L’America si salva ma questo non basta a calmare le Borse europee
02 Agosto 2011
Bisogna prendere atto che i mercati finanziari, al di là e al di qua dell’Atlantico sono improntati al pessimismo. Non è servito a ridar loro fiducia nemmeno il fatto che a Washington sia stato raggiunto un onorevole compromesso fra democratici e repubblicani sull’innalzamento del tetto alla emissione di debito pubblico, di 2400 miliardi, in tre tranches, a valere sino al 2012, accompagnato da un taglio di spese decennale, dello stesso importo.
Il fatto che Obama non sia soddisfatto di questo accordo non implica che esso sia peggiore di quello che egli sperava di ottenere. Quello che lui voleva consisteva in un aumento secco del tetto al debito, in una sola tranche, anziché in tre, come si è stabilito, con due nuove votazioni parlamentari per le tranches successive, in concomitanza con la verifica della attuazione del programma di tagli alle spese, in particolare quelle sociali. Obama, inoltre, voleva meno tagli alle spese e un l’innalzamento delle imposte per i redditi più elevati. Ma le due votazioni parlamentari successive non sono vincolanti, nel senso che Obama nel caso di voto contrario avrà comunque il potere di far rispettare il piano ora stabilito. Sarà sua e dei democratici la responsabilità di tagliare le spese per riscuotere la fiducia dei mercati nel debito pubblico americano. E il fatto che non si inaspriscano le imposte sui ricchi non dovrebbe essere considerato negativo dai mercati, dato che negli Usa è quasi solo dai ricchi che provengono quote importanti di risparmio delle famiglie.
Dunque è difficile comprendere perché i mercati non siano soddisfatti di questo accordo, anziché di quello che Obama pretendeva, che gli avrebbe lasciato le mani libere di fare nuovi debiti e applicare nuove tasse. Ed era impossibile pretendere che passasse integralmente il piano di austerità predisposto dai repubblicani alla camera, che non aveva il consenso dell’estrema destra del Tea party, ma tagliava troppo le spese sociali e quindi non poteva avere il consenso di democratici che controllano il senato. Né la regola del pareggio del bilancio obbligatorio poteva essere, in queste condizioni, varata. Al massimo essa sarà adottata dai repubblicani, se vinceranno le elezioni presidenziali.
Dunque o gli analisti erano utopisti oppure la spiegazione del perché questo piano non ha generato ottimismo sta altrove. Ed è, invero, abbastanza semplice. Innanzitutto, è abbastanza paradossale che si debba considerare positivamente la notizia che gli USA possono fare nuovi debiti federali per 2400 miliardi in un anno e mezzo, considerando che già il debito totale è di 14.400 miliardi e che il Pil degli USA e di poco superiore a questa cifra. Dato che oltre al debito federale ci sono i debiti degli Stati e degli enti locali e quelli di agenzie facenti capo al governo federale, il rapporto debito/Pil degli USA è attualmente sul 140% del Pil. E’ vero però che una parte di questo debito è posseduto da enti previdenziali pubblici ,sicché l’indebitamento netto degli USA è minore. Ma la percentuale sul Pil tende comunque a superare il 100% ed a crescere. E d’altra parte, una quota rilevante del debito degli USA è acquistata dalla Federal Reserve la banca centrale americana, ossia viene monetizzata, in quanto la Fed in cambio dei titoli pubblici che acquista emette dollari.
Tutto sommato, la notizia che il tetto del debito degli USA sale non elimina, né forse di molto allontana la prospettiva che le agenzie di rating tolgano una delle tre A, all’attuale rating di AAA del debito federale. D’altronde gli ultimi dati sulla produzione industriale e sulle stime del PIL degli SA mostrano che il grosso deficit pur facendo lievitare la domanda globale non genera una crescita economica come quella che la dottrina keynesiana faceva sperare e che gli economisti di Obama ritenevano di poter ottenere. Anche i mercati finanziari sono pieni di idee keynesiane e il fatto che il grosso deficit non faccia crescere il PIL degli USA contraddice le loro aspettative. Di qui un disorientamento, che si traduce in pessimismo. Dunque, quella svolta miracolosa che si era immaginata, nella situazione finanziaria internazionale, dopo l’aumento del tetto del debito degli USA non c’è stata. Ed era logico che non ci fosse perché l’annuncio che un grande stato che emette la moneta più importante del mondo, aumenta legalmente il proprio diritto a far debiti ma non si impegna a pareggiare il bilancio in futuro, non è atta a tranquillizzare. E per conseguenza, i paesi europei con problemi per il loro debito non traggono un particolare beneficio da questa notizia, mentre ne possono ricavare insegnamenti.
Ho già scritto che sarebbe opportuno che noi rafforzassimo la manovra per il 2012, mediante una operazione finanziaria di alienazione di beni mobiliari immobiliari pubblici per un 1% del Pil e una operazione di spostamento al 2012 di una parte della riduzione di spese prevista per il 2013-2014 per uno 0,6 punti di Pil. Dato che in assenza di queste operazioni il deficit per il 2012 dovrebbe essere il 2,4-2,5% , la loro attuazione genererebbe per tale anno un deficit dello 0,9-0,8% del Pil. Recenti valutazioni indicano che gli immobili pubblici suscettibili di alienazione sono attorno ai 300 miliardi. Dunque nell’operazione di cui sopra potrebbe esserci una importante quota di immobili. Ciò, certamente comporta una grossa mobilitazione di risorse e quindi l’apporto di istituti bancari internazionali. In ogni caso una robusta politica di privatizzazioni costituirebbe, per i mercati finanziari, un importante segnale, circa la volontà del governo di rilanciare la crescita, mediante il sistema di mercato.
Ma ciò non basta, credo che l’insegnamento che dobbiamo trarre dall’evento americano è che dobbiamo garantire la nostra solvibilità stabilendo in modo vincolante, costituzionale, la regola del pareggio del bilancio. Prima che nella costituzione, essa va inserita nella legge sulla contabilità pubblica, in modo da vincolare in sede di formazione del bilancio annuale. Il Presidente del Consiglio, comunque, fa bene a convocare le parti sociali, per il lancio delle iniziative pro crescita, ma chiedendo anche loro di impegnarsi sul fronte del rigore. Questo è lo scambio che il governo deve loro chiedere. Ed è bene che il presidente del Consiglio si faccia affiancare oltreché dal ministro dell’Economia, dal ministro del Lavoro, da quello dello Sviluppo economico, da quello della Semplificazione legislativa e da quello delle Regioni.
Non è esatta la tesi secondo cui la manovra di finanza pubblica non è convincente perché non del tutto determinata nella sua parte relativa al 2014. La vera questione sta nelle notizie negative che si sono diffuse, circa la tenuta di questa maggioranza. Le assurde campagne di stampa per un misterioso governo tecnico, che dovrebbe riuscire a fare meglio di un governo dotato della propria maggioranza parlamentare e quelle ulteriori riguardanti i problemi personali del ministro dell’Economia hanno generato un senso di incertezza, che ha fatti salire il differenziale di interessi del nostro debito pubblico anche a 345 punti, rispetto a quello tedesco. Questo segnale negativo costituisce la migliore dimostrazione dei guai ulteriori a cui andremmo incontro se questo governo, che ha una sua maggioranza e ha varato un piano poliennale di rigore finanziario, cadesse e al suo posto si cercasse di mettere insieme un governo tecnico o peggio un governo-babele di coesione nazionale.
Lo stesso appello delle 17 associazioni di imprese e di lavoratori per una assise che le riunisca e generi una politica di crescita dimostra a che cosa si andrebbe incontro con tali progetti. L’appello, infatti, chiede discontinuità per una politica di crescita, ma questa sembra esser la sola cosa su cui tutti sono d’accordo. Per il resto ognuno ha ricette differenti dagli altri, anche se dal loro insieme emerge una linea maggioritaria di accordo con ciò che il governo può proporre. Infatti mentre la Confindustria ha messo al primo posto le liberalizzazioni, la Confcommercio ritiene che nel settore commerciale non ce ne sia più necessità. E mentre la Cisl chiede i contratti di lavoro locali decentrati la CGIl vi si oppone. L’elenco potrebbe continuare. Non si commetta , dunque, l’errore di cercare di varare vasti programmi, mediante una discussione ancora più vasta, che va per le lunghe, alla ricerca di unanimismi. Occorre scegliere, una soluzione dotata di buoni consensi, anche se non da tutti condivisa.
Le proposte avanzate da Raffaele Bonanni, con una rilevante sintonia con il ministro Sacconi dalla CISL e, per una parte, con la Confindustria, costituiscono una base importante per la linea di cui sopra. Occorre che escano, in tempi ravvicinati, misure concrete soprattutto per la rimozione degli ostacoli agli investimenti e all’occupazione, con particolare riguardo a quelli infrastrutturali, che si finanziano sul mercato e alla incentivazione fiscale dell’apprendistato e della contrattazione periferica. E’ anche necessario che il governo garantisca che intende difendere il risparmio investito in titoli, sia in generale proseguendo nell’ azione finanziaria prudente e sia in particolare con l’impegno che esso non verrà fatto oggetto di nuove tasse. Bisogna che gli italiani credano nella solvibilità dello stato e investano nel debito pubblico, che assicura elevate remunerazioni, in modo da sostituire con i loro acquisti che vengono meno, di investitori esteri. Il governo ha, dunque, il compito di rassicurare il paese che esso intende realizzare una discontinuità, con riguardo al rilancio della crescita, dopo avere varato, in tempi brevissimi, la legge di stabilità. Ma anche il compito di assicurare il paese che esso intende realizzare una continuità, con riguardo alla politica di difesa del risparmio e dell’occupazione, che ha perseguito con successo sin dall’inizio dello scoppio della crisi, e che intende farlo mediante una politica di ravvicinamento del pareggio del bilancio e di costituzionalizzazione di tale regola. Questo è lo scambio che va chiesto alle parti sociali, senza pretesa di unanimismi: non più crescita e meno rigore, ma più crescita, in cambio di più rigore.