
L’anti-autoritarismo distrugge l’ordine sociale. E la scuola ne è l’esempio

10 Ottobre 2007
Il sociologo tedesco Niklas
Luhmann scrisse circa vent’anni fa un libretto intitolato: Com’è possibile l‘ordine sociale?. Prefazione di un noto filosofo
allora iscritto regolarmente al PCI, Giacomo Marramao. La domanda di Luhmann è
la domanda di oggi. Le società si disgregano e la politica progressista fatica
a capire perché. Semplice: non esiste alcun ordine sociale senza il
riconoscimento di un’autorità. Riconoscimento cordiale che legittima il ruolo dell’esercizio
dell’autorità senza che questo comporti crisi isteriche o, peggio ancora,
ribellioni aperte. Ecco il punto. Israel ha ragione per quel che riguarda la
scuola, la reintroduzione degli esami di riparazione, la pedagogia progressista
che ha “bacato” anche molte menti di destra. D’altra parte, le ideologie non
soltanto non hanno storia, ma neppure confini e limiti definiti, anzi esse
tendono a diventare senso comune. Dunque, sciagure universali. Ma vi sono altri
due elementi da considerare attentamente. Il primo è l’emergenza del singolo
nelle società occidentali postmoderne. Il secondo è il nesso, a prima vista
paradossale, tra il singolo con la sua libertà e l’esercizio dell’autorità nel
senso sopra descritto.
La sociologia contemporanea ha
buon gioco nel rilevare, dati alla mano, che il bisogno di autonomia è centrale
per le persone. Le persone considerano l’autonomia come il bene più prezioso,
osserva Castells sull’ultimo numero del settimanale Internazionale. Internet e la globalizzazione hanno creato una
società di singoli, ad un tempo più liberi e più soli nelle scelte. Un tema
all’ordine del giorno, nella filosofia americana, è proprio la libertà di
scelta e le sue connessioni con l’ordine sociale. Libertà del singolo e
solitudine fanno da contrappunto al gregarismo ed alla collettivizzazione (che
poi era una forma di isolamento, in una certa misura almeno) del Novecento.
Schematizzando, le cose stanno, a livello di senso comune, grosso modo in
questi termini. Le società dunque stanno diventando giganteschi contenitori di
singoli. Brown ha affrontato di petto questo problema a partire dal tema della
relazione sociale e dell’educazione. Brown e Sarkozy sono le due facce della
stessa medaglia ed entrambi, alla fine, vanno a chiudere i nessi con le grandi
questioni proprio dentro il corpo dell’educazione, vale a dire la scuola.
Perché? Sostanzialmente perché questi gruppi di singoli che vagano nel corpo
sociale, si scontrano e si raccordano secondo logiche non più così facilmente
riconoscibili né prevedibili, frequentano e affollano le scuole d’Europa,
spesso senza avere alcun riferimento paterno, come ha persuasivamente mostrato
Risé, e di conseguenza nella più totale incapacità di affermare i propri valori
di riferimento e la propria individualità.
I “bamboccioni” di cui ha sragionato
Padoa Schioppa non sono il frutto di un’adulterazione culturale e/o
antropologica, ma il prodotto di decenni di ideologie collettivistiche e
pseudo-paternalistiche, che hanno sostituito drasticamente e senza alcun approccio
critico la figura del Padre con quella del Gruppo e del Movimento. E ciò non
per un anno o due ma per un lungo e pesante decennio, perché tanto è durato il
Sessantotto in Italia: fino al 1977-78. Il linguaggio esprime la sostanza di
questa devastante storia: il Settantasette è stato il periodo della cosiddetta
“orda d’oro” e infatti di orde eversive si è trattato. Che hanno squassato il
senso comune tradizionale e la capacità critica di recepire il tessuto di
valori e di verità familiari. Don Giussani, nel “Rischio educativo”, ha
magistralmente spiegato che l’educazione non è il frutto di un’imposizione
dall’esterno, ma l’incontro con una proposta seria ed autorevole da riconoscere
nella sua drammaticità e radicalità, quindi da affermare o negare. Ma sempre
nello spazio di un’incontro, non tra un blitz contro i Carabinieri e
un’assemblea alla Sapienza di Roma, oppure di Pisa, l’epicentro originario di
una parte del Sessantotto. Ecco, allora, che il singolo, con la sua libertà e
nella sua solitudine, ha bisogno del confronto serrato con una personalità viva
ed autorevole, cioè con un’autorità vera, solida e ferma, non con una specie di
“amico adulto” o di agitprop progressista. La libertà, per diventare fattore
creativo, deve avere a che fare con un’autorità.
Un sondaggio del quotidiano
francese Le Figaro ha confermato
questa realtà: i francesi pretendono un’autorità in materia educativa. Nelle
scuole. Vogliono il ritorno dell’autorità nella scuola, commenta il quotidiano
conservatore, e, in massa: il 79%!, di loro desidera addirittura che gli
allievi si alzino quando entra in classe l’insegnante, secondo la scandalosa
proposta di Sarkozy, durante la campagna elettorale che poi l’ha portato
all’Eliseo. Qui si salda la vecchia tradizione repubblicana francese,
tutt’altro che lassista, con una restaurazione intelligente di valori e
capisaldi educativi. Fondati sul riconoscimento oggettivo di un’autorità che
educa e che punisce, quando è necessario. Lo stilismo in Italia ha blindato la
scuola rendendola lassista e progressista, sciattamente prona al politicamente
corretto e incapace di educare ed istruire consegnando – come vorrebbe
l’esperienza derivante dalla tra-ditio, consegna di un’eredità etico-culturale
di padre in figlio – la verità di una cultura e un’idea di libertà autentica.
Libertà responsabile. Ovvero, obbediente all’autorità e fiduciosa nella verità
che ha reso grandi i padri.