L’avventura di Magdi, la provocazione di Benedetto, la censura del Corriere

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L’avventura di Magdi, la provocazione di Benedetto, la censura del Corriere

29 Marzo 2008

1. In una di quelle lettere tempestose che Federico Chabod indirizzò, pochi mesi prima di morire, ad Arnaldo Momigliano, si trova un’osservazione incidentale, che mi è tornata alla mente in questi ultimi giorni. Riguarda le conversioni religiose: in esse – notava lo storico aostano – «il momento dell’illuminazione viene attribuito, dal convertito, al miracolo divino (da s. Paolo a Lutero a Calvino), mentre ad una anche leggera analisi appare come lo sbocco logico di un lungo e lento processo evolutivo» (Roma, 5 novembre 1959).

Chabod aveva ragione e – al tempo stesso – torto. Non c’è dubbio che la conversione religiosa sia l’esperienza più complessa che un’anima (uso pour cause questo termine desueto) possa attraversare. Ed è fuori discussione che – quand’anche precipiti all’improvviso – in realtà essa sia preceduta da una lunga, spesso inconsapevole, preparazione, in cui si condensano acquisizioni culturali, esperienze personali, incontri significativi, traumi esistenziali.

Eppure tutto questo non basta, tant’è vero che non sono rare le persone che si fermano qui, senza mai oltrepassare la soglia%3A possono dirsi cristiane solo culturalmente. In taluni, invece, ad un certo momento, si ha come un «salto spirituale», che non deriva meccanicamente dalle esperienze precedenti: un qualcosa di inaudito, dopo il quale non si è più quelli di prima. E’ il momento del pianto dirotto (si pensi a quello dell’Innominato!), in cui si piomba in ginocchio e si adora: fu il «fuoco» attraverso il quale passò Blaise Pascal  il 23 novembre del 1654, dalle dieci e mezzo di sera fino a circa mezzanotte e mezza, quando si prostrò al «Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, e non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, certezza, sentimento, gioia, pace. Dio di Gesù Cristo». Lo psicologo lo potrà chiamare in vario modo (è un’esperienza che può essere ravvicinata al «colpo di fulmine» di un innamoramento straordinario), per il nuovo credente è qualcosa che gli piove addosso da Qualcuno, gratuitamente (cioè senza alcun merito da parte sua). Da qui il suo stupore e la domanda ricorrente: «perché proprio a me?». E’ il dono che – dalla tradizione cristiana – viene chiamato «grazia».

Ma Chabod aveva ragione quando affermava che lo storico (o l’osservatore del presente) si deve fermare sul limitare di questo passaggio: gli è concesso solo di ricostruire le esperienze esterne, le ragioni intellettuali di ciò che è accaduto, nella consapevolezza, tuttavia, che c’è un surplus che resta inafferrabile, che – come il trasumanare dantesco – «significar per verba/ non si porìa».

2. Tutto ciò mi è tornato alla mente – lo ripeto –  in questi ultimi giorni, di fronte alla clamorosa conversione al cattolicesimo di Magdi Allam, in occasione della quale – ancora una volta – molti hanno perso una buona occasione di tacere. A questo evento si collegano infatti diverse questioni, che – per essere rettamente giudicate – vanno tenute distinte.

Innanzitutto, si tratta di una «conversione» in un duplice senso: da una posizione agnostica all’intimo riconoscimento di un Dio personale e dalla religione musulmana a quella cristiano-cattolica. I due passaggi si sono intimamente intrecciati: si può dire che è «il Dio dell’Amore, della Fede e della Ragione» dei cristiani che ha conquistato Allam e lo ha fatto uscire dal suo agnosticismo precedente.

L’attenzione di molti si è appuntata sulla lettera pubblicata il giorno di Pasqua sul «Corriere della sera», in cui il giornalista  ha cercato di spiegare le ragioni del suo passo. Intorno a questa lettera sono accadute vicende che hanno dell’incredibile e che sono un indizio significativo, non solo di certo costume giornalistico, ma più in generale dello spirito del nostro tempo. E’ infatti accaduto (lo hanno gia segnalato Antonio Socci e Sandro Magister) che essa sia stata tagliata di circa un terzo della sua lunghezza (sul giornale di cui Allam è vice direttore ad personam!) e privata proprio della parte più squisitamente religiosa. In questa parte il catecumeno (seguendo un impulso tipico dei convertiti) cercava di rintracciare i barlumi, i primi indizi del suo itinerario successivo, e li ritrovava nell’insegnamento della madre «musulmana credente e praticante», che tuttavia l’affidò a scuole cattoliche del Cairo, nei valori qui ricevuti e nella familiarità con uomini e donne di fede cattolica. Non mancano cenni di grande interesse all’islam degli anni Sessanta in Egitto, che «corrispondeva sommariamente a una fede rispettosa della persona e tollerante nei confronti del prossimo, in un contesto – quello del regime di Nasser – dove prevaleva il principio laico della separazione della sfera religiosa da quella secolare» e  all’esperienza di  ateismo generazionale che il ventenne Magdi  visse al suo arrivo in Italia all’inizio degli anni Settanta, «tra i fumi delle rivolte studentesche e le difficoltà all’integrazione».

3. Ma rileggiamo  insieme la parte “censurata”:

“Il mio è un percorso che inizia da quando, all’età di quattro anni, mia madre Safeya, musulmana credente e praticante – per il primo della serie di “casi” che si riveleranno essere tutt’altro che fortuiti bensì parte integrante di un destino divino a cui tutti noi siamo assegnati –, mi affidò alle cure amorevoli di suor Lavinia dell’ordine dei Comboniani, convinta della bontà dell’educazione che mi avrebbero impartito delle religiose italiane e cattoliche trapiantate al Cairo, la mia città natale, per testimoniare la loro fede cristiana tramite un’opera volta a realizzare il bene comune.

Ho così iniziato un’esperienza di vita in collegio, proseguita con i salesiani dell’Istituto Don Bosco alle scuole medie e al liceo, che mi ha complessivamente trasmesso non solo la scienza del sapere ma soprattutto la coscienza dei valori. È grazie ai religiosi cattolici che io ho acquisito una concezione profondamente e essenzialmente etica della vita, dove la persona creata a immagine e somiglianza di Dio è chiamata a svolgere una missione che s’inserisce nel quadro di un disegno universale ed eterno volto alla risurrezione interiore dei singoli su questa terra e dell’insieme dell’umanità nel Giorno del Giudizio, che si fonda nella fede in Dio e nel primato dei valori, che si basa sul senso della responsabilità individuale e sul senso del dovere nei confronti della collettività. È in virtù dell’educazione cristiana e della condivisione dell’esperienza della vita con dei religiosi cattolici che io ho sempre coltivato una profonda fede nella dimensione trascendente, così come ho sempre ricercato la certezza della verità nei valori assoluti e universali.

Ho avuto una stagione in cui la presenza amorevole e lo zelo religioso di mia madre mi hanno avvicinato all’islam, che ho periodicamente praticato sul piano cultuale e a cui ho creduto sul piano spirituale secondo un’interpretazione che all’epoca, erano gli anni Sessanta, corrispondeva sommariamente a una fede rispettosa della persona e tollerante nei confronti del prossimo, in un contesto – quello del regime di Nasser – dove prevaleva il principio laico della separazione della sfera religiosa da quella secolare.

Del tutto laico era mio padre Mahmoud, al pari di una maggioranza di egiziani che avevano l’Occidente come modello sul piano della libertà individuale, del costume sociale e delle mode culturali ed artistiche, anche se purtroppo il totalitarismo politico di Nasser e l’ideologia bellicosa del panarabismo che mirò all’eliminazione fisica di Israele portarono alla catastrofe l’Egitto e spianarono la strada alla riesumazione del panislamismo, all’ascesa al potere degli estremisti islamici e all’esplosione del terrorismo islamico globalizzato.

 I lunghi anni in collegio mi hanno anche consentito di conoscere bene e da vicino la realtà del cattolicesimo e delle donne e degli uomini che hanno dedicato la loro vita per servire Dio in seno alla Chiesa. Già da allora leggevo la Bibbia e i Vangeli ed ero particolarmente affascinato dalla figura umana e divina di Gesù. Ho avuto modo di assistere alla santa messa ed è anche capitato che, una sola volta, mi avvicinai all’altare e ricevetti la comunione. Fu un gesto che evidentemente segnalava la mia attrazione per il cristianesimo e la mia voglia di sentirmi parte della comunità religiosa cattolica.

Successivamente, al mio arrivo in Italia all’inizio degli anni Settanta tra i fumi delle rivolte studentesche e le difficoltà all’integrazione, ho vissuto la stagione dell’ateismo sventolato come fede, che tuttavia si fondava anch’esso sul primato dei valori assoluti e universali. Non sono mai stato indifferente alla presenza di Dio anche se solo ora sento che il Dio dell’Amore, della Fede e della Ragione si concilia pienamente con il patrimonio di valori che si radicano in me.”

La lettera ha fatto il giro del mondo mutila di questa parte (la si può leggere integralmente nel sito di Allam) e inevitabilmente l’attenzione dei lettori è stata invece attirata da alcuni duri giudizi sull’islam, che nella stesura originaria non hanno quella centralità che invece acquistano nel testo pubblicato dal «Corriere».  

Così si è subito insinuato che quella conversione abbia avuto un carattere politico e qui si è cominciato a straparlare. E’ buona regola, anche per i laici, ma soprattutto per i cattolici,  di non giudicare la fede altrui: bona fides praesumitur, come dicevano i giuristi romani.  Allam ha cercato di raccontare le ragioni più profonde della sua scelta e su di esse  – può starne sicuro – continuerà a interrogarsi sovente, fra sé e sé, per il resto della vita:  certi giudizi sull’islam o sull’atteggiamento della Chiesa cattolica nei suoi confronti possono essere discussi, ma non danno a nessuno il diritto di entrare nella sua coscienza e giudicare (e magari condannare)  in base a  essi il gesto con cui egli ha messo la sua vita allo sbaraglio. Né il suo battesimo implica che la Chiesa, che lo ha accolto nel suo seno attenta alla qualità della sua fede, avalli in toto le posizioni e i giudizi etico-politici di Magdi Cristiano Allam.

E’ proprio di tutti i convertiti (da s. Paolo in poi) usare parole aspre per le proprie esperienze (anche religiose) precedenti, perché avvertono l’esigenza di sottolineare tutto il valore della vita nova in cui sono entrati: e non è infrequente – da parte loro – il bisogno (espresso in modi quasi irrispettosi) che la Chiesa di cui ormai fanno parte, avverta con pari drammaticità (e, direi quasi, unilateralità) i problemi che li hanno spinti al grande passo.

4. Altro problema è il rilievo mediatico che è stato dato all’evento. Anche qui si è spesso parlato a vanvera: si è ripetuto che le conversioni devono restare eventi eminentemente privati. E quando mai? Dalle origini del cristianesimo in avanti, esiste un’intera biblioteca di analisi e narrazioni con cui i convertiti hanno cercato di dar conto delle proprie esperienze. Fra l’altro, tali «confessioni» serbano un carattere edificante (anche qui uso una parola fuori moda, che ha anzi ormai  un’accezione negativa): nel senso che danno al lettore il senso che quello che è già avvenuto, possa accadere di nuovo, che si tratti di un’esperienza possibile a uomini e donne di ogni epoca e di qualunque condizione.

Ma – parliamoci chiaro – è stato soprattutto il battesimo pubblico e  solenne di un musulmano che ha sconcertato molti ambienti. Si è parlato di una «provocazione» da parte di Benedetto XVI. Si può – se intesa rettamente – accettare codesta definizione: nel senso evangelico che necesse est enim ut veniant scandala . Ma – si badi bene – si tratta di una provocazione in più direzioni.

Verso il «mondo»: il Pontefice ha inteso ribadire ancora una volta che è possibile – anche oggi – tentare l’avventura della scelta religiosa, mettersi in gioco e contravvenire i tabù di una società che ha perso quasi completamente la dimensione del sacro, sfidando lo scetticismo diffuso, lo stupore accondiscendente, le maldicenze interessate di chi vorrà ritrovare –  alla base di quella scelta –   motivi ovviamente «inconfessabili».

Verso la Chiesa: Benedetto XVI ha voluto sanzionare solennemente  il principio (che dovrebbe essere ovvio, ma non lo è) che i seguaci delle altre religioni possono salvare la propria anima anche restando legati alla loro fede, ma, se bussano alla porta della Chiesa, essa dovrà essere loro aperta, costi quello che costi. E che la Chiesa non può rinunziare ad annunziare il Vangelo e ad operare  per la conversione delle genti: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15). La notevolissima Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione della Congregazione per la dottrina della fede lo ha recentemente ribadito (3 dicembre 2007).

Verso l’Islam: questo, forse, è la sfida più difficile. Il dialogo fra islamici e cristiani è possibile e auspicabile, ma è necessario che essi trovino alcuni presupposti comuni: la libertà religiosa, quindi il diritto di scegliere secondo coscienza la propria appartenenza religiosa,  è uno dei principali. E inutile produrre intricati documenti teologici per cercare punti di contatto, ove questo principio non venga accettato. Con il solenne battesimo di Allam, Benedetto XVI chiede al mondo musulmano una prova di maturità e di credibilità proprio su questo piano: una sua risposta equilibrata varrà come la proclamazione di un principio, che al suo interno, è tutt’altro che scontato.