L’antipolitica va di moda. Da più di cent’anni

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L’antipolitica va di moda. Da più di cent’anni

02 Maggio 2009

L’idea iniziale risale addirittura al 1891, quando è stata appena scritta la parola fine a “L’illusione”. A un amico panormita, Federico De Roberto dice: “Ho cominciato un nuovo romanzo da fare il paio con l’Illusione e che dovrebbe intitolarsi Realtà. Ma è un libro così triste, che dopo aver scritto metà del primo capitolo, la paura mi ha arrestato”. Un timore che si mantiene negli anni. La gestazione de “L’Imperio” sarà faticosissima e mai del tutto completa. Si tratta di un libro con qualche difetto di rigidità e con un surplus di schematismo importante, se non quasi unico, nel panorama letterario post risorgimentale.

Innanzitutto l’idea è notevole: un “romanzo di vita parlamentare”. L’ambizione è quella di un affresco del livello dei “Viceré”. Ma la gestazione resta assai più problematica. Il libro è cominciato, ripreso e nuovamente lasciato nel cassetto. Quasi un ventennio dopo, De Roberto decide di ritornarci sopra. Soggiorna nella capitale, si documenta in presa diretta. Roma però gli è indigesta. “Più sto a Roma”, ammette, “più rimpiango quella grande Milano, dove la pianta uomo cresce con qualità ignorate nel resto d’Italia. Sto arrivando al punto che Roma mi pare Catania…”.

In un’altra lettera racconta di una giornata parlamentare e osserva che le “sedute sono più interessanti d’uno spettacolo teatrale; e la folla vi corre come allo spettacolo”.  In realtà, il ceto politico descritto nel romanzo non fa un gran bella figura. Uno dei due protagonisti, il principino Uzeda, lo stesso dei “Viceré”, oramai maturo deputato e quindi ministro, è poco più che un vanesio, disposto alla qualsiasi pur di emergere.

Miglior sorte non tocca all’alter ego dell’aristocratico catanese, il brillante nobilotto campano Federico Ranaldi, il cui ingenuo idealismo è destinato a una sconfitta persino più sonora. Nel libro c’è spazio per la vita parlamentare tout-court. Efficace è la descrizione della mitica seduta in cui il “sinistro” Agostino Depretis (ne “L’imperio”, Milesio) ottiene il via libera al suo governo dal “destro” Marco Minghetti (nel romanzo, Griglia) inaugurando così il trasformismo. L’atteggiamento di De Roberto, è facile intuirlo, è tutt’altro che benevolo. La disillusione progressiva che conosce Ranaldi è in un certo senso la sua. Giornalista di un nuovo quotidiano, ben presto entra in rotta di collisione con le regole non scritte della vita pubblica. Lavorare nella carta stampata allora significa “arrivar presto ed alto”. Tanto che, per trarne davvero vantaggio, ogni scrupolo va lasciato cadere perché “aspra e dura” è “la concorrenza, tra quella folla avida di arrivare”. Un clima, appunto, da basso impero, dove la diffidenza e il tutti contro tutti regnano sovrani.

La conclusione è inevitabilmente amara: l’Unità non ha giovato punto al clima morale e al senso civico del Belpaese. Ranaldi oramai fuori gioco, rientrato nella sua angusta cittadina d’origine, vede il futuro proprio nerissimo. Addirittura l’intera modernità gli sembra da respingere: “Nulla, non c’era da far nulla, non si poteva aspettare o sperar nulla, non si poteva credere in nulla: di quale partito, di quali uomini fidarsi? Tutti gli idoli che egli aveva venerati avevano rivelato le loro magagne…”. E, poco dopo, più radicale ancora: “Il progresso era tutto apparenza, illusione e presunzione”. Vie di scampo, insomma, zero, con la politica nella parte del male assoluto. Eppure, al di là della morale un po’ spiccia, “L’imperio” è lettura importante e godibile, che anticipa di un secolo e rotti, atteggiamenti e considerazioni oggi persino alla moda. Il libro, riproposto dalla Bur-Rizzoli (pagine 324, euro 6,80) con l’aggiunta di un’ottima curatela del prof. Nunzio Zago, è in libreria non da molto, eppure sembra già circondato da un assordante quanto ingiusto silenzio.