L’atomica pakistana scatenerà la corsa al nucleare in tutto il mondo islamico

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L’atomica pakistana scatenerà la corsa al nucleare in tutto il mondo islamico

05 Maggio 2009

Durante la conferenza stampa di mercoledì sera, il presidente Barack Obama ha approvato la posizione ufficiale del Pakistan, secondo cui l’arsenale nucleare del Paese islamico è sotto il pieno controllo dello Stato. Obama ha detto di essere "gravemente preoccupato" da questo problema, ma anche "fiducioso che l’arsenale nucleare resterà  lontano dalle mani degli estremisti".

Le parole del presidente non infondono molta sicurezza, visti i progressi militari dei talebani in Pakistan. La nostra sicurezza, e quella dei nostri amici e alleati nel mondo, dipende in modo critico dall’impedire che altri avversari, e specialmente quelli animati da ideologie a noi antitetiche, giungano in possesso di armi atomiche. Fino a quando non ci sarà un’iniziativa rapida e decisa contro gli estremisti islamici di quella regione, il Pakistan continuerà a rischiare di finire in uno dei due, inquietanti modi che andiamo esponendo.

Il primo scenario prevede che l’instabilità nel Paese continui a crescere, e che gli estremisti sconvolgano tanto le deboli istituzioni democratiche del Pakistan quanto le sue forze armate. Spesso conosciute come lo "scheletro d’acciaio" pakistano per aver preso le redini della nazione nelle ricorrenti crisi generate da governi incompetenti o corrotti, le forze armate sono loro stesse, adesso, gravemente minacciate dal sorgere al loro interno di un crescente sentimento pro-talebano. In questa situazione – specialmente se, come testimoniato di recente dal segretario di Stato Hillary Clinton, l’arsenale nucleare è disperso nel paese – c’è un rischio reale che diverse armi sfuggano al controllo degli apparati militari. Queste armi finirebbero nelle mani di al Qaeda o di altri terroristi, con le conseguenze  che ci si può immaginare.

Il secondo scenario è anche più pericoloso. L’instabilità potrebbe provocare la caduta del governo regolarmente eletto, e la dissoluzione dell’esercito. Ciò potrebbe permettere a un gruppo disciplinato e ben organizzato di prendere il potere. Estremisti come i talebani non avrebbero alcuna possibilità di imporsi in libere elezioni, ma potrebbero avvantaggiarsi del caos per arrivare al governo. Se ciò accadesse, un regime estremista islamico in Pakistan disporrebbe di una cospicua capacità nucleare.

Quest’ultimo scenario non solo darebbe al terrorismo internazionale un accesso ancora maggiore alle capacità nucleari del Pakistan, ma aumenterebbe anche i rischi di uno scontro atomico con l’India. Per di più, l’Iran sarebbe portato a dare un’ulteriore accelerazione al suo programma d’armamento, e sarebbe inesorabilmente seguito da altri suoi vicini (per esempio l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Turchia) che, magari, potrebbero procurarsi armi nucleari  semplicemente comprandole dal nuovo regime di Islamabad.

Per prevenire entrambi gli scenari, il Pakistan dovrebbe diventare il primo problema della nostra agenda strategica,  anche se strettamente correlato all’Afghanistan (le tribù Pashtun che vivono a cavallo della frontiera tra i due paesi costituiscono il maggior serbatoio di militanti taleban9, anche se non sono l’unico loro supporto nella regione). Al contrario di quanto raccontano le "bambinaie occidentalli", le principali motivazioni alla base dei conflitti in entrambi i Paesi risiedono nella lealtà etnica e tribale, nel fanatismo religioso e nel semplice opportunismo. Non si tratta della ribellione di coloro "che non hanno" contro coloro "che hanno", ma di Veri Credenti in missione divina. Di conseguenza, nessun sostegno economico, né l’invio di un maggior numero di consiglieri civili, né istituzioni democratiche più solide risolveranno abbastanza rapidamente il problema.

Non siamo giunti a questo punto in una notte. Stiamo sopportando le conseguenze del fallimento di politiche di non-proliferazione che, in passato, penalizzarono il Pakistan per il suo programma nucleare tagliando l’assistenza militare e rallentando il protocollo International Military Education and Training (IMET), che aveva portato centinaia di ufficiali pakistani ad addestrarsi negli Stati Uniti. Globalmente, l’IMET è stato uno straordinario successo che ha  legato generazioni di leader militari stranieri ai loro omologhi americani. Le passate sanzioni inflitte al Pakistan hanno minato le nostre relazioni bilaterali. Forse era inevitabile che gli ufficiali estromessi dall’IMET diventassero sensibili all’influenza degli estremisti.

Inoltre, l’amministrazione Bush, spingendo l’ex presidente Pervez Musharraf a indire poco sagge elezioni e rimuovendolo, di fatto, dal potere, hanno peggiorato l’instabilità di un Pakistan già fragile. L’operato di  Musharraf nella lotta al terrorismo ha lasciato molto a desiderare, e il generale non era un democratico. Ma rimuoverlo ha fatto tornare alla mente lo sgradito ricordo del colpo di stato contro il regime sudvietnamita di Diem, nel 1963,  che portò a una successione di governi sempre più deboli che favorì sensibilmente, alla fine, l’ascesa al potere dei comunisti. L’omicidio di Benazir Bhutto, anche se ovviamente imprevisto, è stata una diretta conseguenza del nostro eccessivo zelo elettoralistico.

Scongiurare questa catastrofe richiederà un notevole impegno da parte americana e senza dubbio provocherà resistenze da parte di molti pakistani, per tanti motivi. Dobbiamo rafforzare gli elementi filoamericani nelle forze armate del paese, in modo che possano estromettere dai ranghi gli islamisti più pericolosi; far arretrare i talebani; e, insieme al nostro maggiore impegno in Afghanistan, sconfiggere definitivamente le milizie che operano nella zona di frontiera. Tutto questo può significare che dobbiamo mettere da parte le nostre nausee  democratiche relativamente a una presa di potere dei militari, qualora il governo civile dovesse dissolversi. E sia.

Inoltre, dobbiamo sforzarci di rendere stabili, se non amichevoli, le relazioni indo-pakistane e premere su Islamabad affinché metta agli arresti domiciliari il proliferatore di armi atomiche e padre del programma nucleare pakistano, A.Q. Khan. Allo stesso tempo, dovremmo pensare a come portar via dal territorio pakistano quante più armi atomiche è possibile, mitigando in qualche misura le conseguenze di un eventuale crollo del regime.

I colloqui avuti la scorsa settimana dal presidente Obama con i presidenti di Afghanistan e Pakistan forniscono una chiara opportunità di intraprendere i passi necessari per mettere in sicurezza l’arsenale atomico pakistano e sconfiggere i talebani. La mancanza di decisione potrebbe invece portare, in Pakistan, a una sconfitta di dimensioni strategiche.

John Bolton, Senior Fellow dell’American Enterprise Institute, è l’autore di Surrender Is Not an Option:  Defending America at the United Nations and Abroad

Tratto da The Wall Street Journal

Traduzione Enrico De Simone