L’Arabia Saudita non merita ascolto, ma Abdullah ha buone intenzioni
09 Agosto 2008
di David Rosen
Tre mesi orsono, quando il sovrano dell’Arabia Saudita Abdullah annunciò la propria intenzione di tendere la mano ai leader religiosi delle confessioni più importanti del mondo, affinché fosse possibile incontrarsi per intraprendere la via del dialogo, la sua proposta non mancò di suscitare un comprensibile scetticismo. L’Arabia Saudita è la patria dell’Iilam, e si potrebbe definire il più conservatore tra i paesi musulmani. In Arabia Saudita non è garantita la libertà di culto alle religioni diverse dall’islam, la cui declinazione dominante in questo paese è il wahhabismo – o più precisamente il salafismo -, che si esprime in una forma piuttosto inusuale rispetto alle altre sue varianti musulmane.
Ciononostante, vi sono ovvie ragioni per le quali re Abdullah ha caldeggiato una simile iniziativa. Oltre alla necessità di promuovere in Occidente un’immagine migliore dell’islam – e del suo paese – , il sovrano tiene in considerazione quei fattori strategici locali che recentemente hanno portato l’Arabia Saudita a credere di dover affermare quello che ritiene sia il suo ruolo di guida all’interno del mondo musulmano.
Privilegiando un approccio particolarmente cauto, il re Abdullah ha prima indetto una conferenza panislamica per discutere di tale impresa; e nonostante vi siano state critiche da parte di alcuni musulmani, in generale il sostegno all’iniziativa è stato diffuso. Nondimeno, molti tra coloro che non hanno partecipato alla conferenza si sono fermamente opposti alla nozione di “dialogo interreligioso”, rigettando in particolar modo l’idea che rappresentanti di altre confessioni vengano accolti in Arabia Saudita.
Forse proprio per questa ragione, o quantomeno per adottare la strategia più prudente possibile, si è deciso di organizzare l’incontro interreligioso in Spagna – pur sempre specificando che si tratta di un primo raduno, ed accennando al fatto che futuri appuntamenti potrebbero tenersi proprio in Arabia Saudita.
C’erano motivazioni importanti per rifiutare la collaborazione con l’iniziativa saudita. Perché contribuire al successo delle relazioni pubbliche di un regime che tutto è fuorché esempio di tolleranza religiosa? Perché collaborare con gruppi religiosi che appoggiano un’interpretazione dell’islam che non difende in alcun modo l’integrazione dei musulmani in Occidente all’interno di sistemi democratici e pluralisti?
Oltre a ciò, tutta una serie di nomi che inizialmente apparivano sulla lista degli invitati erano decisamente problematici, a partire dal Segretario Generale della World Muslim League (un’organizzazione saudita che ha sostenuto individui malvagi che tuttora operano in numerosi paesi).
D’altro canto, se la comunità ebraica avesse declinato l’invito non avrebbe di fatto aiutato la causa degli ebrei, di Israele né del mondo libero – anzi, avrebbe fatto l’opposto. Si trattava di un’opportunità per cominciare a smantellare le barriere erette dall’ostilità e dalla bigotteria; e forse una simile decisione, pur sempre compiuta nel nome dell’interesse personale, avrebbe potuto portare il mondo musulmano ad una maggiore comprensione e forse persino cooperazione con altre realtà. Oltre al beneplacito all’iniziativa dell’American Jewish Committee, anche le elites politiche e diplomatiche di Israele premevano per la collaborazione.
Tuttavia, per gli organizzatori sauditi è stato evidente sin da subito che si stavano avventurando in terre sconosciute. L’organizzazione, la lista dei relatori, gli inviti, e persino il programma tradivano la loro palese mancanza di familiarità con l’idea di interreligiosità in generale, e nello specifico con le singole confessioni. È chiaro, ad esempio, che gli organizzatori hanno scelto deliberatamente di non invitare alcun rappresentante ufficiale di Israele e Palestina. Nonostante io stesso risieda in Israele, il mio invito – tra i pochi ebrei inizialmente invitati – è stato recapitato intenzionalmente al Jacob Blaustein Building di New York, sede dell’ American Jewish Committee.
Ancora più preoccupante è il fatto che la bozza iniziale del programma, apparso sul sito web dell’incontro ed in seguito modificato e rivisto almeno mezza dozzina di volte, riportava tra i partecipanti alla seduta inaugurale il nome di Yisroel Dovid Weiss di Neturei Karta – il fervente gruppo ortodosso ed antisionista che si oppone veementemente all’esistenza dello Stato ebraico. Se Weiss fosse rimasto tra i rappresentanti, in virtù del suo ruolo avremmo dovuto rifiutarci di partecipare alla conferenza in segno di protesta – e questa era la posizione raccomandata anche dal ministro israeliano per gli Affari Esteri. Eppure, insieme ad altri rappresentanti di fede ebraica che avevano acconsentito a partecipare, è stata organizzata un’efficace campagna di sensibilizzazione con l’appoggio di numerose personalità del mondo religioso e politico statunitense – e non solo. Di conseguenza, Weiss è stato depennato dalla lista degli ospiti e non ha partecipato alla conferenza.
Il re di Spagna Juan Carlos ha presieduto la sessione inaugurale il 16 luglio, nel palazzo reale spagnolo di El Prado. Un’incredibile schiera di principi arabi – per la maggior parte appartententi al governo saudita – e membri del clero musulmano sedevano a fianco dei rappresentanti delle maggiori religioni del mondo, tra i quali il cardinale Jean-Louis Tauran, il prelato vaticano responsabile per le relazioni interreligiose.
Re Abdullah ha dato il benvenuto agli astanti, e nel suo discorso inaugurale ha ribadito la propria convinzione per cui la fede autentica si esprime attraverso la moderazione e la tolleranza, e richiede sempre che la concordia subentri al conflitto. Ha chiesto quindi cooperazione e collaborazione tra le diverse religioni per affrontare le sfide globali del nostro tempo.
Al termine dell’incontro, re Abdullah ha salutato gli ospiti singolarmente. Al sopraggiungere del mio turno, mi presentai a lui con il mio modesto arabo: “Sono il Rabbino Rosen da Gerusalemme, Israele”, gli dissi. Lui mi rispose “Ahalan w’asalan”, benvenuto; ma realizzai immediatamente che molti tra coloro che lo circondavano erano prossimi all’attacco di cuore.
Mentre il messaggio del re non appare esattamente rivoluzionario, il fatto che egli abbia sottolineato l’importanza dell’incontro, del dialogo e della collaborazione con altre confessioni e comunità sembra aprire la via a tutti coloro che inizialmente erano estremamente curiosi, ma mantenevano una certa cautela o persino timore nei confronti di una simile iniziativa.
I membri della delegazione ebraica sono stati intervistati incessantemente dai media arabi. Molti personaggi del mondo arabo sono venuti da noi dicendoci che non avevano mai incontrato un ebreo, e tantomeno un rabbino, e che avrebbero voluto farci delle domande. Molte di esse riflettevano incredibili pregiudizi, convinzioni distorte o palesemente errate; ma soltanto il fatto che potessero esprimerle a noi, quasi con innocenza, ha rappresentato un’occasione preziosa per affrontare queste percezioni sbagliate, tentando dove possibile di rettificarle.
Naturalmente, come accade spesso in conferenze di questo tipo, la conversazione al di fuori delle occasioni formali – particolarmente a tavola – offre spunti decisamente più ampi per lo scambio di opinioni. Durante una cena, sedevo a fianco di un eminente personalità saudita che ci informava su come la conferenza fosse il risultato di un progetto che re Abdullah aveva coltivato sin dalla sua ascesa al trono. Era desiderio del re, proseguì il mio vicino, che non solo l’Arabia Saudita ricoprisse un ruolo di maggiore impegno nel mondo, e più specificamente nell’ambito religioso; ma si trattava anche di realizzare il suo più grande desiderio, ovvero che il suo paese si aprisse al mondo.
Nelle coreografie minuziosamente organizzate degli appuntamenti, ricordo un momento di particolare pathos. Tutto accadde durante la penultima sessione di incontri, quando uno dei relatori inevitabilmente ripropose il comune mantra secondo il quale il dialogo con gli ebrei è permesso, e forse persino auspicabile; mentre il dialogo con Israele, e con coloro che lo appoggiano, non lo è.
Mi fu data la parola per rispondere. Sostenni che il vero dialogo non è quello in cui una parte definisce il carattere dell’altro, ma è piuttosto quando si cerca di vedere gli altri come loro vedono se stessi. Il giudaismo è da sempre inestricabilmente legato alla terra di Israele, e seppur ciò non debba venire usato per giustificare alcuna azione o politica in conflitto con la moralità e l’etica che sono alla base della religione, negare o tentare di scindere le due cose significa non poter riconoscere, e neppure rispettare, l’idea che gli ebrei hanno di sé.
Nonostante le ridottissime reazioni negative, che tuttavia indicavano come la discussione si fosse a quel punto allargata all’ambito politico, dal mondo musulmano vennero avanzate numerose considerazioni costruttive in risposta. A mio parere, ciò che tuttavia è ancora più rilevante è il clima di rispetto nel quale si è svolta la discussione.
In un certo senso, il fatto di non aver neppure nominato il conflitto israelo-palestinese aveva creato un’atmosfera diffusa che faceva sembrare vi fosse un “elefante nella stanza” che veniva deliberatamente ignorato. La possibilità di farvi riferimento in un contesto di dibattito istituzionalizzato contribuì in un certo senso a rasserenare gli animi.
Seppur le affermazioni conclusive abbiano ricalcato le pie dichiarazioni già anticipate, la conferenza esprime nel complesso la volontà saudita di continuare sulla strada finora intrapresa. Si tratta di un elemento da non sottovalutare. L’autorità più importante nel cuore pulsante dell’islam ha preso il posto d’onore nel dialogo interreligioso, a prescindere da quali siano i suoi motivi, con l’intenzione dichiarata di affrontare le sfide del mondo contemporaneo e di appianare i conflitti. Tutto ciò offre ad Israele, al popolo ebraico ed all’Occidente un’opportunità notevole che va indubbiamente colta.
Il rabbino David Rosen è Direttore Internazionale per gli Affari Interreligiosi presso l’American Jewish Committee.
© Jewish Telegraph Agency (JTA)
Traduzione Alia K. Nardini