L’attacco a Mumbai costringe gli Usa a scegliere tra India e Pakistan
15 Luglio 2011
La “diplomazia del cricket” deve fallire. Stati Uniti e India sono di nuovo ostaggio delle trame jihadiste, dopo i tre attentati che mercoledì hanno colpito la città di Mumbai, causando 21 morti e 141 feriti. Le esplosioni erano coordinate – stesso orario, stessa dinamica – e hanno ridotto in macerie il Zaveri Bazar alle 18:54 locali, la zona del Teatro dell’Opera alle 18:55 e il quartiere Dadar nel centro di Mumbai qualche minuto più tardi. Al momento delle esplosioni in molti erano in strada, chi in viaggio verso casa, chi ancora al lavoro nel mercato o nei negozi vicino la Royal Opera House. I terroristi volevano un massacro.
Questi attentati si discostano nettamente dall’azione che nel 2008 uccise 166 persone. In quell’occasione, i gruppi Lashkar-e-Taiba (LeT) e Harkat ul-Jihad-e-Islami (HuJI), che si scoprirono essere legati a frange deviate dell’Isi (servizi segreti pakistani), utilizzaroo kamikaze. Questa volta, invece, gli ordigni sono stati fatti esplodere a distanza: tre cariche IED nascoste in un taxi, nella scatola di un contatore elettrico, in un ombrello appoggiato su un motorino. Questo metodo ricorda gli attacchi rivendicati dalla Indian Mujahideen (gruppo indiano poco organizzo) a Bangalore, Ahmedabad e Puna. La diversa modalità di azione potrebbero lasciar intendere l’estraneità del Pakistan, anche se non è da escludere una sua regia indiretta. In effetti, la Indian Mujahideen potrebbe aver realizzato gli attacchi su ordine dei gruppi pakistani, ma operando autonomamente all’interno del cosiddetto “Progetto Karachi”. L’Isi o una sua parte potrebbe aver pianificato le azioni per poi affidarle ai mujahedeen indiani e ad altre organizzazioni minori.
Islamabad protegge le forze anti-indiane e integraliste. Non è più un mistero, né un tabù dopo la morte di Bin Laden e le accuse lanciate pubblicamente dall’ammiraglio Mullen nei giorni scorsi. Non solo, gli obiettivi che i servizi pakistani perseguono non sono mai cambiati dal 2001: esercitare pressioni sull’India e non rinunciare all’influenza sull’Afghanistan, da utilizzare come retroterra strategico in caso di guerra contro Nuova Delhi. Dopo l’11 settebre, gli Usa imposero le loro condizioni con durezza, ma l’Isi non ha mai chiuso le porte ai Talebani e alle forze qeadiste. Una parte di Pakistan, indipendentemente dalle dichiarazioni del suo presidente Zardari – che condanna le stragi – non vuole accordi con l’India e, non potendo agire apertamente, lavora da dietro le quinte.
In questo quadro non è possibile omettere il delicato ruolo degli Stati Uniti nell’area, i suoi sforzi per uscire dal conflitto afghano in modo quantomeno dignitoso e i negoziati con i talebani per riuscire a pacificare il Paese. Rispetto a quest’ultimo punto il sostegno pakistano risulta di vitale importanza. L’India teme la trattativa in corso e attentati come quello di mercoledì rischiano di far saltare l’equilibrio di tutta la regione. C’è da aggiungere che gli Usa avranno bisogno del Pakistan anche durante il ritiro, contribuendo ad ingarbugliare ancora di più la situazione. D’altra parte, Washington punta molto sull’instaurazione di un rapporto privilegiato con la più grande democrazia del mondo: un’alleanza che nel lungo periodo potrebbe rivelarsi decisiva. Ma che condurrebbe gli Usa in un vicolo cieco, se questa dovesse richiedere maggiore risolutezza contro Islamabad.
Per ora, il governo di Nuova Delhi usa la massima cautela per non far deragliare il fragile processo di pace avviato qualche mese fa con la “diplomazia del cricket” e il vertice bilaterale tra i due ministri degli Esteri, fissato per il 26 luglio. In quell’occasione, si cercherà di raggiungere un’intesa sul Kashmir. Tale ipotesi spaventa naturalmente i jihadisti, che cercano di fomentare la tensione. Il segretario di Stato, Hillary Clinton, arriverà in India la prossima settimana. Il suo compito sarà "riaprire la partita".