense that China, not the United States, drives the agenda in the region”, i confusi messaggi di Trump hanno reso insicuri gli alleati e ora l’agenda asiatica è guidata da Pechino e non da Washington, così Mike Landler  sul New York Times del 14  novembre. E, sempre in quest’ottica, si assolve la Cina dai condizionamenti che impone ai suoi vicini grazie al rocket-man Kim Jong-un. “China, some analists argue, just does not have the leverage over North Korea that mr Trump thinks it has” : la Cina secondo alcuni analisti non ha le basi per condizionare Pyongyang come ritiene Trump, scrivono Mark Landler e Jane Perlez sul New York Times dell’8 novembre.

Come spiegano i trumpisti il loro punto di vista? “We have tried it (China’s) way for 25 five years mr Lighthizer told Fox news – the results of their way (will be) 750 bn dollars goods deficit an overall goods and service deficit of 500 bn dollars. These are staggering numbers” abbiamo provato la “via cinese” al commercio: i risultati sono un deficit della nostra bilancia commerciale dai numeri sbalorditivi. Così Adam Behsudi riporta le parole di  Robert Lighthizer “Us trade representative” sul sito Politico del 6 novembre.

E sulle questioni commerciali Donald Trump ha detto (“told a gathering of asian-pacific leaders the Us would no longer tolerate ‘chronic trade abuses’”) che non accetterà un sistema continuo di abusi commerciali, così scrivono sul Financial Times del 10 novembre Demetri Stavastopulo e John Reed. Mentre sul fronte della sicurezza la Repubblica del 6 novembre riporta questa frase di Trump: “È finita l’era della pazienza strategica”, la tolleranza di comportamenti come quelli nordcoreani che mettono in discussione la sicurezza regionale e alla fine la pace mondiale. E sul fronte dei diritti umani Guido Santavecchi riferisce sul Corriere della Sera del 13 novembre le parole della portavoce della Casa Bianca, su come “Trump nei colloqui ‘cordiali e amichevoli’ si è concentrato sulla lotta alla guerriglia islamica, molto attiva nelle Filippine, sul traffico di droga e sulle questioni commerciali. I diritti umani sono stati affrontati ‘brevemente’ nell’ambito della lotta alle droghe illegali portata avanti dalla Filippine”.

Insieme a queste dichiarazioni-prese di posizione, scrivono Kiran Stacey e Jamie Smyth sul Financial Times del 15  novembre: “Officials from the Us, Japan, Australia and India met al the weekend on the sidelines of the Asean summit in Manila to restart the ‘quad’ a diplomatic iniziative set up a decade ago to counterbalance China’s growing power in the region  free and open  rules-based order freedom of navigation quadrilateral security dialogue” esponenti dei governi di Stati Uniti, Giappone, Australia e India, approfittando dell’incontro dell’Asean a Manila, si sono incontrati per rilanciare l’iniziativa del “quad” (una sede di incontri sistematici quadrangolari) tra Paesi della sfera indo-pacifica per controbilanciare il crescente potere cinese, difendendo le società aperte e rispettose del diritto, e ponendo la questione della libertà di navigazione. 

Donald Trump’s tour of Asia — his most significant exercise in foreign policy since taking office — provided, in many ways, a snapshot of his presidency. Like the curate’s egg, his diplomatic foray was good in parts. But its overall effect has been to strengthen doubts over US commitment to longstanding alliances, undermine confidence in American values and place the US on the sidelines of regional initiatives”: il tour di Trump in Asia ha avuto aspetti positivi, ma ha determinato dubbi sull’impegno a sostenere le alleanze di lungo periodo scuotendo la fiducia nella difesa dei valori americani e rendendo defilata la posizione degli Stati Uniti nell’area. Così un editoriale della direzione del Financial Times del 18 novembre registra preoccupazioni presenti anche nel governo giapponese.

D’altro verso alcuni effetti pratici del viaggio si sono già colti: “ China’s new special envoy for North Korea, Kong Xuanyou, who took up his position in August, is not believed to have visited the country since assuming the job”  è arrivato un esponente di primo piano dell’amministrazione di Xi a discutere con la Corea del Nord della sua politica nucleare. Così informa un lancio della Reuters del 18 novembre.

Interessante un commento di Jeet Heer su una storica rivista del liberalesimo americano, New Republic del 10 novembre: But these powerful words, and other important moves Trump has made on his Asian trip, have received relatively little attention in America this week. Instead, we’ve been inundated with mocking tweets and snarky headlines about Trump’s golf tangent, his manner of feeding koi fish, and his knowledge of the Japanese auto industry. This quickness to pile on the president, at the expense of policy analysis, illustrates a growing problem on the left. Liberals and their media allies are becoming knee-jerk anti-Trumpists, always on the lookout for the president’s next embarrassing, meme-able gaffe—and sometimes pouncing without getting their facts straight.” Le importanti parole e mosse di Trump nel suo viaggio asiatico hanno ricevuto poca attenzione in America, mentre siamo stati inondati da minori considerazioni di colore. Tra i liberal e i media loro alleati stanno prevalendo istinti antitrumpisti che fanno sì che ci si occupi solo delle gaffe del presidente, senza fare i conti con quel che realmente avviene.

Si condividano o no, alcune linee di una nuova politica estera si stanno delineando con la Casa Bianca di Trump: così l’idea di confrontarsi con la Cina senza né inginocchiamenti  né esasperazioni, così la scelta di non tollerare minacce alla sicurezza come quelle di Kim jong-un, l’iniziativa per stabilire alleanze con gli Stati così come westafalianamente sono (il Vietnam strategico per Barack  Obama non è mai stato proprio un paradiso dei diritti civili), la volontà di non accettare “distorsioni dei rapporti commerciali in cambio di alleanze” pratica che mette in crisi settori dell’economia americana e spinge gli Stati Uniti verso l’isolazionismo, costruire un’alleanza indo-pacifica a protezione delle “società aperte”. Vaste programme, si potrebbe dire degaullisticamente parlando. Però a me sembra un indirizzo un po’ più ragionevole di quello obamiano che è partito dal considerare la Cina partner strategico parlando di G2 ed è arrivato a cercare di isolarla sulla nuova Via della seta (con la Casa Bianca sbeffeggiata dagli alleati europei a partire dai già fedelissimi britannici) e poi ha cercato di isolare Pechino con il Trattato transpacifico perdendo intanto per strada alleati strategici come filippini e tailandesi, e ha sollevato la questione dei diritti civili a giorni alterni più per isolare i propri alleati che per contrastare gli avversari. E infine ha lasciato crescere senza un’adeguata mossa di contrasto la minaccia nucleare della Corea del Nord.

La qualità migliore di Veltroni? La sua capacità di dominare intellettualmente i processi storici. “Ho l’impressione che l’Europa non veda l’effetto anni ’30 che si respira”. Così Huffington Post Italia del 13 novembre riporta una dichiarazione di Walter Veltroni . Il grande e multiverso “ex” che alla fine non si è ritirato in Africa, è sempre stato forte nell’esame del contesto storico, basta ricordare come abbia detto che si è iscritto al Pci perché riteneva che questa forza politica fosse ispirata da John F. Kennedy e non dall’Unione Sovietica, e solo per un quiproquo i militanti avessero manifestato durante la crisi cubana per Fidel invece che per John Fitzgerald. Non ci può dunque stupire se tanta profondità di pensiero arrivi a evocare gli anni Trenta come una realtà che sta rivivendo ai giorni nostri. A voler essere pignoli ci sarebbe quel minore particolare che la lotta politica tra le due guerre mondiali era accompagnata, dove non regnavano già dittature consolidate, da veri e propri eserciti anche di partito. In Francia, in Germania e così via. Insomma l’idea che dire quattro scemenze via internet siano la stessa cosa del dar vita a una guerra civile in Spagna con mezzo milione di morti, magari non appare del tutto convincente.

Draghi, Montale, i giornalisti che non scrivono in inglese e i poeti bulgari. “Non darei troppa importanza a queste critiche che vengono da una minoranza. In alcuni Paesi, certi giornali sono protetti dallo scrutinio internazionale perché usano la lingua nazionale e mandano sempre lo stesso messaggio a prescindere dalla realtà, che viene dipinta di un colore, mentre è di un altro colore. A quello che diciamo devono esserci orecchie disposte ad ascoltare. Ma è una ragione per fare ancora di più”. Così Alessandro Merli sul Sole 24 Ore del  15 novembre, riporta le parole del presidente della Bce. Insomma i giornalisti economici italiani e tedeschi che hanno criticato Draghi poiché non scrivono in inglese, la lingua della comunità finanziaria internazionale, finirebbero  per essere come i poeti bulgari di Eugenio Montale che non avrebbero mai potuto diventare grandi perché con pochi lettori a disposizione. In un mondo con tanti ciechi, il presidente della Bce, avendo dietro di sé un’ampia e meritata riconoscenza per la magistrale operazione di governo della crisi da debiti sovrani del 2010, talvolta se ne approfitta un po’ troppo. Per accontentarlo è stato salvato anche Ignazio Visco che dopo le ennesime crisi bancarie italiane sembra sempre di più un Giampiero Ventura. Siamo ancora in una fase di emergenza, vanno evitate le scelte teppistiche tipo quelle di Matteo Renzi contro Bankitalia (assai gravi nel metodo meno nel merito) ma va lasciato un po’ di spazio alla libera discussione, altrimenti salta per aria tutto e qualcuno finisce per diventare invece che un eroe, un Carlo Tavecchio.