L’America passa le consegne e l’Asia trema per l’Afghanistan

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L’America passa le consegne e l’Asia trema per l’Afghanistan

19 Luglio 2011

In Afghanistan, il passaggio di consegne dal comando Nato alle forze locali ha avuto un inizio in sordina, sancito da una cerimonia lontana dai riflettori e segnata inevitabilmente dagli attacchi messi recentemente a segno dai talebani. Lo scorso 12 luglio era stato assassinato, nella sua abitazione di Kandahar, il fratello del presidente afghano Karzai, il potente Ahmad Walid. Domenica, invece, è stata la volta di uno dei consiglieri del presidente, Jan Mohammad Khan, freddato in un blitz a Kabul insieme a un parlamentare afghano, proprio mentre nella provincia di Bamiyan si svolgeva la cerimonia delle consegne. Ma gli attacchi non sono finiti qui: nel pomeriggio di ieri, un alto ufficiale di polizia e tre agenti afghani sono rimasti uccisi nella provincia di Kandahar, a seguito di un’esplosione che ha coinvolto il veicolo su cui erano a bordo (attacco che, mentre scriviamo, non è stato ancora rivendicato), mentre sette poliziotti sono stati assassinati da un commando che ha attaccato un posto di blocco, nella città di Lashkar Gah.

Il processo di transizione ha preso così avvio ­– c’era da aspettarselo – in un contesto tutt’altro che stabilizzato. Secondo quanto annunciato da Karzai nel marzo scorso, il passaggio di consegne dalle truppe della missione Isaf all’esercito locale dovrebbe essere completato entro la fine del 2014 e riguarderà i sette territori (tre province e quattro municipalità) considerati più stabili e pacificati. Si è partiti perciò con Bamiyan – teatro nel 2001 del famoso bombardamento da parte dei talebani alle due statue giganti di Buddha – ritenuta la provincia più tranquilla dell’Afghanistan. Il processo toccherà poi quasi tutta la provincia della capitale Kabul, la provincia del Panjshir e le città di Herat (assegnata al contingente italiano), Lashkar Gah, Mazar-i-Sharif e Mehtarlam. Ma proprio l’uccisione di sette agenti di polizia nella città di Lashkar Gah è il segnale inequivocabile che per la stabilizzazione dell’Afghanistan il cammino è ancora lungo.

Nella capitale dello Stato asiatico, a regnare sovrano è perciò lo scetticismo. Il governo è consapevole che per il Paese inizierà un periodo in cui saranno richiesti, ancora di più, sacrifici, ma la transizione è giudicata, come espresso dal portavoce del Ministero della Difesa afghano, "irreversibile". Il compito più impegnativo sarà ora quello di formare forze locali che non risentano troppo del partenza prossima dei "tutor" occidentali. A metà giugno gli Stati Uniti hanno annunciato l’intenzione di ritirare un terzo delle truppe entro settembre 2012 (33 mila soldati), fino ad arrivare al ritiro completo nel 2014. L’addestramento delle truppe afghane costituisce pertanto uno degli obiettivi prioritari per il nuovo comandante Isaf, il Generale John R. Allen, che proprio ieri è succeduto al Generale David H. Petraeus alla guida della missione della Nato. "Ci aspettano giorni difficili e non mi faccio illusioni sulla portate delle sfide che ci aspettano", sono le prime dichiarazioni del Generale Allen da comandante Isaf.

In questo quadro di difficoltà tutt’altro che latente nell’evitare che l’Afghanistan sprofondi nel caos, preda degli attacchi mirati dei talebani, si inserisce anche un altro grave episodio, avvenuto la scorsa settimana in India: il triplice attentato che il 13 luglio ha scatenato l’inferno a Mumbai, provocando 21 morti e 141 feriti. Il legame tra questo attacco e la situazione geopolitica che ruota attorno all’Afghanistan è solo apparentemente inesistente, e il nesso è ancora più chiaro se si considerano – come suggerisce Stratfor – due coincidenze: la prima è che il giorno stesso degli attentati, il Tenente Generale Ahmed Shuja Pasha, capo dei servizi segreti esteri del Pakistan (ISI, Inter-Services Intelligence), si era recato a Washington per un visita non annunciata; la seconda è che il giorno successivo c’è stata la visita a Nuova Delhi – capitale dell’India – da parte di Burhanuddin Rabbani, capo dell’Alto Concilio di Pace per l’Afghanistan, che dovrebbe essere chiamato a gestire i contatti con i talebani. Quello che ne viene fuori è un triangolo, i cui vertici sono l’Afghanistan, il Pakistan e l’India e al cui centro ci sono inevitabilmente gli Stati Uniti. Proprio sul governo di Washington graverà ora il difficile compito di bilanciare il ritiro progressivo delle sue truppe (e di quelle della missione Isaf) dallo Stato di Kabul con il mantenimento del precario equilibrio nell’area del Sud-Est asiatico.

I rapporti tra Usa e Pakistan, è noto, non sono propriamente sereni. Con l’annunciato ritiro delle truppe Nato, appare ancora più necessario un accordo tra i due Paesi per la gestione dell’affaire Afghanistan, che però tarda ad arrivare. Pertanto, la visita del capo dell’intelligence pakistana a Washington può essere considerato un tentativo, da parte del governo di Islamabad, di limare le distanze tra le due potenze. In particolare, la volontà del Pakistan è quella di far comprendere agli Usa che tra i due Paesi c’è un’intenzione comune: evitare che l’exit strategy dall’Afghanistan faccia "ringalluzzire" l’insurrezione jihadista al confine tra lo Stato afghano e quello pakistano. I movimenti fondamentalisti islamici, alleati di al-Qaeda, hanno infatti tutto l’interesse ad agire da disturbatori per le strategie americane nella regione: un Sud-Est asiatico senza gli Usa equivarebbe a maggiori possibilità di crescità del jihadismo. Sebbene – come sottolineato da Stratfor –non sia chiaro se gli attentati di Mumbai siano stati opera di cellule legate ad al-Qaeda o di militanti islamisti indiani, non c’è dubbio che la rete jihadista mondiale ha tutto l’interesse affinché sempre più frequentemente si verifichino attacchi terroristici in India da parte di cellule con base in Pakistan. Obiettivo: innescare un conflitto indo-pakistano.

Così, mentre l’intelligence pakistana è impegnata nel mantenere un trait d’union con gli Usa, anche l’India si dimostra preoccupata dagli scenari post-ritiro Usa in Afghanistan. Ecco quindi la visita a Nuova Delhi di Rabbani, che, oltre ad essere alla guida del concilio per la pace in Afghanistan, è l’ex presidente afghano rovesciato nel 1996 dai talebani. Inoltre, in qualità di leader più anziano della più grande minoranza etnica del Paese, i tagiki, ha una naturale propensione per gli indiani più che per i pakistani, dal momento che la popolazione tagika è quella che si oppose più a lungo al sostegno pakistano alle forze rivali dei pashtun, tra cui i talebani. Per questi motivi, il Pakistan non vede di buon occhio i legami diplomatici tra Afghanistan e India. Ecco quindi, in tutta la sua complessità, il quadro degli equilibri geopolitici nel Sud-Est asiatico. Una complessità che si accentuerà ancora di più adesso, con l’inizio del processo di transizione e il futuro ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan.