
L’anno del Dragone, a chi piace la Cina di Xi Jiping

23 Ottobre 2017
Viva il pensiero di Xi Jiping! “The american people elected a 70-year-old celebrity with no relevant experience” Tom Mitchell sul Financial Times del 21 ottobre riferisce, peraltro con una forte dose di sarcasmo, il parere di esponenti dello Stato cinese sulla superiorità del loro sistema nel scegliere chi dirige il Paese non sulla base di elezioni come quelle americane che fanno emergere vecchie celebrità senza esperienza, ma attraverso una dura selezione “di partito”. Se il quotidiano della City è scettico, non manca invece chi sente un’attrazione verso il regime di Pechino. Persino l’intelligente Angelo Aquaro della Repubblica scrive sul suo quotidiano il 19 ottobre come di Xi Jinping “il discorso piace nei posti più impensati, a Pyoyang per esempio”. Chissà perché una Nord Corea che dipende sempre di più dalla repubblica popolare confinante dovrebbe eccepire sul sistema Xi. Qualche tratto lirico si trova poi in Guido Santavecchi, che, sul Corriere della Sera del 19 ottobre, così riferisce del discorso d’apertura al congresso del Partito: il nuovo grande timoniere “ama chiamare i grandi mandarini corrotti ‘tigri da abbattere’, i piccoli funzionari ladri ‘mosche da schiacciare’ e ieri ha aggiunto ‘le volpi da stanare’” “le volpi” sarebbero gli imprenditori che esportano troppi capitali all’estero. Un misto di preoccupazione e ammirazione per Xi si trova nelle parole di Ian Johnson sul New York Times del 14 ottobre: “His China could become a model for digitally driven authoritarianism around the world” un modello di autoritarismo a guida digitale per il mondo: in cui il termine “modello a guida digitale” tempera l’implicita critica del termine “autoritarismo”. Sempre sul New York Times del 16 ottobre Steven Lee Myers e Sui-Lee Wee notano che “For years, the United States and others saw this sort of heavy-handed censorship as a sign of political vulnerability and a barrier to China’s economic development. But as countries in the West discuss potential internet restrictions and wring their hands over fake news, hacking and foreign meddling, some in China see a powerful affirmation of the country’s vision for the internet”. Per anni, dicono i due opinionisti sul NYT, la politica censoria di Pechino su Internet era stata vista come un intralcio allo sviluppo anche economico e democratico di quel Paese, ma ora le preoccupazioni pure negli Stati Uniti per fake news, hacker e connesse intrusioni di Paesi stranieri, potrebbero diventare una potente conferma della visione cinese di come si tratta Internet. L’odio per il trumpismo, il fascino dell’elitismo rispetto al potere legittimato dalla rappresentanza popolare, la disgregazione di condivisi valori occidentali indotta innanzi tutto dagli Stati europei guidati da pulsioni mercantiliste invece che da principi, paiono quasi favorire un ritorno di quel mito cinese che affascinò ampi segmenti delle nuove generazioni europee cinquanta anni fa. Magari sarebbe utile, per evitare nuovi innamoramenti irrazionali, leggere con la necessaria attenzione una notiziola apparsa sul Financial Times dell’11 ottobre a firma di Jamil Anderlini: “This year a chinese court sentenced a man to two years in prison for the apparently heinous crime of referring to president Xi Jinping as ‘steamed bun Xi’in private message” Quest’anno una corte cinese ha condannato a due anni di prigione una persona per il crimine apparentemente odioso di essersi riferiti al presidente Xi Jinping con il termine di “ciambella riscaldata Xi” in un messaggio privato.
Lo Zittamento. “Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio” Ezio Mauro sulla Repubblica del 21 ottobre spiega come Ignazio Visco abbia le sue responsabilità ma come queste siano inferiori a quelle della “politica” che dunque non si può permettere di criticarlo. Il modo con cui Mauro riassume l’articolato sistema democratico italiano (partiti, Parlamento, governo, maggioranza, minoranza, presidenza della Repubblica, Corte costituzionale) nel termine “politica” appare ispirato alla teoria più volte illustrata da Eugenio Scalfari sulla Repubblica, così il 15 ottobre: “La sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”. Nel merito il Fondatore scambia l’espressione di un processo storico-concreto (la rappresentanza si esercita attraverso élite e i sistemi liberaldemocratici sono sempre di fatto poliarchici) con il declassamento di un principio essenziale per una liberaldemocrazia, quello per cui la legittimità fondamentale del potere deriva dalla sovranità popolare che si esprime nel quadro delle norme liberali che questa “sovranità” si è data. E’ interessante come una pietruzza a questa teorizzazione elitistica delle basi fondamentali dello Stato sia portata anche da Sabino Cassese quando sul Corriere della Sera sempre del 21 scrive che: “La presidenza della Camera avrebbe dovuto dichiarare inammissibili mozioni che non attengono ai compiti del parlamento”. Insomma il Parlamento non avrebbe l’autorità di esprimere un indirizzo tenendo conto anche del quale, presidente del consiglio e consiglio dei ministri dovranno poi indicare un nome per il governatore della Banca d’Italia (a capire questo principio c’è arrivata persino Laura Boldrini che sulla Repubblica del 22 ottobre dice: “E’ necessario tener ben distinti il piano dell’ammissibilità da quello dell’opportunità politica” e ricorda come nessuno avesse sollevato obiezioni alla precedente mozione su Bankitalia presentata dai 5stelle). Sostituire anche sistematicamente, nel senso indicato da Cassese, lo Zittamento al Parlamento costituirebbe senza dubbio un passo decisivo per consolidare quel regime elitistico che in Italia è alimentato innanzi tutto dalla corporativizzazione della magistratura e pure in parte dalla subalternità delle nostre banche (vedi anche blocchetto successivo) a sistemi di influenza internazionale non comparabili con quelli che agiscono in Francia, in Germania o persino nella stessa Spagna.
Di banche tedesche. “La banca tedesca – seconda per dimensioni dopo Deutsche Bank- è al centro di indiscrezioni, speranze e speculazioni sui mercati. E’ che il governo tedesco ne è il primo azionista con il 15,6% delle azioni” Danilo Taino sul Corriere della Sera del 16 ottobre ci ricorda come in Germania la seconda banca nazionale abbia come azionista di riferimento lo Stato. Dalla nostra non ci scordiamo, poi, neanche come nella cara Deutschland i Länder controllino ancora le Casse di risparmio. Insomma, beato il popolo tedesco che non ha avuto i Carlo Azeglio Ciampi con la loro teoria del “vincolo esterno” che avrebbe rieducato l’Italia, non ha avuto i Romano Prodi con le loro privatizzazioni analoghe a quelle dei Boris Eltsin e dei Carlos Menem che hanno disperso centri talvolta preziosi per l’economia nazionale o soggiacendo a interessi internazionali non trasparenti o creando nuovi accrocchi di potere invece che mercati concorrenziali, non ha avuto i Giovanni Bazoli e il suo candidato all’Abi Giuseppe Mussari che hanno impedito a Giulio Tremonti tra il 2008 e il 2010 di consolidare il nostro sistema del credito con un intervento dello Stato, e non ha avuto, più in generale, tutti quelli che hanno accettato diktat da chi a casa propria si comportava ben differentemente da quel che richiedeva agli italiani.
La desolante deriva di Spagna e Catalogna. Il quotidiano barcellonese La Vanguardia, pur critico dei radicalismi indipendentistici catalani, riporta il 21 ottobre con tristezza alcune retoriche parole del presidente del consiglio spagnolo: “Rajoy también se ha detenido para hacer una valoración del diálogo, una ‘palabra hermosa que se ha convertido en mágica’” . Si può giocare sullo scarso realismo di chi trasforma la valorizzazione del dialogo da una bella idea in una magica e irrealizzabile, ma il governo di Madrid con il suo misto di attendismo e burocratismo, senza mai una seria iniziativa politica, sta aggravando la situazione. Come ricorda Meritxell M. Pauné ancora sulla Vanguardia del 21: “Cuatro destacados alcaldes socialistas de Catalunya firman un comunicado conjunto para pedir al PSC que no apoye la aplicación del artículo 155 de la Constitución Española, anunciado este sábado por el presidente Rajoy y acordado con el PSOE y C’s.”. Quattro sindaci socialisti della Catalogna hanno chiesto al loro partito di non votare la richiesta di Rajoy di utilizzare l’articolo 155 della Costituzione, richiesta già approvata dallo Psoe. Al fondo emerge una tendenza alla disgregazione degli indirizzi unitari che i partiti nazionali dovrebbero imprimere nella dialettica politica che orienta la conduzione di Parlamento, governo e più in generale dello Stato. Un altro segno dello spappolamento che l’ordine brusselese-berlinese sta provocando in tutto il Vecchio continente.